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II - La famiglia Valadier

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Romanzi di guerra - I - Il senso della morte Paesaggi di pace e paesaggi di guerra

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II.

LA FAMIGLIA VALADIER.

Leggere le prime pagine ed i primi capitoli delle Heures de guerre de la Famille Valadier di Abele Hermant è provare l’impressione che la guerra mondiale, o almeno quella dei Francesi contro i Tedeschi, sia finita da un pezzo. Sarebbe altrimenti possibile scherzare intorno all’argomento tremendo? Come trovare materia di sorriso e di riso nell’ora paurosa del pericolo, nell’ora sublime dell’olocausto? Chi avrebbe l’animo di indugiarsi a rilevare i lati comici della tragedia immane?... Quando udiamo il professore Valadier ordinare al figlio di staccare dal muro la cornice dove, "come una reliquia", è serbato un pezzetto di pane del 1870; quando vediamo il giovane Valadier, in costume di boy-scout, mettersi sull’"attenti", eseguire l’ordine "a passo accelerato", e porre "sotto il naso" dell’ospite, del narratore, "l’orribile crosticina che i suoi quarantatrè anni d [p. 213 modifica]’età non hanno resa nè più nè meno appetitosa", noi pensiamo che anche la nuova guerra, durante la quale il professore recita un suo ingegnoso discorso sulla carestia del grano e la "virtù delle mortificazioni", ma confessa che "la mollica riesce mortale al suo stomaco dilatato", noi pensiamo che anche la guerra del Quattordici e del Quindici, come quella del Settanta, dev’esser passata al dominio della storia. Se fosse attuale, se in una parte notevole del territorio francese lo straniero restasse ancora accampato, se tutti gli sforzi della nazione fossero ancora intesi a scacciarlo, potrebbe il narratore riferirci che il suo personaggio, dopo la quotidiana "variazione" sul pane, udendo il quotidiano squillo di campanello annunziante l’arrivo della quotidiana gazzetta, si mette a cantare, sull’aria della Bella Elena:

Ce coup de tonnerre Annonce à la terre.

Un communiqué...?

C’è veramente qualche passo nel quale il lettore prova quasi il bisogno di portar la mano agli occhi per accertarsi di non aver travisto o frainteso. L’umore e il buon umore del romanziere sembrano un’irriverenza, quasi una profanazione....

Quando si procede nella lettura l’impressione di anacronismo e di sconcerto si attenua: quando [p. 214 modifica]si voltano le ultime pagine è già vinta, cancellata, dispersa. Uno scrittore di professione, un lavoratore della penna, non avrebbe trovato difficoltà a comporre sulla guerra un romanzo con dentro una tesi, un libro di predicazione patriottica, di propaganda nazionale; Abele Hermant ha composto invece la Famiglia Valadier perchè così portava l’intima e singolare natura dell’ingegno suo. "Ai giorni che corrono", dichiara in un certo luogo, "tutto ciò che non è sincero mi riesce odioso". Si può aggiungere che non oggi soltanto, ma in ogni tempo la sincerità è doverosa ed amabile. L’ironico osservatore della vita, il delizioso autore di quei Transatlantici che non udremo più nella mirabile recitazione di Alberto Giovannini, non poteva smettere l’abito suo; anche avendone la possibilità gliene sarebbe mancata la ragione; perchè, con la sua ironia, col suo umorismo, la Famiglia Valadier è anch’essa l’opera di un patriotta: opera d’arte dove le ragioni dell’arte sono rispettate, dove la moralità e l’insegnamento non sono inclusi con artificio, per forza, a furia di retorica, ma scaturiscono invece naturalmente come dalla stessa vita. [p. 215 modifica]


I.

I Valadier sono una famigliuola borghese composta del padre, della madre e di tre figli, tutti in preda alla passione del teatro. Ha cominciato la primogenita, Emma, entrando al Conservatorio drammatico ed uscendone premiata agli esami finali. Valadier padre, professore di storia afflitto dal nome di Arturo, non volendo ostacolare la vocazione della figliuola, ma sentendo incompatibile la dignità professionale con la qualità di genitore d’una commediante, ha lasciato l’insegnamento, ed a furia di udire e di leggere opere teatrali, parla e gestisce ora anch’egli come dalla ribalta. I due figli minori, Luciano e Luisa, familiarmente chiamati Lulù e Lilì, contraggono il contagio a loro volta, e si tirano l’uno per attor comico, l’altra per attrice tragica. La signora Valadier, agli occhi della quale il marito è stato ed è un oracolo, incoraggia da parte sua quelle tre vocazioni ripromettendosene gloria e ricchezza, ed acquista intanto l’aspetto, il fare e le mosse del madro. In questa casa, subito dopo gli esami di Emma, e qualche settimana prima dello scoppio della guerra, ha cominciato a prendere i suoi pasti uno degli esaminatori della giovinet [p. 216 modifica]ta, un autore drammatico, un prestanome dello stesso autore, il quale narra in prima persona ciò che vede e ode.

