Al rombo del cannone/Paesaggi di pace e paesaggi di guerra

Paesaggi di pace e paesaggi di guerra

../Romanzi di guerra/II - La famiglia Valadier ../Indice IncludiIntestazione 9 novembre 2018 25% Da definire

Paesaggi di pace e paesaggi di guerra
Romanzi di guerra - II - La famiglia Valadier Indice

[p. 226 modifica]

Paesaggi di pace e paesaggi di guerra.

Tra i Francesi amici nostri, Gabriele Faure ha da tempo un posto eminente: la maggiore e miglior parte della sua produzione letteraria è consacrata - l’espressione religiosa non sembri impropria - all’Italia. I tre volumi delle Heures d’Italie, oltre quello delle Heures d’Ombrie, e gli altri quattro sul Pays de St. François d’Assise, sulla Via Emilia, sulla Route des Dolomites e Autour des lacs italiens, sono i documenti della passione con la quale egli ha studiato il nostro paese: passione, e non semplice curiosità, o diligenza, o interesse, o dottrina: passione vera e profonda, tenace e fervido e nostalgico amore. Uno degli stessi suoi romanzi, l’Amour sous les lauriers-roses, si svolge in Italia, sul lago di Como, e il paesaggio italiano è il galeotto che sospinge gli occhi a Maddalena Frémeuse ed a Renato Seillon, che scolora i loro visi ed unisce le loro bocche.... [p. 227 modifica]Stendhal, altro italiano d’elezione, disse che un paesaggio è uno stato d’animo; il Faure, stendhaliano nel sangue, va un poco oltre: il paesaggio è per lui quasi un personaggio: sente, vive, parla, suggerisce, persuade. Paysages passionnés, appunto, intitolò l’autore una specie di antologia di pagine descrittive dove i luoghi non sono tanto rappresentati come apparenza, quanto interpretati come espressione. Ed oggi egli pubblica un volume di Paysages littéraires meritevolissimo di essere raccomandato ai nostri lettori, non foss’altro perchè una buona metà dei capitoli concerne l’Italia.


I.

È curioso scoprire, per esempio, le stranezze e le contraddizioni dei giudizii dati intorno ai più singolari aspetti del nostro paese da un luminare della letteratura paesista, sceso ben sei volte nella Penisola: il visconte di Chateaubriand.

Cominciamo col notare che nel Genio del Cristianesimo le pagine concernenti l’Italia e gli artisti italiani furono composte di maniera, prima che l’autore passasse le Alpi; quando le valica, nel 1803, resta deluso perchè [p. 228 modifica]non trova la pianura appena scavalcato il Moncenisio; giudica bello l’effetto dei dintorni di Torino, ma "ci si sente ancora la Gallia: credevo di trovarmi in Normandia"; la metropoli piemontese è "d’aspetto un poco triste"; i campi lombardi gli piacciono, ma non il Duomo di Milano, perchè "il gotico, e lo stesso marmo, mi sembrano stonare col sole e con i costumi italiani"; arrivando a Napoli, non è impressionato dal paesaggio, "fertile, ma poco pittoresco"; i luoghi virgiliani gli offrono uno spettacolo "magico" bensì, ma non "grandioso". Dal Vesuvio contempla "uno dei più bei paesaggi del mondo"; ma il grandioso, l’imponente, l’affascinante è da lui trovato, finalmente, a Roma. "Ci sono, finalmente! Tutta la mia freddezza è svanita. Sono accasciato, perseguitato da ciò che ho visto...." Tanta è stata la sua freddezza, che certi passi del Voyage en Italie sono più aridi delle indicazioni d’una guida e d’un catalogo; ma a Roma, e dinanzi alla campagna romana segnatamente, il poeta della solitudine e delle rovine prova un’impressione profonda: profonda a segno, che dopo averla espressa nella lettera del 10 gennaio 1804 al Fontanes, egli quasi s’ingelosisce quando altri dopo di lui osa ancora descrivere quei luoghi, dei quali si stima senz’altro scopritore: "i viaggiatori francesi ed inglesi venuti dopo di me hanno segnato ogni loro passo dalla [p. 229 modifica]Storta a Roma con altrettante estasi: il signor di Tournon segue la traccia d’ammirazione che io ho avuto la fortuna d’indicare". Ed a Roma vorrebbe morire: "Se avrò la ventura di finire qui i miei giorni, ho fatto in modo da avere a Sant’Onofrio un cantuccio adiacente alla camera dove il Tasso spirò. Nei momenti perduti della mia ambasceria, alla finestra della mia cella, continuerò le mie Memorie. In uno dei più bei siti del mondo, fra gli aranci e le querce, con Roma intera sotto gli occhi, ogni mattina, mettendomi all’opera fra il letto di morte e la tomba del poeta, invocherò il genio della gloria e della sventura...." Non potendo appagare questo voto, tornato in Francia e ripartitone per l’esilio del 1832, egli scende in Isvizzera e si ferma alle porte d’Italia, a Lugano, dove ancora una volta prova la tentazione di fermarsi e morire. "Finirò dunque le mie Memorie sulla soglia di questa classica e storica terra dove Virgilio e il Tasso cantarono, dove tante rivoluzioni si compirono? Rimembrerò il mio destino di Bretone dinanzi allo spettacolo di queste montagne ausonie? Se il loro velario si alzasse, mi scoprirebbe le pianure lombarde; di là, Roma; di là, Napoli, la Sicilia, la Grecia, la Siria, l’Egitto, Cartagine; plaghe remote che misurai, io che non posseggo tanto di terra quanta ne premo con la pianta del piede...." Ma l’incredibile è che [p. 230 modifica]questo romantico errante, questo ricercatore e amatore di luoghi insigni per natura o storia od arte, arrivato nel 1806 a Venezia, donde salperà verso l’Oriente, non solamente resta freddo dinanzi a quella meraviglia del mondo, ma sente il bisogno di dichiarare nella lettera al Bertin: "Questa Venezia, se non m’inganno, vi dispiacerebbe quanto a me. È una città contro natura....", soggiungendo prove talmente puerili del suo giudizio, da sollevare giustamente lo sdegno dei Veneziani: articoli di gazzette ed appositi opuscoli daranno sulla voce al temerario, e qualcuno dichiarerà di non sapere se prendersela più con la sua "cattiveria" o con la sua "stupidità".

