Al rombo del cannone/Un condottiero francese a Napoli
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Un condottiero francese a Napoli.
Dopo gli allori còlti al servizio di Caterina II contro i Turchi, dopo la meno fortunata partecipazione alla guerra della prima Coalizione contro la Francia, l’avventuroso Ruggero di Damas, trovandosi di passaggio a Napoli per andare a riprendere servizio in Russia, apprese che anche il regno delle Due Sicilie stava per entrare nella gran guerra; e allora, all’idea di poter menare subito le mani, l’uomo di guerra scrisse a Guglielmo Acton, primo ministro di Ferdinando, per chiedere di servire nell’esercito napolitano. Poichè questo era posto in gran parte sotto il comando di generali stranieri, quali il principe di Assia Filippstadt, il principe di Wittenberg, il cavalier di Sassonia, il barone di Metch, il generale Bourcard — generalissimo era l’austriaco Mack, successore dello svizzero Salis e dell’ungherese Zehenter — il Damas poteva sperare che la sua domanda avrebbe ottenuto buon esito.
Favorevoli gli furono, infatti, le disposizioni dell’Acton e del Re; ma il cavalier di Sassonia, concepito un sentimento di gelosia contro di lui, riuscì, per mezzo della propria amante, che era la principessa d’Assia, a montare Maria Carolina in modo da farla opporre alla nomina. Ne seguì un duello fra il Tedesco ed il Francese, finito con un colpo di spada che il primo diede al secondo; ma allora, e come se questo anticipato tributo di sangue avesse dimostrato la serietà dei propositi del Damas, gli ostacoli cessarono, e il fuoruscito francese, nonchè colonnello russo, divenne maresciallo di campo napolitano.
I.
Da quel giorno si può dire che Ruggero di Damas facesse di Napoli la sua seconda patria. Studiate le condizioni interne del regno e la sua situazione in Europa, egli formò sull’una e sulle altre i più sensati giudizii. Le Due Sicilie, di cui l’Acton era «il cattivo genio», potevano, grazie alla giacitura geografica, attenersi alla neutralità; «ma un governo può saviamente fondare e restringere le sue precauzioni su questo calcolo?» A parte che il cataclisma minacciava di coinvolgere tutti gli Stati italiani, come dimenticare che «lunghi secoli non spegneranno le pretese della Casa d’Austria su su questa parte d’Europa?...» Prima della Rivoluzione di Francia, l’Austria, effettivamente, era stata la potenza da cui Napoli aveva più dovuto guardarsi; capovolti poi tutti i rapporti europei per effetto dell’invasione repubblicana e della coalizione formatasi per contrastarla, l’alleanza, o almeno la buona armonia con l’Austria diveniva necessaria; sennonchè, considerata la mentalità austriaca, l’accordo non poteva riuscire «utile e scevro di pericoli» senza «un esercito napolitano di cinquantamila uomini che garantisca la reciprocità dei vantaggi delle due potenze».
Non si poteva dir meglio. E l’esercito era già costituito; disgraziatamente la divisa non bastava a formare i soldati, in un paese dove, per un lungo ordine di cause storiche, politiche, sociali, la milizia era considerata, a giudizio di Pietro Colletta, come «lo stato più basso della nazione». Il Damas fece del suo meglio per infondere lo spirito militare nelle sue truppe, ma la breve campagna, se cominciò col portare i Napolitani a Roma, finì con la sconfitta e la rotta — che il generale francese, a differenza di molti, di troppi altri, non addebita alla codardia dei soldati. È bello anzi vedere questo Francese, cavalleresco verso i repubblicani di Francia contro i quali combatte, esser giusto con i Napolitani che comanda, e lodarli contrariamente a quanto di male ne dissero coloro stessi che avrebbero dovuto esserne i naturali difensori e aiutatori, invece di renderne propriamente disperate le operazioni per effetto della cieca imprevidenza e della presunzione folle.
Durante i preparativi, nè lo Stato maggiore nè il Genio pensarono di gettare un ponte sulla Melfa, che le truppe dovevano pure oltrepassare; giunta l’ora, i soldati dovettero traversarla a guado. Il Damas dispose due squadroni di cavalleria a monte del passaggio, per rompere un poco la corrente, e fece entrare nel fiume la fanteria per plotoni, a file serrate, con gli ufficiali in testa: quantunque la piena prodotta dalle recenti piogge investisse gli uomini fino al petto e ne travolgesse una gran parte, il passaggio fu compito «col massimo ordine». Per l’insipienza dei capi e per l’inclemenza della stagione quell’esercito improvvisato giunse a Roma con le armi arrugginite, le scarpe perdute, l’artiglieria dispersa, una parte dei muli morti, i carriaggi a cinque marce addietro: «la guerra dei Sette Anni non aveva altrettanto sdrucito gli eserciti allora in azione». Elementare prudenza sarebbe stato, dunque, ristorare, riordinare e rifornire le truppe prima di procedere oltre: invece esse ebbero l’ordine di avanzare immediatamente.
