Aiace (Sofocle - Romagnoli)/Secondo episodio

Secondo episodio

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Sofocle - Aiace (445 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1926)
Secondo episodio
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Aiace si leva e si avanza sulla scena.
aiace
Ahi, ahi, chi mai creder potrà che tanto
alle sciagure mie potesse il nome
mio convenire? Ed ora, invece, due,
tre volte far ne debbo lagno: in tanti
mali mi trovo. Ché salpò mio padre
da questa terra Idèa, recando in patria
coi piú eccelsi trofei gloria purissima;
ed io, suo figlio, a questo suol medesimo
giunto, che di valore a lui non cedo,
che non men grandi opre compiei, perduto
son fra gli Argivi, a fine d’ignominia.
Eppure, ciò credo saper: se vivo
dovesse Achille aggiudicare, in premio
del valor, l’armi sue, nessuno, invece
di me le avrebbe avute. Ora, gli Atrídi
un uomo reo d’ogni empietà compiacquero,
la virtú mia spregiarono. Ma se
queste pupille mie, se questa mente
di senno priva, dal disegno mio
non mi sviava, contro niun degli uomini
non darebbero piú giudizio iniquo.

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Ora, l’invitta Dea figlia di Giove
dal fiero sguardo, mi fiaccò, mentre io
su lor, lanciavo le mie mani, e un folle
furore infuse in me, si ch’io le mani
su queste greggi insanguinassi. E ridono
quelli di me, sfuggiti a mal mio grado.
Ma se un Dio ti persegue, anche il dappoco
sfugge al piú forte. Ed ora, che farò?
Ai Numi son palesemente in odio,
degli Ellèni l’esercito m’esecra,
e Troia tutta e questo pian m’aborrono.
Forse il campo naval, forse gli Atrídi
lasciare debbo, e, navigando il pelago
d’Ege, tornare alla mia patria? E al padre
mio Telamóne, con che viso dunque
mi mostrerò? Come potrebbe, ignudo
vedermi dei trofei giungere, ond’egli
gran serto ebbe di gloria? Oh, no, quest’onta
patire, non saprò. Piomberò forse
contro la rocca dei Troiani, solo
io contro tutti, e, qualche insigne gesta
compiuta, al fin soccomberò? No, troppa
agli Atrídi cosí gioia darei:
possibile non è. Qualche gran prova
trovar conviene, ond’io possa al canuto
padre mostrar, che, di lui nato, privo
di coraggio io non sono. È turpe cosa
che l’uom per cui non c’è scampo dai mali
brami vivere a lungo. E qual diletto
gli arreca un giorno che ai suoi giorni aggiungasi,
che da morte allontani? Oh, non darei
sola una ciancia, di colui che l’anima
scalda a vane speranze. Il generoso

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vivere deve con onore, o scegliere
morte onorata: altro da dir non ho.
coro
Niuno potrebbe dir che sian d’accatto,
queste parole: tue son proprio, Aiace.
Ma doma pur la passïone, cedi
agli amici, da te scaccia le angustie.
tecmessa
Della fatalità non c’è per gli uomini
male peggiore, Aiace re: da libero
padre io son nata, e che potea tra i Frigi
di ricchezza su tutti; e schiava or sono:
ché cosí piacque agli Immortali, e massime
al braccio tuo. Ma poi che ascesi il talamo
tuo, di te mi do cura, e, pel custode
del focolare Giove, e per il talamo
con te partecipato, io ti scongiuro
che tu non voglia sofferir che in mano
d’alcun dei tuoi nemici io cada, e debba
l’oltraggio udirne. Ché, se tu morissi,
se tu sparissi e mi lasciassi, credilo,
quel giorno stesso, io dagli Argivi, a forza
tratta sarei, col figliuol tuo dovrei
mangiare il pan del servo. E, flagellandomi
con le parole, aggiungerebbe alcuno
dei miei padroni, questi detti amari:
«Ecco d’Aiace, sommo già nel campo
per valor, la compagna, invidïata
quanto, una volta, or divenuta schiava».

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Favellerà cosí, qualcuno: il Dèmone
m’incalzerà: per te, per la progenie
tua, questi detti suoneranno obbrobrio.
Del padre abbi pietà, che lasceresti
in funesta vecchiaia, abbi pietà
di tua madre, da tanti anni gravata,
che spesso i Numi supplica, perché
tu vivo torni alla tua patria: o sire,
e di tuo figlio abbi pietà, che privo
di te, della tua guida, i suoi primi anni
viver non debba, e affidato alle cure
di chi non l’ama: il mal che tu faresti
con la tua morte al figlio e me, considera.
Ché niuno esiste a cui possa rivolgermi,
tranne che a te: ché la mia patria tu
con la lancia struggesti; e il Fato avverso,
il padre mio, la madre mia nell’Ade
spenti precipitò: quivi han dimora.
Qual patria ho, se non te? Quale ricchezza?
In te soltanto è la ricchezza mia.
Abbi di me pensiero: un uomo deve,
se pure ha qualche gioia, esserne memore.
Genitrice di grazia è ognor la grazia;
e quei che il bene ricevuto oblia,
essere non potrebbe uomo bennato.
coro
Deh, tu sentissi la pietà ch’io sento!
Le sue parole approveresti, Aiace.
aiace
E lode grande avrà da me, quand’ella
compia con pronto cuor quanto io le ingiungo.

