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L'attivismo - 8. Il Guerrilla Open Access Manifesto

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8. Il Guerrilla Open Access Manifesto

Tre mesi dopo, nel luglio del 2008, durante un suo viaggio in Italia, Aaron lavorò insieme ad altri colleghi – che, successivamente, non si vollero esporre come coautori del documento – su un breve testo che intitolò Guerrilla Open Access Manifesto.

Il suo pensiero politico e la sua voglia di attivismo si stavano già spostando in un’altra, entusiasmante direzione: il diritto di tutti i cittadini del mondo ad accedere liberamente al sapere scientifico e ai contenuti prodotti in società.

Con questo documento, Aaron prese anche una posizione pubblica ufficiale di supporto al movimento open access, un insieme di teorie e di azioni, sociali e politiche, volte a rimuovere ostacoli tecnici e paywalls (“barriere di pedaggio”) che impediscano ai cittadini l’accesso alle pubblicazioni esito di ricerche scientifiche, spesso finanziate con fondi pubblici.

Il testo in lingua originale del Manifesto, come pubblicato su Internet Archive, è il seguente:

Guerilla Open Access Manifesto


Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. The world’s entire scientific and cultural heritage, published over centuries in books and journals, is increasingly being digitized and locked up by a handful of private corporations. Want to read the papers featuring the most famous results of the sciences? You’ll need to send enormous amounts to publishers like Reed Elsevier.
There are those struggling to change this. The Open Access Movement has fought valiantly to ensure that scientists do not sign their copyrights away but instead ensure their work is published on the Internet, under terms that allow anyone to access it. But even under the best scenarios, their work will only apply to things published in the future. Everything up until now will have been lost. That is too high a price to pay. Forcing academics to pay money to read the work of their colleagues? Scanning entire libraries but only allowing the folks at Google to read them? Providing scientific articles to those at elite universities in the First World, but not to children in the Global South? It’s outrageous and unacceptable. «I agree» many say, «but what can we do? The companies hold the copyrights, they make enormous amounts of money by charging for access, and it’s perfectly legal — there’s nothing we can do to stop them»
But there is something we can, something that’s already being done: we can fight back. Those with access to these resources — students, librarians, scientists — you have been given a privilege. You get to feed at this banquet of knowledge while the rest of the world is locked out. But you need not — indeed, morally, you cannot — keep this privilege for yourselves. You have a duty to share it with the world. And you have: trading passwords with colleagues, filling download [p. 90 modifica] requests for friends.

Meanwhile, those who have been locked out are not standing idly by. You have been sneaking through holes and climbing over fences, liberating the information locked up by the publishers and sharing them with your friends.
But all of this action goes on in the dark, hidden underground. It’s called stealing or piracy, as if sharing a wealth of knowledge were the moral equivalent of plundering a ship and murdering its crew. But sharing isn’t immoral — it’s a moral imperative. Only those blinded by greed would refuse to let a friend make a copy. Large corporations, of course, are blinded by greed. The laws under which they operate require it — their shareholders would revolt at anything less. And the politicians they have bought off back them, passing laws giving them the exclusive power to decide who can make copies.
There is no justice in following unjust laws. It’s time to come into the light and, in the grand tradition of civil disobedience, declare our opposition to this private theft of public culture.
We need to take information, wherever it is stored, make our copies and share them with the world. We need to take stuff that’s out of copyright and add it to the archive. We need to buy secret databases and put them on the Web. We need to download scientific journals and upload them to file sharing networks. We need to fight for Guerilla Open Access.
With enough of us, around the world, we’ll not just send a strong message opposing the privatization of knowledge — we’ll make it a thing of the past. Will you join us?
Aaron Swartz
July 2008, Eremo, Italy

Aaron si focalizza, nel suo documento, su due aspetti essenziali.

Come prima cosa, auspica che sia rimossa ogni restrizione/chiusura posta da università e istituzioni pubbliche all’accesso agli articoli scientifici.

Successivamente, domanda che sia riconosciuto un vero e proprio diritto, per tutte le persone, ad avere accesso ai prodotti della ricerca scientifica.

È un tema, questo dell’accesso libero, che affascina Aaron per tanti motivi.

Gli ricorda, innanzitutto, gli ambienti del W3C e del consesso che diede vita al web, quando frequentava decine di studiosi intenti a scambiarsi il più possibile informazioni, e a non tenere nulla per sé.