Egli ode giudizii politici e militari enunziati con grande sufficienza dall’ex-professore, come questo, ad esempio: che "l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando non potrà avere nessuna influenza sulla politica generale dell’Europa"; oppure come la risposta data con piglio severo al figliuolo che gli domanda se la Francia volerà in soccorso del Belgio: "No! La nostra generosità ce lo consiglierebbe; ma, per Dio! non facciamo i sentimentali! Siamo obbiettivi!...". Egoismo mentito, parte recitata: quando il brav’uomo apprende che l’esercito francese passa effettivamente dalla difesa all’attacco, ne concepisce tanta esultanza che si mette a spiegare il comunicato a chi vuole e a chi non vuole udirlo, finanche alla serva, "imperocchè egli obbedisce al precetto borghese di non esser familiare con i servitori, ma si rammenta anche di Molière".

Prima della guerra, il giovane Lulù aveva i capelli biondi e portava abiti attillatissimi; allo scoppio delle ostilità si è trasformato in boy-scout collettore della Croce Rossa, e quantunque abbia appena diciassette anni, chiede di marciare come volontario: quando la sua domanda è accettata, i capelli gli s’imbruniscono perchè tralascia di darsi l’acqua ossigenata: [p. 217 modifica]sebbene poi, nel vestirsi per andare a passar la visita, metta tali cure, aiutato dall’intera famiglia, che la casa Valadier sembra trasformata in un "camerino d’attore, dove non si bada a tirare il lucchetto nè ad accostar l’uscio prima di cambiar d’abito: la sola differenza fu che egli non adoperò nessuna polvere o piumino, e per comparire dinanzi ai giudici non si dipinse gli occhi. Aveva già sacrificato la chioma, talchè era tosato e del più bel nero...". La sua ammissione nell’esercito è concordemente festeggiata dai genitori e dalle sorelle, ma quando l’ospite si reca a salutare il nuovo soldato, lo trova singhiozzante sulle ginocchia del padre che tenta invano di confortarlo recitandogli con voce tremante un vecchio ritornello del Béranger, mentre tutti gli altri parenti sono in lagrime e tragicamente atteggiati. Egli ne concepisce un senso di sdegno, credendo che il giovane abbia ora paura e che anche la famiglia sia pentita di avergli accordato il suo consenso; ma la signora Valadier adduce la ragione di quell’angoscia - nobile ragione, sebbene spiegata col gesto e la voce di un personaggio del Corneille: "Lulù sperava d’esser destinato alla fronte, e lo mandano invece ad Albi....".

Quella della partenza è una scena commovente, sebbene "l’avrei giudicata senza dubbio più commovente se non fosse stata una scena....". [p. 218 modifica]L’ottimo Valadier è addolorato nel veder partire il figliuolo, "ma si sarebbe sentito molto più infelice se gli avessero vietato di rappresentare la sua parte di padre nobile secondo il Diderot e di prendere in prestito al Greuze la truccatura del ruolo.... Egli pronunziò un discorsetto pieno di coraggio e di sensibilità. Le sue lagrime colarono. Noi non potemmo trattenere le nostre. Erano lagrime del secolo decimottavo. Ma quando la signora Valadier baciò il soldatino sulle due guance e gli disse: - Va’, caro ragazzo mio - non so perchè quelle parole mi scossero molto più che l’allocuzione del papà. Non significavano tuttavia gran cosa, salvo che quella madre, un po’ ridicola ma dolorosa, dava con tutto il cuore, e senza frasi, il figliuolo diletto alla Patria. Io trassi un singhiozzo da bambino. Il signor Valadier mi guardò con occhio severo, ma perchè aveva paura di fare altrettanto".


II.

Con quest’arte, con questo stile Abele Hermant narra di Emma Valadier.

L’ospite, vedendo la giovanetta sempre pensierosa e triste, sospetta che abbia un secreto d’amore colpevole, ma non depone perciò l’i [p. 219 modifica]dea, concepita fin dalle prime visite, di insidiarla; giudica anzi l’impresa tanto più facile se ella ha già avuto un amante. Ma quando si accinge a farle la sua brava dichiarazione, Emma gli butta le braccia al collo e scoppia in pianto, annunziando: "È morto!". Chi è morto?... "L’amico mio!...".

