Agide (Alfieri, 1946)/Atto terzo
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ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Agide.
sdegna fors’ei? non l’ardiria: quí ’l debbe
trar, se non altro, or la vergogna. Udiva
il popol dianzi il generoso prego,
ch’io gl’inviai per Anfare: riguardi
possenti, e molti, ancor lo stringon; molto
timor si annida entro il suo cor, bench’egli
vincitor sia. Potessi, ah! pur potessi
dal suo temer l’util di Sparta io trarre!...
Ma al fin vien egli: oh! di regal corteggio
si adorna? e ben gli sta. S’incontri.
SCENA SECONDA
Agide, Leonida, Soldati.
ne vieni, o re, pria che ad altr’opre?...
Leon. A udirti
or vengo io, sí...
Agide Dunque, a te solo io chieggo
di favellar...
Leon. Traetevi in disparte. —
Eccomi solo: io t’odo.
quale a suocero genero; ancor ch’io
oltre ogni dire una consorte adori,
ch’è delle figlie esemplo.
Leon. Alto legame
ell’era, è ver, fra noi, pria che di Sparta
tu mi cacciassi in bando.
Agide Il so; né debbo
parlarten ora, poiché allor tel tacqui.
Non ch’io allor l’obliassi, e il sai; ma in core
Sparta allor favellavami, al cui grido
ogni altro affetto in me taceasi, e tace. —
Di Sparta il re, di me il nemico sei:
ma, se nol sei di Sparta, oggi dai Numi
giá protettori della patria chieggio,
e impetrar spero, un sí verace e forte
alto parlar, che da me stesso or vogli
apprender tu pronto e sicuro il modo,
onde ottenere oltre tue brame forse...
Leon. Oltre mie brame? E ciò ch’io bramo, il sai?
Agide Di me vendetta, a tutte cose innanzi,
brami, e l’avrai; dartela piena io voglio.
Durevol possa, è il tuo desir secondo;
e additar ten vogl’io la vera base.
Né basta; io t’offro alto infallibil mezzo,
onde acquistar cosa ben altra, a cui
forse il pensier mai non volgesti; e tale,
che pur (dov’ella ad acquistar sia lieve)
tu sprezzarla non puoi. Perenne, immensa
procacciartela ancora...
Leon. E fia?...
Agide La fama.
Leon. — Meglio sai torla, che insegnarla altrui. —
Meco il trono occupasti; al ben di Sparta
meco tu allor, per comun gloria nostra,
concorrer mai non assentivi: al tuo
su la rovina del mio nome un nome.
Quindi all’esiglio me, Sparta al suo rogo,
spingevi tu. Non io perciò disegno
far mie vendette; io ben di Sparta afflitta
farle or dovrei; ma il vieta a me di vera
pace l’amor: pace, cui presti ancora
sono a sturbare (abbenché invano) i tuoi
pessimi tanti. Amor di pace, in somma,
di Sparta a nome ora ad offrirti trammi
perdono intero...
Agide Intero? è troppo. — Or via,
nessun quí c’ode; il simular, che giova?
Ch’io non ti legga in cor, tu giá nol credi;
che tu il cangiassi, creder nol mi fai.
Cred’io bensí, che il tormi e scettro e possa,
per or non basti a far sul trono appieno
securo te. Ben sai, che infin ch’io vivo,
un altro re collega tuo crearti
ligio non puoi: ma, né pur osi a un tempo
uccider me, perché dei molti in core
sai che tuttora io regno. Ecco i veraci
tuoi piú ascosi pensieri: odi ora i miei. —
Io, mal mio grado, entro all’asil mi chiusi;
spontaneo n’esco; e oppor poss’io, se il voglio,
alla forza la forza: all’arte opporre
l’arte, né il so, né il voglio. Omai convinto
esser tu dei, che in mio favor né stilla
versare io vo’ di cittadino sangue.
Solo or mi vedi; in tuo poter mi pongo;
supplice me per la mia patria miri:
non che la vita, io son per essa presto
a darti la mia fama.
Leon. E intatta l’hai,
questa tua fama che offerirmi ardisci?