Poi ebbe, sicuramente, una grande influenza il rapporto che si era stabilito con Lawrence Lessig e l’avvio del progetto Creative Commons, anch’esso basato su un’idea di “liberazione” della cultura prodotta nell’ambiente di rete, pur entro i limiti della normativa sul copyright.

Al contempo, come programmatore aveva ammirato – e utilizzava – i prodotti e le licenze open source di Moglen e di Stallman, per “aprire” il più possibile le possibilità di uso, da parte di altre persone, del software che si andava creando. [p. 91 modifica]

Infine, era sempre stato affascinato da realtà quali il MIT e Stanford, dove era centrale, tra gli hacker di quei campus, l’idea di condivisione e di eliminazione di tutte le barriere di accesso al sapere.

Il testo del Manifesto non è né lungo, né complesso. Più che un manifesto programmatico, sembra essere una serie di efficaci appunti esposti per fissare alcuni temi di importanza sociale e politica e, soprattutto, per dare il via a una sorta di “chiamata alle armi”.

Richiama molto, come stile e come enfasi, la Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio che John Perry Barlow aveva redatto nel 1996 per consacrare, e ribadire, la libertà della rete dai tentativi di colonizzazione da parte del mondo aziendale e commerciale.

Il titolo roboante – e un po’ infelice per la presenza del termine Guerrilla – attirerà l’attenzione dell’FBI: il manifesto, che sembrava voler invocare una guerra contro chi chiudesse i contenuti e suggerire, al contempo, un non troppo velato invito a “liberarli”, finirà direttamente nel fascicolo che i federali prepararono quando iniziarono a indagare sulla sua persona.

Il manifesto si apre con la considerazione, ormai acquisita, del livello di potere assunto dall’informazione nella società e nella politica digitale (“Information is power”) e con la consapevolezza che, come accade con tutti i tipi di potere, vi siano dei soggetti, nel mondo elettronico, che quei poteri se li vogliono tenere ben stretti.

L’intera eredità scientifica, e culturale, mondiale, che è stata pubblicata nel corso dei secoli in milioni di libri e riviste – denuncia Aaron – è sempre di più digitalizzata e imprigionata e, letteralmente, bloccata da poche, grandi società private.

Il giovane usa la suggestiva locuzione inglese “locked up”, che rimanda a lucchetti, catene e cancelli chiusi. La conclusione è che un cittadino che volesse, oggi, leggere quegli studi che riportano i più importanti risultati del progresso scientifico si trova davanti a una vera e propria barriera, un “divieto di accesso”, e dovrebbe pagare ingenti somme a grandi editori scientifici per entrare.

La chiamata alle armi di Aaaron è chiara: un quadro simile non va bene, e ci sono persone che non sono d’accordo e che si battono, insieme ad esponenti di varie associazioni, per cambiare la situazione.

Il riferimento esplicito è all’Open Access Movement: un movimento che ha scelto, in tante occasioni, di protestare, proprio domandando agli studiosi di pubblicare i loro lavori con modalità che ne consentissero l’accesso da parte di chiunque.

Il quadro che si è generato, scrive Aaron, rappresenta un prezzo troppo alto da pagare per tutti. Si obbligano – fa notare – gli accademici a pagare ingenti somme di denaro per poter leggere i lavori dei loro colleghi; al contempo, si scansionano e digitalizzano intere biblioteche e raccolte di libri ma, poi, si permette soltanto a Google di gestire il patrimonio costituito da simili documenti. [p. 92 modifica] Si fornisce alle università più prestigiose un accesso agli articoli scientifici, ma non si dà la stessa possibilità ai bambini nelle zone povere del mondo.

Tutto ciò, nel pensiero del giovane, è oltraggioso e inaccettabile. E allora, si domanda, che cosa possiamo fare?

Un primo, grande problema, scrive nel Manifesto, è che le grandi società detengono i diritti d’autore su gran parte dei contenuti e generano profitti proprio facendo pagare una quota, spesso ingente, per accedere alle informazioni. Il tutto avviene con modalità contrattuali ritenute perfettamente lecite dagli ordinamenti giuridici.

Però, aggiunge, possiamo comunque fare qualcosa: possiamo iniziare a combattere per rispondere a questa situazione, dal momento che tutti coloro che hanno accesso a queste risorse e a questi contenuti – studenti, bibliotecari, scienziati – hanno ricevuto un dono, e sono in una posizione di privilegio.

Si possono cibare ogni giorno a questo banchetto della conoscenza, scrive il giovane in maniera accorata, quando il resto del mondo è lasciato fuori, e non può accedervi.