Era un compagno di studii, un futuro compagno d’arte. La guerra lo prese dei primi. "Non avremmo certamente fatto nulla di male se la guerra non fosse scoppiata. Ma il sabato, appena vidi il manifesto della mobilitazione, corsi da lui. Aveva un alloggetto in via Bergère. Mi aprì: naturalmente non teneva servitori. Da principio m’abbracciò e disse: - Vinceremo!... Gli risposi: - Oh, sì, cerio! E poi soggiunse: - Emma, potrà ben darsi che non tornerò più.... Allora gli risposi: - Fa’ di me ciò che vuoi...." Bisogna leggere nel testo tutta la pagina. A un tratto l’uscio si schiude "e il signor Valadier fece una brusca entrata, seguito dalla signora Valadier che lo tratteneva. Lo tratteneva almeno nella stanza attigua, ma dovette poi liberarlo sul passo dell’uscio, che è stretto; e una volta l’uscio passato, lo riagguantò per la falda della giacchetta. Non essendo armato, il signor Valadier non uccise nessuno e si contentò di fare un gesto di maledizione; poi s’inabissò nella poltrona che Emma gli aveva [p. 220 modifica]istintivamente ceduta, e si nascose il viso tra le mani. Io ero ben contento che la scena non volgesse al tragico, ma non potevo difendermi dal mandare al diavolo quel valentuomo che si disponeva a rammentarmi la Dionigia proprio nel momento in cui provavo la più sincera commozione ed ero a cento miglia dal teatro. Fortunatamente il repertorio del signor Valadier è diverso, ed egli sentì, al pari di me, come il Diderot fosse più di stagione che non Dumas figlio. Alzò lentamente la fronte ingombra. Il suo viso passò, per insensibili gradazioni, dall’espressione di una collera santa a quella della clemenza di Augusto. Il suo sguardo si rischiarò e divenne d’un’infinita dolcezza. Spalancò le braccia, Emma vi si precipitò, egli le richiuse intorno a lei, e non si udì altro, nella modesta cameretta dove il crepuscolo già discendeva, che un suono misericordioso di singhiozzi e di baci".

Questo è il secreto di Abele Hermant: una indovinatissima mescolanza di comico e di drammatico, la riproduzione integrale degli aspetti ridicoli e patetici dell’esistenza, con l’aggiunta di un commento che è, secondo i casi, e talvolta ad un tempo, umoristico e serio.

Il professore Valadier, parlando ora come Socrate ed ora come il Bonhomme Jadis, è un gran brav’uomo, un padre eccellente, un cittadino esemplare. Egli procedeva all’esame [p. 221 modifica]delle poche righe dei comunicati come un epigrafista studia le iscrizioni, come un insegnante di lettere pesa tutte le parole d’un vecchio testo venerabile. Mai una pagina di Virgilio, di Racine o di Bossuet fu sottoposta a simili prove. Arrivava sino a tentare certi spostamenti della punteggiatura che modificavano il senso della frase, o che gliene davano uno quando per caso non ne aveva. Si permetteva di tanto in tanto qualche appunto di natura grammaticale, ma non trovava da ridire circa lo stile; perchè, come lutti i buoni Francesi, approvava senz’altro quanto emana dal Governo....." Dopo tante notizie angosciose, dopo tante speranze e tante delusioni, la lettura del bollettino che annunzia la battaglia della Marna gli procura uno scoppio di pianto. "Credo", dice, dopo avere abbracciato l’ospite, che sia una vittoria.... Lo disse a voce molto sommessa, come se avesse vergogna o paura della gran parola che proferiva. Io chinai il capo. Ero in preda anch’io ad un bizzarro sentimento di paura o di vergogna che non sapevo spiegare a me stesso. Credo bene che singhiozzassi anch’io. Non mi rammento...." Ed alla proposta di comperare una bottiglia di champagne per festeggiare l’avvenimento, Emma Valadier esclama candidamente: - Oh, no! Oggi non ne vale la pena, poichè è una vittoria vera".