Il Damas rigetta sulla cattiva disposizione dell’ordine di attacco la disfatta della sinistra, e narra con singolare efficacia la drammatica situazione in cui si trovò — «il momento più grave di tutta la mia vita» — quando, dopo il felice successo del combattimento di Civita Castellana, dove i Napolitani conquistarono le alture alla baionetta, e sul punto d’impegnare la battaglia che doveva ributtare i Francesi oltre il fiume, ricevette l’ordine, portante la data del 10 dicembre, di ritirarsi immediatamente dietro Roma in seguito allo scacco patito dal Mack, e di trovarsi il 12 a Velletri: ordine e notizie che, per un fatale ritardo, gli pervenivano il 13 a sera! Isolato dal grosso dell’esercito in rotta, a cinquanta miglia dal punto in cui avrebbe dovuto trovarsi fin dal giorno innanzi, senza la possibilità di far conoscere il ritardo del messaggero e di chiedere quindi altre istruzioni, il Damas si salvò e salvò il corpo d’esercito posto sotto il suo comando con la bellissima mossa di fianco sopra Orbetello, allora possessione del Re di Napoli. La marcia notturna con la quale egli la iniziò fu talmente accorta, che il comandante francese dichiarò di esserselo visto «sgusciare tra le mani come un pezzo di sapone», e del buon esito delle azioni compite durante la ritirata egli attribuì il merito ai suoi soldati; ma il merito fu anche suo, poichè quelli obbedienti ad altri capi meno valenti e meno accorti non si portarono bene. A Toscanella i suoi si mantennero saldissimi perchè egli seppe fare appello al sentimento dell’onore, dimostrando loro che la baldanza e la temerità dei Francesi era tutta fondata sul disprezzo che nutrivano contro i Napolitani. «Kellermann spiegò la sua colonna non appena il terreno glielo consentì; la mia artiglieria disordinò quello spiegamento; poi, non appena fu compìto, il generale francese fece battere la carica e con le grida proprie alle truppe repubblicane si precipitò sulla mia linea; il fuoco della moschetteria cominciò, si protrasse a lungo molto nutrito, e i Napolitani diedero prova del miglior contegno.» Il corpo d’esercito fu così disimpegnato e condotto a salvamento dentro Orbetello — dove il Damas si fece curare una terribile ferita alla mascella riportata nel fitto dell’azione.
Lodi non minori egli tributò ai suoi uomini quando, promosso luogotenente generale dopo la caduta della Repubblica Partenopea — durante la quale aveva raggiunto la Corte a Palermo e preparato un piano di difesa della Sicilia — gli fu dato l’incarico di riordinare le milizie del Regno e d’intraprendere la marcia attraverso la Toscana per dar mano agli Austriaci — i quali intanto negoziavano la pace per loro proprio conto, senza comprendervi gli alleati napolitani!... La presa di Siena, la strenua resistenza opposta ai Cisalpini del generale Pino e la salvezza di quella legione furono dovute, dice il Damas, «allo zelo ed alla buona volontà» delle truppe che egli comandava. Par quasi che egli voglia riversare su chi ne è meritevole la lode tributatagli dal Colletta nel riferire quei fatti — e tanto più dispiace che il Botta li abbia narrati come una serie di disastri. Più giusto è il Marulli quando osserva, non senza una punta d’ironia, che il Damas era «predestinato alle ritirate»; ma ancora più grande è la malinconica ironia dello stesso condottiero, quando scrive: «Io ho gran pratica delle nazioni sconfitte, e siccome non ero nato per questo, soffro crudelmente di tale regime. Se le disaccortezze, le goffaggini, le sciocchezze non avessero nessuna parte nelle disgrazie, farei di necessità virtù; ma veder sempre le vittime sacrificate dalle loro proprie buaggini rende impossibile la stessa pietà.» E questo egli non lo dice più a proposito delle sconfitte napolitane, ma delle austriache!...