Ma non è giusto, moralmente, che queste persone si tengano questo privilegio per sé stesse. Nasce, in loro, un dovere di condividere questo materiale con il resto del mondo, di scambiare le password e i codici di accesso con i colleghi, di scaricare il materiale per soddisfare le richieste di amici.

Aaron vuole, in definitiva, che tutte queste persone che elenca, e che operano in concreto nel settore della cultura e della produzione di contenuti, contribuiscano a liberare quell’informazione che è stata chiusa a chiave dagli editori. E che la condividano, indipendentemente da quanto dispone la legge.

Il problema, riflette Aaron, è che un’azione simile, clandestina, è definita come “pirateria” o “furto” in gran parte degli ordinamenti, dove la condivisione di un “pezzetto” di conoscenza è equiparato al furto vero e proprio di un bene. La condivisione, però, non deve essere vista come immorale e, anzi, scrive, deve diventare un imperativo morale: solo chi è accecato dall’avidità e dal profitto non condivide beni con i propri amici o rifiuta a un amico la possibilità di fare una copia di un contenuto.

Si pensi che in uno dei primi post del suo blog, nel lontano 4 febbraio del 2002 (“Arrgh, pirates”), Aaron aveva contestato proprio il termine “pirate”, e il suo uso non corretto in ambito digitale:

Mi sono spesso lamentato, con le persone, per l’uso che fanno del termine “piratare” per intendere “condividere”.
Quando la gente si lamenta dei film “piratati”, intende davvero insinuare che condividere i film con qualcuno sia l’equivalente morale di attaccare una nave? Tuttavia, man mano che il termine si diffonde, non posso fare a meno di chiedermi se la connotazione negativa si esaurirà: lo vediamo persino presente nel dizionario come “Fare uso o riprodurre (un’opera altrui) senza autorizzazione”. «Ehi Johnny, ho una copia pirata di Shakespeare per te!» [p. 93 modifica] Proprio l’altro giorno la mia insegnante di matematica ha detto di aver “piratato” dal libro di testo alcuni degli esempi che stava scrivendo alla lavagna.

Le grandi società, nell’interpretazione di Aaron, sono accecate di rabbia per questa situazione, e il quadro normativo nel quale operano è pensato proprio per creare un sistema simile. La politica, allo stesso tempo, risponde alle richieste delle grandi società con riforme legislative, che stabiliscono in maniera sempre più rigida chi ha il potere esclusivo di decidere chi può fare copie o meno.

Non c’è però giustizia – continua, accorato, Aaron – nel seguire le indicazioni di leggi percepite da tanti utenti come ingiuste: è il momento, quindi, di uscire dalla clandestinità, di venire in superficie e, in accordo con la grande tradizione statunitense della disobbedienza civile, di dichiarare la ferma opposizione a un furto in corso, da parte di privati, dell’intera cultura pubblica.

La parte finale del manifesto è quella che istiga, per così dire, all’azione: dobbiamo prendere l’informazione, scrive Aaron, ovunque essa sia conservata e custodita, dobbiamo fare le nostre copie e dobbiamo condividerla con il mondo intero. Dobbiamo, poi, prendere tutto il materiale che non è coperto da copyright e aggiungerlo a questo grande archivio globale di conoscenza, dobbiamo recuperare i database mantenuti segreti e caricarli sul web, dobbiamo scaricare tutti gli articoli delle riviste scientifiche e immetterli nei sistemi di file sharing.

«Dobbiamo combattere per Guerrilla Open Access» – conclude – «E saremo in tanti, in tutto il mondo, e non solo manderemo un messaggio forte in opposizione alla privatizzazione della conoscenza, ma la renderemo una cosa del passato. Ti vuoi unire a noi?»

Questo documento, pur nella sua semplicità – e, in alcuni passaggi, ingenuità – è certamente il più noto scritto di Aaron Swartz.

Ha avuto una larghissima diffusione, è stato tradotto in numerose lingue ed è stato apprezzato anche al di fuori della stretta cerchia degli attivisti digitali.

Uno dei grandi meriti è stato quello di continuare ad alimentare il dibattito sull’open access, mettendo al centro non solo le questioni normative e politiche, ma, anche, le biblioteche e le grandi banche dati, soprattutto delle grandi università di élite.

