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atto terzo 87
privato ben tu sol pensavi, e a farti

su la rovina del mio nome un nome.
Quindi all’esiglio me, Sparta al suo rogo,
spingevi tu. Non io perciò disegno
far mie vendette; io ben di Sparta afflitta
farle or dovrei; ma il vieta a me di vera
pace l’amor: pace, cui presti ancora
sono a sturbare (abbenché invano) i tuoi
pessimi tanti. Amor di pace, in somma,
di Sparta a nome ora ad offrirti trammi
perdono intero...
Agide   Intero? è troppo. — Or via,
nessun quí c’ode; il simular, che giova?
Ch’io non ti legga in cor, tu giá nol credi;
che tu il cangiassi, creder nol mi fai.
Cred’io bensí, che il tormi e scettro e possa,
per or non basti a far sul trono appieno
securo te. Ben sai, che infin ch’io vivo,
un altro re collega tuo crearti
ligio non puoi: ma, né pur osi a un tempo
uccider me, perché dei molti in core
sai che tuttora io regno. Ecco i veraci
tuoi piú ascosi pensieri: odi ora i miei. —
Io, mal mio grado, entro all’asil mi chiusi;
spontaneo n’esco; e oppor poss’io, se il voglio,
alla forza la forza: all’arte opporre
l’arte, né il so, né il voglio. Omai convinto
esser tu dei, che in mio favor né stilla
versare io vo’ di cittadino sangue.
Solo or mi vedi; in tuo poter mi pongo;
supplice me per la mia patria miri:
non che la vita, io son per essa presto
a darti la mia fama.
Leon.   E intatta l’hai,
questa tua fama che offerirmi ardisci?
Agide Intatta, sí, del tutto; e non indegna