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non trova la pianura appena scavalcato il Moncenisio; giudica bello l’effetto dei dintorni di Torino, ma "ci si sente ancora la Gallia: credevo di trovarmi in Normandia"; la metropoli piemontese è "d’aspetto un poco triste"; i campi lombardi gli piacciono, ma non il Duomo di Milano, perchè "il gotico, e lo stesso marmo, mi sembrano stonare col sole e con i costumi italiani"; arrivando a Napoli, non è impressionato dal paesaggio, "fertile, ma poco pittoresco"; i luoghi virgiliani gli offrono uno spettacolo "magico" bensì, ma non "grandioso". Dal Vesuvio contempla "uno dei più bei paesaggi del mondo"; ma il grandioso, l’imponente, l’affascinante è da lui trovato, finalmente, a Roma. "Ci sono, finalmente! Tutta la mia freddezza è svanita. Sono accasciato, perseguitato da ciò che ho visto...." Tanta è stata la sua freddezza, che certi passi del Voyage en Italie sono più aridi delle indicazioni d’una guida e d’un catalogo; ma a Roma, e dinanzi alla campagna romana segnatamente, il poeta della solitudine e delle rovine prova un’impressione profonda: profonda a segno, che dopo averla espressa nella lettera del 10 gennaio 1804 al Fontanes, egli quasi s’ingelosisce quando altri dopo di lui osa ancora descrivere quei luoghi, dei quali si stima senz’altro scopritore: "i viaggiatori francesi ed inglesi venuti dopo di me hanno segnato ogni loro passo dalla