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tecmessa
T’obbedirò, diletto Aiace, in tutto.
aiace
Il mio figliuolo, ch’io lo veda, recami.
tecmessa
Io per timore allontanar lo feci.
aiace
In qual tristo momento? E che vuoi dire?
tecmessa
Che, scontrandosi in te, morto non fosse.
aiace
Degna era ben tal gesta del mio Dèmone.
tecmessa
Io tanto male a frastornar vegliai.
aiace
L’opera tua, la previggenza io lodo.

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tecmessa
In quale altra potrei cosa giovarti?
aiace
Fa’ ch’io lo veda qui, fa’ ch’io gli parli.
tecmessa
Custodito qui presso è da famigli.
aiace
A che s’indugia ch’egli venga qui?
tecmessa
Figlio, il padre ti chiama! — O dei domestici
tu, che di lui cura ti prendi, recalo.
aiace
Muove già forse? O udito ancor non t’ha?
tecmessa
Uno s’accosta dei famigli, vedilo.
Entra uno schiavo che conduce per mano Eurisace.
aiace
Dammelo, dallo qui: non rimarrà
sbigottito, a veder questa recente

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strage, se veramente è da me nato.
E di suo padre nei costumi fieri
educarlo convien subito, e d’indole
pari alla sua. Piú fortunato, o figlio,
sii tu del padre, e in tutto il resto simile.
Invidiare ora io ti debbo in ciò:
che nulla tu di questi mali intendi.
Soavissima cosa è nulla intendere,
sinché gioire e sofferir s’apprenda;
e quando a ciò tu sia giunto, ai nemici
dei mostrare da che padre nascesti.
Sino a quel punto, lievi aure ti nutrano,
il tuo spirito allieta, e di tua madre
sii la delizia. E degli Achèi, nessuno,
credo, sarà, che d’odioso oltraggio
t’offenda mai, sebben lungi sarò:
tale a te lascio un vigile custode1,
che a proteggerti ignavo non sarà,
sebbene lungi, dei nemici a caccia,
adesso muove. E a voi, guerrieri, a voi
questa grazia, nocchieri, insieme io chiedo,
e la mia brama a lui partecipate:
ch’egli il mio figlio alla mia casa rechi,
e lo presenti a Telamóne, e a mia
madre Eribèa, ché dei loro anni tardi
il custode ei divenga, insin che scendano
giú negli anfratti dell’inferno Dèmone.
E l’armi mie, né giudici d’agone,
né quei che m’insozzò, sia che le pongano
mèta di gara fra gli Achei. Ma tu,
per la salda ansa, o mio figliuolo Eurísace,
l’infrangibile scudo a sette piastre
onde hai tu nome, afferra, impugna; e siano

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con me sepolte l’altre armi. Su via,
questo fanciullo accogli presto, e chiudi
la tenda; e fuori, a lagrimare, qui
non rimanere: di querele, troppo
sono vaghe le donne. Or, chiudi in fretta.
Pianger non si conviene al savio medico
sopra un mal che bisogno abbia di taglio.
coro
Questa tua brama ascolto e temo: questo
tuo tagliente parlar, poco m’affida.
tecmessa
Che volgi nel pensiero, Aiace re?
aiace
Non chieder, non cercar: discreta sii.
tecmessa
Ahi, che mi trema il cuor! Non ci tradire!
Pel figlio tuo, pei Numi te ne supplico.
aiace
Troppo mi crucci. Non sai tu che ai Numi
io piú non debbo riverenza alcuna?
tecmessa
Empietà, dici.

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aiace
                           A chi l’ascolta volgiti.
tecmessa
Convincer non ti vuoi?
aiace
                                          Troppo tu cianci.
tecmessa
Io temo, o re.
aiace
                           Su via, chiudete in fretta.
tecmessa
Piègati, per gli Dei!
aiace
                                        Parli da stolta,
se pensi ora educare i miei costumi.
Aiace rientra nella tenda, che torna a chiudersi

Note

  1. [p. 244 modifica]Il vigile custode che Aiace lascia al figlio Eurisace è Teucro.