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46 SOFOCLE 462-494

Ora, l’invitta Dea figlia di Giove
dal fiero sguardo, mi fiaccò, mentre io
su lor, lanciavo le mie mani, e un folle
furore infuse in me, si ch’io le mani
su queste greggi insanguinassi. E ridono
quelli di me, sfuggiti a mal mio grado.
Ma se un Dio ti persegue, anche il dappoco
sfugge al piú forte. Ed ora, che farò?
Ai Numi son palesemente in odio,
degli Ellèni l’esercito m’esecra,
e Troia tutta e questo pian m’aborrono.
Forse il campo naval, forse gli Atrídi
lasciare debbo, e, navigando il pelago
d’Ege, tornare alla mia patria? E al padre
mio Telamóne, con che viso dunque
mi mostrerò? Come potrebbe, ignudo
vedermi dei trofei giungere, ond’egli
gran serto ebbe di gloria? Oh, no, quest’onta
patire, non saprò. Piomberò forse
contro la rocca dei Troiani, solo
io contro tutti, e, qualche insigne gesta
compiuta, al fin soccomberò? No, troppa
agli Atrídi cosí gioia darei:
possibile non è. Qualche gran prova
trovar conviene, ond’io possa al canuto
padre mostrar, che, di lui nato, privo
di coraggio io non sono. È turpe cosa
che l’uom per cui non c’è scampo dai mali
brami vivere a lungo. E qual diletto
gli arreca un giorno che ai suoi giorni aggiungasi,
che da morte allontani? Oh, non darei
sola una ciancia, di colui che l’anima
scalda a vane speranze. Il generoso