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IN UN OSPEDALE.

5 agosto.

Sono arrivati improvvisamente. È stato un succedersi affannoso di camions d’ambulanza sulla ghiaia fine dei viali, all’ingresso dell’ospedale chiaro ed elegante come una grande villa; e a mano a mano che venivano discesi dai veicoli, in un affaccendamento pieno di delicatezza e di ordine i feriti erano accolti nel vestibolo, spogliati delle loro uniformi lacere e sporche di sangue disseccato, trasportati con cautela nei letti bianchi che si allineano nelle vaste sale luminose e fresche, dalle cui ampie finestre spalancate giunge appena, simile ad un lontano rombo di marea, il profondo respiro della città. Poi la quiete si è ricomposta nel nitido edificio, e sui volti dei nuovi ospiti si è diffusa a poco a poco una espressione di riposo e di beatitudine.

Il primo sentimento del soldato che arriva in un ospedale è una specie di dolce stupore per l’immobilità soffice e definitiva che lo accoglie. Assapora il benessere della immobilità con aria trasognata. Non parla. Gira intorno uno sguardo mobile, interrogatore, che studia, che cerca di rendersi conto delle cose nuove