Della sua nobiltà d’animo è da addurre un’altra prova. Nelle trattative dell’armistizio che preannunziò la pace di Firenze, il comandante repubblicano — Gioacchino Murat — pretese che il Re di Napoli licenziasse il suo ministro Acton. Ma il Damas, quantunque avesse poca ragione di lodarsi di costui, ricusò di ascoltare ogni altra condizione finchè quella non fosse ritirata: «Rigettai formalmente un articolo che offendeva direttamente la persona del Re; osservai che la scelta dei ministri, depositarii della confidenza sovrana, era riservata ai monarchi, e che per nessun motivo un governo straniero poteva immischiarvisi. Murat non ne parlò più....» E l’Acton, per tutta dimostrazione di gratitudine, fece di lì a poco una tale scenata al Damas, che il generale, dopo avergli detto il fatto suo, presentò le dimissioni al Re tra il plauso di quanti — ed erano tanti, a Napoli! — non potevano tollerare lo sgoverno del ministro. «Lasciai Napoli sfigurata dalle sciagure prodotte dal suo ministro e tremante sotto il suo flagello oppressore. Augurai che il tempo riparatore mi mettesse un giorno in grado di rendere nuovi servigi ad un paese e ad un esercito che mi avevano sempre dimostrato confidenza ed usato benevolenza.»
II.
L’occasione si presentò tre anni dopo. Richiamato dai sovrani all’approssimarsi della nuova crisi, egli lasciò Vienna, dove si era ritirato, e giunse a Napoli il 5 gennaio 1804. Ebbe a sopportare nuove prove della nemicizia dell’Acton e passò nove mesi nel Regno da semplice spettatore; ma il 12 ottobre fu nominato ispettore generale dell’esercito. Non secondato come e quando occorreva nei suoi disegni di riordinamento, mentre l’Acton dava al Re false cifre delle truppe disponibili, non fu colpa del Damas se le Due Sicilie si trovarono impreparate al nuovo assalto francese. Russi ed Inglesi dovevano aiutarle; ma anche quegli alleati mandarono forze molto minori delle promesse; peggio ancora: aggravarono la mano su Napoli con le esorbitanti esigenze e le oppressive imposizioni — e al momento buono decisero di ritirarsi! Le loro esitazioni avevano disgustato il Damas, il quale aveva dato ragione ai suoi soldati, scontenti e disgustati degli ordini e dei contrordini e delle sofferenze a cui le marce e contromarce inutili li avevano esposti. Il rigetto della sua proposta di tentare la difensiva sul Volturno era stato definito dallo stesso generale russo Anrep «un’infamia»; e la fuga degli alleati portò al colmo lo sdegno del prode Francese. «Al loro arrivo, mi ero proposto di offrirli come modelli ai miei soldati poco agguerriti, ed eccomi invece ridotto a sperare che dimenticassero il vergognoso esempio!...» Disgraziatamente essi non lo dimenticarono a Campotenese, dove pure il Damas fece il possibile per salvare la situazione e si battè, a testimonianza dell’universale, con coraggio «da leone».
Un centinaio di lettere inedite di Maria Carolina, raccolte in appendice alle Memorie, attestano la fiducia che, nonostante il rovescio, egli continuò a godere da parte della Corte: a Vienna, dove si ritirò ancora una volta, servì la Regina, per desiderio di lei, da consigliere e da informatore. Ma la gratitudine che egli le portò non gl’impedì di giudicarla secondo coscienza. Certo, non è da stupire se il Damas insiste spesso, segnatamente in principio, sulle buone qualità di Maria Carolina; ma poi comincia a distinguere, e la dice provveduta «più d’immaginazione che di carattere, più di bisogno d’agire che d’abitudine di lavorare», ed anche di «troppa diffidenza», di «troppa effervescenza» e di troppo poca «perseveranza». Riconoscendone l’ingegno, le attribuisce il genio degli «intrighi», ed osserva che ha agito nel modo più pregiudizievole alla sua reputazione ed al Regno. «La vanità, l’inconseguenza, la petulanza sconsiderata, l’ambiguità dei pensieri le hanno fatto perdere il Regno di Napoli. Gli stessi inconvenienti, difetti ed indomabili impulsi le fanno ora (nel 1812) perdere il governo della Sicilia.» Mai cotesta donna, «a cui nessuno può negare ciò che si chiama disgraziatamente spirito, ha avuto abbastanza giudizio da governare il suo cervello, le sue azioni e le sue stesse parole. Ha esasperato e doveva esasperare Napoleone; ha esasperato e doveva esasperare gl’Inglesi, e se il cielo le avesse accordato l’impero del mondo e mille anni di vita, lo avrebbe perduto a poco a poco senza che una sola volta una sciagura avesse esercitato tanto effetto su lei da fargliene scansare un’altra. È nata per imbrogliare, per ostacolare tutto ciò in cui si mescola, e morrà disgraziata, dopo aver fatto tanti disgraziati da una parte quanti ingrati dall’altra, con un cuore eccellente e le migliori intenzioni del mondo. Io sono per buona sorte esente dal rammarico di non aver potuto moderarla negli ultimi sei anni, perchè la ragione, la buona fede, la lealtà, l’amicizia non hanno avuto mai il minimo impero su lei. Chiunque contraria la sua folle vivacità comincia tosto a divenirle sospetto....» Anche nell’esilio, «quantunque spenta moralmente, fisicamente e politicamente», egli non dubita che «cerchi ancora d’intrigare».
