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atto primo 125
Alces.   Tel dissi;

e tel ridico, non dovrai tu il figlio
piangere; io pianger non dovrò il marito.
Salvo Adméto, lamento altro non puossi
udir quí omai, che di gran lunga agguagli
quel che apprestava il morir suo. D’un qualche
pianto, ma breve, e misto anco di gioja,
si onorerá la vittima scambiata
per la vita d’Adméto. Ai Numi inferni
la omai giurata irremissibil preda
spontanea, son io.
Feréo   Che festi! oh cielo!
Che festi? e salvo l’infelice Adméto
credi a tal patto? Oh ciel! viver puot’egli
senza te mai? degli occhi suoi la luce
tu sei: tu, l’alma sua; tu, piú diletta
a lui, piú assai, che i suoi pur tanto amati
genitori; piú cara, che i suoi figli;
piú di se stesso, cara. Ah, no; non fia
ciò mai. Sul fior di tua beltade, o Alceste,
perir tu prima, per uccider poscia
non che il tuo sposo stesso, anco noi tutti
che t’adoriam qual figlia? Orba la reggia,
orbo fia ’l regno, ove tu manchi. E i figli,
pensastil tu? quei teneri tuoi figli,
che farian senza te? Tu, d’altri eredi
liete puoi far le Tessale contrade:
d’ogni gioja domestica tu fonte,
tu sei di Adméto la verace e prima
e sola vita. Ah, non morrai, tel giuro,
finché morir poss’io. Questo è, ben questo,
è il capo, cui tacitamente or chiede
l’Oracolo. Io, tronco arido omai,
quell’io mi son, che dee morir pel figlio.
Gli anni miei molti, e le speranze morte,
e il corso aringo, e la pietá di padre,