Agide Intatta, sí, del tutto; e non indegna
Me tu abborrisci; adoro io Sparta: or odi
come al mio amor, e all’odio tuo, potresti
servire a un tempo. Io libertá, grandezza,
virtude impresi a ricondurre in Sparta,
col pareggiarne i cittadin fra loro.
Tu, coi piú rei, di opporviti, ma indarno,
mai non cessasti; e non, che vero e immenso
tu non vedessi in ciò il comun vantaggio;
non, che virtú co’ suoi divini raggi
via non s’aprisse entro il tuo chiuso petto,
senza pure infiammarlo: ma in tuo petto
l’amor dell’oro, e di soverchia ingiusta
possa, vincea d’assai l’util di Sparta,
di veritade il grido, e il folgorante
scintillar di virtú. Pubblica, e vera
Spartana voce dal tuo seggio allora
te rimovea, chiamandoti nemico
di Sparta: e tu la insopportabil taccia
né smentir pur tentavi. In bando poscia,
proscritto, errante (il sai) vilmente ucciso
stato saresti; io nol soffria: né il dico
per rinfacciartel ora; ma per darti
prova non dubbia, ch’io base posava
ai disegni alti miei l’alte spartane
opre bensí, non la rovina tua.
Leon. E in ciò pur, mal accorto, error non lieve
tu salvandomi festi.
Agide E chiara ammenda
tu ne farai, me trucidando. I mezzi
sol ne impara da me. — Sparta piú inclina
a libertá, che a tirannia: per certo
tienlo, ancorché per ora imposto il freno
aspro di re tu le abbi. Un breve sdegno
dei piú contro all’infame Agesiláo,
or ti ha riposto in trono, e lui cacciato
havvi chi pone, e non a torto affatto,
finch’io pur taccio. A disgombrar del tutto
su me tal dubbio, or tu non trarmi; è lieve
troppo il mostrar, che Agesiláo tradiva
Agide e Sparta a un tratto; ove ciò chiaro
a tutti io faccia, allor tu forza usarmi
non puoi, senza a te nuocere.
Leon. Tu il credi?
Agide Tu il sai. Ma, non temere. Io di Spartani
Spartano re volli essere; te lascio
re di costoro. A far me reo non basta
niuna tua forza: in faccia a Sparta, io voglio,
io, colpevole farmi; io darti intera
palma di me; pur che tu stesso farti
grande ti attenti, e di grandezza vera,
contra tua voglia.
Leon. Invan mi oltraggi...
Agide Adempi
tu stesso, or sí, quant’io giá audace impresi
a pro di Sparta e di sua gloria. In seggio
riponi or tu, non le mie, no, ma l’alte,
libere, maschie, sacrosante leggi
del gran Licurgo; povertá sbandisci
in un coll’oro; ella dell’oro è figlia:
del tuo ti spoglia: i cittadin pareggia:
te fa Spartano, e in un, Spartani crea:...
Ciò far voll’io; tu il compi, e a me ne involi
la gloria eterna. — Ove ciò far mi giuri,
a Sparta innanzi or mi puoi trar qual reo;
e dir, ch’io velo a mie private mire
fea del pubblico bene; e dir, che iniquo
era il mio fin, non le mie leggi. A questo
aggiungerai, che rinnovar tu stesso
vuoi con mente migliore e cor piú schietto,
di tua cittá la gloria. Intera Sparta
accusar reo me stesso; e dir, che mie
eran le ingiurie e víolenze usate
da Agesiláo; dirò, ch’io in lui creava
un precursor di tirannia; che un saggio
voll’io per lui della viltá Spartana.
Ciò basterá, cred’io. Morte, che darmi
or tu non puoi, che a tradimento, (il vedi)
l’avrò cosí dai cittadini miei,
e parrá lor giustissima. La fama,
che in me ti offende, e che a me tor non puoi,
io me la tolgo, e a te la dono. Io moro,
tu regni; ambo contenti: a te non toglie
fama il regnare; a me l’infamia in tomba
portar pur lascia l’unica mia speme,
che a nuova vita abbia a risorger Sparta.
