mostranla i fregi e il giovenil vestire);
l’albergherei fors’io, dov’hanno stanza
quei del corteggio mio? ma, come pura
starebbesi ella a giovanetti in mezzo?
Non sono, Ercole, facili a frenarsi
i giovanetti: ed io d’una tua cosa
provida cura prendo. Od io ricetto
lá nel talamo forse le darei
della sepolta Alceste? ahi, come trarre
questa or al letto di quell’altra mia!
Doppio il biasmo ne temo: ogni uom di Fere
me traditor potria nomare a dritto,
s’io dell’estinta ottima moglie in vece,
assunto avessi al letto mio compagna
una altrui giovincella. E qual non deggio
riguardo, inoltre, a quell’adorata ombra,
la cui memoria d’onor tanto è degna. —
Ma tu, qual che ti sii, sappilo, o Donna,
le forme, e i modi, e la statura stessa
d’Alceste hai tu. Deh, trammi (oimè!) dagli occhi,
Ercole, per gl’Iddii te ne scongiuro,
trammi dagli occhi or questa donna; ond’io,
giá deserto, or non pera. — E’ mi par viva
veder la moglie, in rimirar costei:
palpita il core a un tal aspetto, e sgorgami,
dagli occhi un fonte. Ahi lasso me, deh quanto
amaro giá da questo lutto io colgo!
Coro Certo, infelice ell’è tua sorte, o Adméto;
ma sopportar quanto a te manda il Nume,
forza t’è pure.
Ercole Almen da Giove io tanta
possanza avessi, onde a quest’alma luce
dai sotterranei chiostri ricondurre
la tua donna, giovandoti in tal guisa!
Adméto Ben conosco il cor tuo: ma ciò, chi ’l puote?
Non ponno i morti in luce tornar mai.