Pagina:De Roberto - Al rombo del cannone, Milano, Treves, 1919.djvu/242

questo romantico errante, questo ricercatore e amatore di luoghi insigni per natura o storia od arte, arrivato nel 1806 a Venezia, donde salperà verso l’Oriente, non solamente resta freddo dinanzi a quella meraviglia del mondo, ma sente il bisogno di dichiarare nella lettera al Bertin: "Questa Venezia, se non m’inganno, vi dispiacerebbe quanto a me. È una città contro natura....", soggiungendo prove talmente puerili del suo giudizio, da sollevare giustamente lo sdegno dei Veneziani: articoli di gazzette ed appositi opuscoli daranno sulla voce al temerario, e qualcuno dichiarerà di non sapere se prendersela più con la sua "cattiveria" o con la sua "stupidità".

È vero che ventisette anni dopo, nel 1833, egli si ricrede o scioglie un inno alla città delle lagune: "Si può, a Venezia, credersi sul ponte d’una superba galera all’àncora, sul Bucintoro, dove vi diano una festa e dal cui bordo scopriate mirabili cose...."; è vero che egli riesprime il desiderio di vivere e morire anche qui: "Perchè non posso chiudermi in questa città in armonia col mio destino, in questa città dei poeti, dove Dante, Petrarca e Byron passarono?..." ma il Faure nota argutamente come l’improvviso infatuamento dopo il disprezzo fosse determinato dalla voga data a Venezia dai nuovi scrittori stranieri, dal Byron precisamente.

Si potrebbe, dunque, trovare qui una prova