È vero che ventisette anni dopo, nel 1833, egli si ricrede o scioglie un inno alla città delle lagune: "Si può, a Venezia, credersi sul ponte d’una superba galera all’àncora, sul Bucintoro, dove vi diano una festa e dal cui bordo scopriate mirabili cose...."; è vero che egli riesprime il desiderio di vivere e morire anche qui: "Perchè non posso chiudermi in questa città in armonia col mio destino, in questa città dei poeti, dove Dante, Petrarca e Byron passarono?..." ma il Faure nota argutamente come l’improvviso infatuamento dopo il disprezzo fosse determinato dalla voga data a Venezia dai nuovi scrittori stranieri, dal Byron precisamente.

Si potrebbe, dunque, trovare qui una prova [p. 231 modifica]di ciò che non era per altro ignoto: della poca sincerità dello scrittore. Il presuntuoso stimatosi quasi inventore della poesia della campagna romana, si mette ad ammirare la già denigrata Venezia per amore di byroneggiare!... Ma c’è, sotto un altro aspetto, anche di peggio. Egli si lagna perchè nel 1833 non ritrova le rive del Brenta quali erano la prima volta che le percorse: "L’Austria è venuta: essa ha rimesso la sua cappa di piombo sugl’Italiani e li ha costretti a ridiscendere nel loro sepolcro": osservazione amarissimamente vera, che ha il solo difettuccio di esser fatta da uno dei più illustri tirapiedi della Santa Alleanza, dal congressista di Verona, dal turiferario della "miracolosa" Coalizione e della diplomazia del 1814, del ’15 e del ’22 che "fondò nell’avvenire i diritti dei sovrani e dei popoli, e la sicurezza e la libertà dell’Europa!".

Il Faure non fa critica storica, nel suo bel libro, e neanche semplicemente letteraria; tuttavia egli non tralascia di rilevare quel tanto di falsità che c’è in qualche pagina italiana di Giorgio Sand. La celebre scrittrice, l’amatrice famosa ha piantato a Venezia il povero Alfredo infermo e se n’è andata col suo Pagello a Bassano: la passeggiata di due giorni nei dintorni della città veneta diventa una "spedizione" nel cuore delle Alpi; la novelliera dichiara d’essersi "scorticate le mani e le ginocchia", per attingere [p. 232 modifica]le estreme "solitudini" e l’"ultima vetta"; soggiunge ancora d’essersi creduta in America, negli "eterni deserti che l’uomo non ha potuto ancora conquistare sulla natura selvaggia....". Con lo stesso spirito di verità lo Chateaubriand l’aveva gabellato per un viaggio di scoperta nei deserti dell’America settentrionale quello che un critico, "spietato" secondo il Faure, ridusse alle modeste proporzioni di un’escursione al Canadà....