III.
Il giudizio del Damas conferma dunque, in fondo, con qualche riserva e qualche concessione ammissibile, quello della storia, ed in un solo punto è pienamente favorevole alla Regina, alla donna: in quanto concerne i suoi costumi. Contrariamente all’opinione comune, il Damas dice che, se pure, dopo il matrimonio, Maria Carolina ebbe sempre qualche amante, «nessuno di costoro, fino a quando ella non fu più in età di procreare, ottenne da lei gli estremi favori, e nessuno godette mai dell’intera sua confidenza: ecco ciò che non si crederà, e di cui ho la certezza».
È doveroso notare questa testimonianza, che farà molto piacere all’ultimo storico inglese della Regina. Nei due volumi su Lord Nelson and Lady Hamilton e negli altri due intitolati The Queen of Naples and Lord Nelson, John Cordy Jeaffreson si è studiato di rivendicare la fama dell’Austriaca. Come donna, egli la giudica «supremamente buona»; politicamente, attribuisce a lei tutti i meriti che finora gli storici nostri avevano assegnati al Tanucci, e va fino a dire che, proponendo l’accordo degli staterelli italiani per far argine ai Francesi, la Regina absburghese «anticipò il grido garibaldino per l’unità d’Italia!...»
Questa apologia della sovrana non sarebbe riuscita possibile se non fosse stata preceduta dalla riabilitazione della sua sviscerata amica Emma Lionna; ed il Jeaffreson, senza spingersi fino a paragonare l’ex-cortigiana londinese, come fece il Paget, a Giuditta ed a Giovanna d’Arco, tenta scagionarla dalla maggior parte delle accuse e di metterla nella miglior luce compatibile con le traversie della sua vita.
Intimamente connesso a questi due tentativi doveva esser quello di cancellare la macchia che il sangue dei Napolitani del 1799 stampò sulla divisa, per l’innanzi immacolata, di Nelson. Secondo il Jeaffreson, la condotta dell’ammiraglio fu tutta ammirevole; la capitolazione stipulata dai Partenopei col Ruffo, luogotenente del Re, e controfirmata dai rappresentanti esteri, compreso l’inglese, fu «scandalosa» ed «infame», e Nelson, annullandola, non fu «minimamente influenzato dalla passione per lady Hamilton»: egli non fece altro che obbedire agli ordini impartitigli dal suo governo; esercitò anzi «una savia discrezione» e non commise «nessuna mancanza contro l’umanità» mandando il «traditore» Caracciolo dinanzi alla corte marziale: i provvedimenti presi per recuperare Napoli furono «terribili», ma «non abbastanza severi»; è anche «ridicolo» insistere nell’osservare che Ferdinando avrebbe dovuto concedere un’amnistia generale; e se la San Felice addusse la gravidanza perchè ritardassero il suo supplizio, il pretesto non poteva stupire «venendo da una donna così bene provvista di amanti....» In poche parole: tutto quanto si disse in difesa delle vittime e contro il Re, la Regina, la Hamilton e Nelson, fu «menzogna», fu «velenosa invenzione dei libellisti liberali».
Ruggero di Damas non era liberale; era, come abbiamo visto, nemico acerrimo della Rivoluzione di Francia, paladino dei Borboni di Francia e di Napoli, alleato degli Austriaci, dei Prussiani, dei Russi e degli Inglesi nella lotta contro la Repubblica e l’Impero. E Ruggero di Damas, testimonio oculare, esce dal sepolcro attestando che «Nelson aveva molto da fare per riscattare le sciagure da lui cagionate a Napoli perchè si dimenticassero quelle alle quali ha contribuito nella riconquista del Regno.... Egli aveva associata milady Hamilton agli onori del trionfo; l’ambizione di lei divenne rivale della gloria di lui, e la gloria ne andò di mezzo.... Tutto si ridusse comune tra loro: denaro, difetti, vanità, torti d’ogni specie. Nelson non era più altro che una caricatura di Rinaldo, schiavo d’una sciocca Armida senza pudore e senza magia....»
7 settembre 1917.