Leon. — Vil m’estimi cosí?
Agide Grande t’estimo;
poich’atto a compier la mia grande impresa
te credo...
Leon. A’ tuoi disegni empj, dannosi,
io por mano?...
Agide Me spento, appien tu scarco
d’invidia resti: e gli alti miei disegni,
con tuo vantaggio, e in un, con quel di Sparta,
puoi compier tu. Di mia grandezza ardisci
grande apparir tu stesso: invido fosti;
or, col mio sangue la viltá tua prisca
tu ammanti appieno. A non sperata altezza
l’animo estolli, e al trono tuo ti agguaglia.
Leon. Maggior di te, dei cittadini il grido
giá abbastanza mi fea; ma il perdonarti,
se a me il concede Sparta, assai darammi
piena palma di te. Ch’io a Sparta intanto
ti appresenti, m’è d’uopo. — Altro hai che dirmi?
Agide A dirti ho sol, ch’esser non sai tu iniquo,
Leon. Or, che i tuoi sensi
tutti esponesti, anzi che a Sparta involi
te di bel nuovo il tempio, in carcer stimo
doverti io trarre. — Olá, soldati...
Agide Io vado
securo in carcere, qual non sei tu in trono.
Sparta entrambi ci udrá; né meco a fronte
star potrai tu. — Se in carcere mi uccidi,
te stesso perdi; e il sai. Pensa, e ripensa;
a te salvare, a uccider me, niun mezzo,
che quel ch’io dianzi t’additai, ti resta.
SCENA TERZA
Leonida.
e gran perigli incontro: eppur, vogl’io
quest’orgoglioso insultator modesto,
spegnere il voglio, anco in mio danno espresso.
Ma il trucidarlo è nulla, ove la fama
non gli si tolga pria: ciò sol può darmi
securo regno. — Ah! che pur troppo io ’l sento!
Né so dir come; anche al mio core un raggio
vero divino al suo parlar traluce,
e mel conquide quasi... Ah! no: mi squarcia,
mi sbrana il cuor, quella insoffribil pompa
di abborrita virtú. Pera ei: si uccida;...
s’anco è mestier, per spegner lui, ch’io pera.
SCENA QUARTA
Agiziade, Leonida, Agesistrata.
Infra soldati il mio consorte?...
Agesis. È questa
la tua fede, o Leonida?
Leon. Qual fede?
Che promisi? Giurato a Sparta ho fede,
non ad Agide mai.
Agiz. Deh! padre amato,
alla tua figlia,... oimè!...
Agesis. Spontaneo forse
non uscia dell’asilo? e solo, e inerme,
e di sua voglia, ei non venia di pace
a parlamento or teco? E tu, dagli empj
tuoi sgherri il fai nel carcer trarre? e contra
il decoro di re, contra il volere
di Sparta stessa?... Iniquo...
Leon. E pianti, e oltraggi,
vani del par sono a piegarmi, o donne.
Il primo io son de’ magistrati in Sparta,
non di Sparta il tiranno. Agide reo,
gli efori e Sparta giudicarne or denno;
innocente, tornarlo al seggio prisco
gli efori e Sparta il ponno. Ov’ei si fesse
del tempio asilo, o della plebe scudo,
né innocente né reo possibil fora
chiarirlo mai. Tempo è, ben parmi, tempo,
che Sparta esca dall’orrido travaglio
del non saper s’ella ha due re, qual debbe,
o s’un glien manca.
Agiz. Ah padre!... Agide in vita
ti serba, e tu in catene Agide traggi?
Gli dai tua figlia, e torgli vuoi sua fama?
pigliar, tu primo, or le difese. Io diedi
non dubbia a te dell’amor mio la prova,
nell’avversa tua sorte; or, nell’avversa
d’Agide, a lui nulla può tormi: o in ceppi
col tuo genero porre anco tua figlia,
o trarne lui, ti è forza: abbandonarlo,
per preghi mai, né per minacce io mai
non vo’. Di lui non piglierai vendetta,
che sopra me del par non caggia: il sangue
versar tu dei di quella figlia istessa,
che abbandonava, per seguirti in bando,
la patria, e il trono, ed il marito, e i figli.