II.

"Spietata" veramente suole riuscire la critica quando si attenta di scemare o distruggere il fascino esercitato dai grandi scrittori; ma è colpa della critica se i grandi scrittori, e le grandi scrittrici, non hanno tutti una grande anima?

Per buona sorte, Gabriele Faure non va incontro a delusioni quando sceglie altri soggetti, più nobili e puri. Giustamente persuaso che non è possibile evocare i genii se non nel quadro che fu loro familiare, egli ascende in reverente pellegrinaggio il poggio di Arquà, entra nella casa del Petrarca, volge lo sguardo alle colline ed alla pianura che furono l’ul [p. 233 modifica]tima visione del cantore di Laura; scende poi, o per meglio dire ritorna nella verde Umbria e si ferma a contemplare il paesaggio francescano di Clara Scifi, la madre delle clarisse. Immagini singolarmente espressive egli trova anche per rivelare l’anima dei luoghi lamartiniani e stendhaliani, ma il suo più grande fervore è serbato all’Italia: «Italia, Italia», ripete col Byron, «tu fosti e sei sempre il giardino del mondo, la patria della Bellezza nell’arte e nella natura!...».

Un appunto, tuttavia, gli si potrebbe, o per dir meglio gli si poteva muovere fino a poco tempo addietro; perchè la sua visione del nostro paese è, talvolta, un poco quella della tradizione: una specie di «giardino di Armida» - giudica il protagonista dell’Amore sotto gli oleandri - un luogo, per conseguenza, dove non si fa altro che godere ed obliare. Sul lago di Como, nel bacino della Tremezzina, a Bellagio, «tutto è voluttuoso, tutto parla ai sensi, tra gente unicamente intenta all’amore ed al piacere»; a segno, che quando Lucilla ne fugge e prende una barca per guadagnare l’opposta riva, il barcaiuolo la guarda «con aria maliziosa» e le domanda: «Une histoire d’amour, n’est-ce pas, signora?....». Si potrebbe — si poteva — chiedere al Faure il ritratto di cotesto barcaiuolo, se lo stesso autore non avesse ora scritto altri due libri: i Paysages de [p. 234 modifica]guerre de France et d’Italie, e De l’autre côté des Alpes: sur le front italien, dove «quei Francesi che troppo spesso parlano un poco leggermente dell’Italia» possono apprendere che questo paese del «languore dei sensi» è anche il paese dei forti propositi, dei magnanimi ardimenti, dell’indomito coraggio e dell’eroismo sublime.

Nelle sue visite per le città e le campagne della zona di guerra, il Faure non può dimenticare d’essere artista; ma il cittadino della nazione alleata, l’ammiratore dello sforzo italiano pensa al passato bellicoso di Brescia dinanzi alla sua Vittoria e vi trova una promessa ed un simbolo; ricorda gli studii fatti sulla scuola di pittura a Bassano, ma esalta la virtù guerresca della città; giudica che i palazzi merlati non sembrano più, come un tempo, fuori posto nella Treviso cui gli apparecchi di guerra hanno oggi conferito un nuovo aspetto di forza; ammira le pittoresche vedute delle Alpi carniche, ma anche più gli «splendidi» alpini che ne custodiscono i passi, ed il «miracolo» del nostro organamento militare; chiede anche a sè stesso, rileggendo il Carducci, quali parole il poeta di Ça ira troverebbe per cantare la Marna e Verdun, «in quella stessa regione dell’Argonna e della Mosa che tanto giustamente chiama Termopili della Francia». «Se egli vivesse ancora», soggiunge, «noi ci volgeremmo [p. 235 modifica]a lui, vegliardo divino, come egli si volgeva a Vittor Hugo, e gli chiederemmo di cantare anche alle nuove generazioni il canto secolare del popolo latino:

     Canta a la nuova prole, o vegliardo divino,
     Il carme secolare del popolo latino;
     Canta al mondo aspettante Giustizia e Libertà...„.