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atto terzo 95
sotto il mio nome, arbitra far di Sparta:

né cosa mai...
Agiz.   Che parli? Agide chieggo;
null’altro io voglio. A me tu il desti; e torre,
no, non mel puoi, se vita a me non togli;
né torlo a Sparta, senza orribil taccia
d’ingiusto re, d’uom snaturato e atroce.
Leon. Come acciecarti or tanto puoi? Non vedi,
ch’Agide è reo? ma fosse anche innocente;
non vedi, ch’egli in mio poter non stassi?
Gli efori udirlo, giudicare il denno
gli efori: nulla io per me sol non posso,
né a pro, né a danno suo.
Agiz.   Sei padre; m’ami;
a fera prova il filíal mio amore
hai conosciuto; e simular vuoi pure
con la tua figlia? — A tradimento, or dianzi,
il potevi tu solo al carcer trarre,
e innocente salvarlo or non potresti?
Deh! non sforzarmi a crederti...
Leon.   Che vale?
Nulla in ciò posso: anzi, è mestier ch’io tosto
d’Agide conto, e del mio oprare a un tempo,
renda agli efori.
Agiz.   Ah, no! piú non ti lascio:
né crudo ordin puoi dar, che in parte anch’egli
su la tua figlia non ricada...
Leon.   Or cessa;
torna alla reggia mia...
Agiz.   Teco men vengo.
Tutto farai, tutto dei fare, o padre,
pel tuo innocente genero, che salva
t’ebbe la vita... Ah! no, svenar nol puoi,
se la tua propria figlia non uccidi.