Agesis. Oh vera figlia mia, non di costui!...
Spartana figlia e moglie, a non spartano
padre indarno tu parli. — Invidia vile,
vil desio di vendetta il cor gli chiude,
e il labro a un tempo. — E che diresti?... In core
tu giurasti, o Leonida, l’intero
scempio d’Agide, il so; tutti conosco
gli empj raggiri tuoi. Ma, se pur darci
morte potrai, (che la mia vita e quella
del mio figlio son una) invan tu speri
torre a noi nostra fama. A te la tua...
Ma, che dich’io? l’hai tu? — Scopo non altro
fu in te giammai, che di serbar col regno
le tue ricchezze, e accrescerle. Dell’oro
l’arte imparasti di Seleuco in corte,
e l’arte in un di sparger sangue. In Sparta
persian tu regni; e la uguaglianza quindi
dei cittadin paventi, onde ben tosto
ne sorgeria virtute; onde dal trono
di nuovo espulso appien per sempre andresti:
né il tuo cor osa a piú che al trono alzarsi.
Leon. Né le tue ingiurie l’animo innasprirmi,
né le tue giuste lagrime ammollirlo
d’Agide, e a darle di se conto il chiama.
Forza non altra usar gli vo’, (né s’anco
il volessi, il potrei) fuorché di torgli
ogni via di sottrarsi al meritato
giusto gastigo...
Agesis. Giusto? — Oserai, dimmi,
quí appresentarlo, in questo foro, a Sparta
tutta adunata, e libera dal fiero
terror dell’armi tue?
Leon. Noto finora
non m’è il voler degli efori; ma...
Agesis. Noto
mi è dunque il tuo, pur troppo! Agide innanzi,
non agli efori compri, a Sparta intera
tratto esser debbe; o verrá Sparta a lui.
Ciò ti prometto, ancor che inerme donna;
se pria del figlio me svenar non fai.
SCENA QUINTA
Leonida, Agiziade.
non cesso io, no, di atterrarmi a’ tuoi piedi,
non tue ginocchia d’abbracciar, se pria
lo sposo a me non rendi; o se con esso
me di tua man tu non uccidi.
Leon. O figlia
diletta mia; deh! sorgi; a me dal fianco
non ti partir, null’altro io bramo. Hai meco
generosa diviso i tanti oltraggi
di rea fortuna, è ben dover, che a parte
della prospera sii: niun piú possente
sará di te sovra il mio cor: te voglio,
né cosa mai...
Agiz. Che parli? Agide chieggo;
null’altro io voglio. A me tu il desti; e torre,
no, non mel puoi, se vita a me non togli;
né torlo a Sparta, senza orribil taccia
d’ingiusto re, d’uom snaturato e atroce.
Leon. Come acciecarti or tanto puoi? Non vedi,
ch’Agide è reo? ma fosse anche innocente;
non vedi, ch’egli in mio poter non stassi?
Gli efori udirlo, giudicare il denno
gli efori: nulla io per me sol non posso,
né a pro, né a danno suo.
Agiz. Sei padre; m’ami;
a fera prova il filíal mio amore
hai conosciuto; e simular vuoi pure
con la tua figlia? — A tradimento, or dianzi,
il potevi tu solo al carcer trarre,
e innocente salvarlo or non potresti?
Deh! non sforzarmi a crederti...
Leon. Che vale?
Nulla in ciò posso: anzi, è mestier ch’io tosto
d’Agide conto, e del mio oprare a un tempo,
renda agli efori.
Agiz. Ah, no! piú non ti lascio:
né crudo ordin puoi dar, che in parte anch’egli
su la tua figlia non ricada...
Leon. Or cessa;
torna alla reggia mia...
Agiz. Teco men vengo.
Tutto farai, tutto dei fare, o padre,
pel tuo innocente genero, che salva
t’ebbe la vita... Ah! no, svenar nol puoi,
se la tua propria figlia non uccidi.