Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/122

116 alceste prima
Ercole   Favella:

che appien possiedi quanto mai bramasti.
Adméto Oh volto, oh forme della sposa mia
amatissima! Or dunque, oltre ogni speme,
io che piú mai non mi credea vederti,
or ti posseggo?
Ercole   Or sí, tu la possiedi:
né a te la invidj alcun dei Numi omai.
Adméto O del massimo Giove altera prole,
deh felice-sii-tu! chi procreotti,
deh ti conservi! che tu solo a vita
m’hai ricondotto. Ma costei, dall’Orco
come ritratta a questa luce or l’hai?
Ercole Pugnando io dei Démoni col Sire.
Adméto Morte, vuoi dirmi: e dove l’affrontasti?
Ercole Presso alla tomba stessa io l’afferrava
con mani insidíose.
Adméto   Or, perché dunque
muta si sta la donna mia?
Ercole   Non lice
a te l’udire i detti suoi per anco,
pria ch’ella appien da questi inferni Dei,
giunto il dí terzo, abbia redento il suo
giá consecrato capo. Ma tu intanto,
entro traggila; è tua: benigno poscia,
da quel giusto che sei, te provin sempre
gli ospiti, Adméto. Addio. Volo alla pugna
ch’io proponeami giá, di quí partendo,
far pel figlio di Sténelo, Euristéo,
Re di Micéne.
Adméto   Deh, con noi rimanti;
ospite mio ti voglio.
Ercole   Altra fiata
ciò fia poi: forza intanto emmi, ch’io sudi.
Adméto Felice dunque abbi l’impresa: e questa
mia reggia poscia al tuo tornar ti accolga.