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in un ospedale 83


santemente i momenti supremi e inebbrianti della lotta, rifà il cammino dell’assalto con ostinazione, quasi cercando di poter proseguire oltre la ferita, oltre la caduta, di andare avanti con gli altri, con i sani, con gli arrivati, con la moltitudine esultante dei vittoriosi.

Spesso, a vederli e ad ascoltarli si dimentica quasi che sono feriti. Si varca la soglia dell’ospedale col cuore stretto, preparati ad uno spettacolo di dolore, e la pietà per i corpi martoriati si attutisce di fronte ad una gagliarda e piena salute delle anime, calda di entusiasmo.

Non somigliano ai feriti delle altre guerre. Ordinariamente, il soldato colpito durante l’azione conosce il duro sforzo della lotta, ma il risultato è per lui vago, impreciso o ignoto, si perde in una rossa nebbia. Il dolore riconduce il combattente nei limiti angusti della sua individualità. Per lui la battaglia si culmina in uno strazio. Rimane spezzata nella percezione del ferito; egli la ricorda come una fiamma spentasi improvvisamente nel sangue. Perciò, generalmente, il ferito è un pessimista. Ma i nostri no.

Non so, pare che non sappiano diventar malati, che si conservino combattenti nell’immobilità penosa delle loro membra, che considerino il colpo ricevuto come un incidente, come una corvée. Rimangono soldati, è in loro l’anima dell’esercito. Distesi nei loro letti, sovente sorridono e scherzano. Gli stessi uomini, se fossero