Luciano Valadier, "il povero istrioncello fatuo [p. 222 modifica]e ridicolo", diventa un altr’uomo per virtù della guerra. Quando l’ospite apprende che lo hanno trasportato dal campo all’ambulanza, che è stato operato, che si tratta di cosa non lieve, corre a trovarlo. " - Dove sei ferito?... - Egli alzò le spalle, poi voltò la faccia contro il muro, e vidi e udii che singhiozzava. Ne fui spaventato. Lo supplicai di non lasciarmi più a lungo in quell’ansia mortale. Egli rivoltò il viso dalla mia parte e disse con tono furibondo: - Non sono ferito, m’hanno operato d’appendicite otto giorni addietro; non mi sono sentito di scriverlo alla mamma.... - Sciocco! - esclamai. Egli scoppiò di nuovo in singulti, ed io non potei frenare una risata. - Via! gli dissi; non è cosa che disonori! Perchè piangi?... - Egli rispose, interrottamente: - Non capisci.... non capisci che ne ho ancora per una quindicina di giorni.... e che poi.... poi vogliono darmi una licenza di due mesi.... Due mesi e quindici giorni!... Allora.... di qui ad allora la guerra sarà finita!... - Ma no, piccino mio, che la guerra non sarà finita di qui a due mesi!... - Mi afferrò allora per il collo e si mise a piangere sulla mia spalla. Ripeteva continuamente: - Mi giuri?... Giuralo!... Giurami che non sarà finita!... - Gli giurai che la guerra non sarebbe finita tra due mesi, lo cullai come un bambino e lo guardai con ammirazione. Non ridevo più...." [p. 223 modifica]Con una mano altrettanto leggera, ma non meno sicura, è sfiorato l’argomento della fede. Il professore Valadier, "anticlericale della più bell’acqua, nei suoi verdi anni, obbedì alla velleità di credere in sull’inizio delle ostilità; ma ora non crede più, col pretesto che la guerra dura troppo e che per conseguenza il buon Dio non c’è; inoltre, la neutralità della Santa Sede lo sdegna, ed ecco insemina un convertito la cui conversione non è durata sei mesi". Ma quantunque appartenga ad una generazione di uomini "che sono nemici personali del miracolo", egli esclama: "Fu miracolo!" quando considera come Parigi restò salva dell’invasione teutonica.... Suo figlio, come tutti i soldati, non parla del futuro senza avvertire: "Se Dio mi dà vita", e l’osservatore commenta finissimamente: "Coloro che vanno a battersi diventano volentieri superstiziosi; sarebbe un torto rimproverar loro questa debolezza, mentre è tollerata nei giocatori....", e quando Emma, avendo potuto vedere un’ultima volta il suo diletto, esclama, all’opposto del padre: "C’è pure il buon Dio" e quando il signor Valadier spera nell’intercessione della Vergine per la salvezza del figlio, l’umorista non commenta più. [p. 224 modifica]

III.

Resterebbe ora da narrare la conoscenza fatta da Emma all’ospedale, dove si reca ogni giorno per visitare i soldati in atto di pietoso omaggio alla memoria del suo caro perduto; l’idillio che pare s’intessa in quella casa del dolore e della speranza; e come poi la giovane, che è vedova senza aver cessato d’essere signorina, e che mette al mondo un bambino quasi senz’essere stata donna, elegga di restar vedova e madre venerando le reliquie del suo diletto. Resterebbe ancora da spigolare fra tanti gustosi episodii, fra tanti squisiti particolari d’osservazione e d’espressione; ma riesce propriamente impossibile seguire qui la tenue trama del romanzo e molto difficile rendere in un’altra lingua il sapore delle sue pagine. Questo libro veramente francese, dove è dipinta dal vero una famiglia della piccola borghesia parigina, possiede tuttavia un valore rappresentativo molto maggiore che non sembri.

Il genere umano è in massima parte composto di tante famiglie Valadier, con le loro smanie, le loro manìe, le loro vanità, le loro stesse volgarità; ma questa piccola gente, all’occasione, dimostra d’esser pure una gran brava ge [p. 225 modifica]nte e riscatta le debolezze con l’eroismo, e le ridicolaggini con la bontà, la generosità, la gentilezza. Per questa ragione l’ironia del romanziere non è caustica, come suole. L’umorismo, in fondo, lascia un senso d’amaro e un sentimento di sfiducia: ma Abele Hermant, il quale confessa d’aver perduto per proprio conto, questa volta, il suo scetticismo, contribuisce a combatterlo negli altri con lo spettacolo di virtù non studiate, senza paludamento, anzi semplici ed umili. Dove la rappresentazione di qualità sovrumane rischierebbe di non esser creduta, dove gli effetti convenzionali lascerebbero freddo il lettore, i casi e le parole di questi personaggi veri e sinceri lo interessano e lo commuovono. Appunto perche non ha tesi, la Famiglia Valadier acquista tanta efficacia quanta corrono pericolo di perderne i romanzi composti secondo le ricette della "psicologia classica e ufficiale", quella psicologia della quale Abele Hermant ha ragione di dire che non ha niente da vedere con la realtà.

22 decembre 1915.