Aaron intravedeva molto chiaro il problema che le biblioteche che lui amava tanto frequentare, attraverso i contratti di licenza e gli accordi con quella che lui chiamava “l’industria dei contenuti scientifici”, fossero le clienti più importanti degli editori di questi costosi database e che, se avessero accettato acriticamente termini e condizioni proposti dalle aziende, sarebbero state in qualche modo responsabili dell’aumento di diffusione di questi paywall.

L’urgenza che Aaron manifesta, richiamando le teorie dell’open access, è quella di cercare di cambiare questo modello basato su paywall.

Perché non lottiamo, si domanda, per modificare legalmente i contratti di ricerca? Perché non combattiamo per rinegoziare con gli editori, per ottenere [p. 94 modifica] diritti più forti in grado di gestire in maniera più libera la diffusione del lavoro scientifico, anche su riviste?

A quasi quindici anni di distanza, in alcune, grandi, università il quadro è cambiato, ma rimangono ancora, in tanti ambiti, muri molto difficili da abbattere; lo scritto di Aaron, riletto ai giorni nostri, è quanto mai attuale.

La parte più criticata del Manifesto fu, come comprensibile, quella che chiamava a una sorta di “pirateria di massa”. Fu anche la parte che interessò di più, vedremo, gli investigatori.

Già a diciassette anni Aaron, in un breve articolo che gli era stato commissionato dal New York Times Upfront, affermava che “Downloadin’Isn’t Stealing”: “scaricare non è rubare”.

Il quotidiano pubblicò il suo intervento accorciandolo, però, e togliendo una parte dove sembrava che Aaron volesse suggerire ai lettori di infrangere la legge.

Rubare è sbagliato – scrive Aaron in questo documento giovanile – Ma scaricare non è rubare. Se rubo un album dal negozio di dischi del mio quartiere, nessun altro potrà più comprarlo. Ma quando scarico una canzone, nessuno ne perde la disponibilità, e al contempo un’altra persona la ottiene. Non vi è alcun problema etico. Le case discografiche hanno attribuito al fenomeno del download la causa di un calo delle vendite del 15% dal 2000. Ma, nello stesso periodo, c’è stata la recessione, un aumento dei prezzi, una riduzione del 25% delle nuove uscite e la mancanza di nuovi artisti famosi. Tenendo conto di tutti questi fattori, forse il download è in grado di aumentare le vendite. E il 90% del catalogo delle grandi etichette non è più in vendita: Internet è l’unico modo per ascoltare questa musica. Anche se il download danneggiasse le vendite, questo non lo rende, comunque, immorale. Anche le biblioteche e le videoteche danneggiano le vendite. Allora non è etico utilizzarle? Il download può anche essere illegale, ma 60 milioni di persone hanno usato Napster e solo 50 milioni hanno votato per Bush o Gore. Viviamo in una democrazia. Se la gente vuole condividere i file, allora la legge dovrebbe essere cambiata per permetterglielo. E c’è un modo giusto per cambiarla. Un professore di Harvard ha scoperto che una tassa di 60 dollari all’anno per gli utenti della banda larga compenserebbe tutti i mancati introiti. Il governo li darebbe agli artisti interessati e, in cambio, si renderebbe legale il download, stimolando sistemi più facili da usare e più musica condivisa. Gli artisti otterrebbero più soldi e voi più musica. Cosa c’è di non etico in questo?

In questo passaggio del documento si percepisce il dibattito acceso attorno al copyright degli anni Duemila, che interessò anche numerosi giuristi. Vi è un filo molto evidente che lega il tema delle “guerre sul copyright”, esploso in ambito musicale con il fenomeno di Napster e, poi, con la duplicazione illecita dei contenuti dei DVD, e l’idea di permettere di scaricare, e di rendere liberi, anche i libri e gli articoli scientifici. [p. 95 modifica]

Aaron, nel Manifesto, si ispira alle idee di Lessig ma, per certi versi, le estremizza.

Nel pensiero di Lawrence Lessig, ad esempio, il problema, in un quadro simile, era principalmente quello di tutelare le libere utilizzazioni, da parte dell’utente, di opere protette da copyright, utilizzazioni che sono comunque garantite dalla legge.

Di conseguenza, per lo studioso nordamericano non si trattava di discutere se la legge dovesse proteggere la proprietà intellettuale o meno ma, soprattutto, si doveva riflettere sul fatto che le tecnologie stesse non proteggessero troppo, in quegli anni, la proprietà intellettuale, anche più della legge stessa.

Vi era, quindi, un problema di diritto ma, anche, un problema di uso della tecnologia, e del codice, per “chiudere” la conoscenza.

L’idea che Aaron prospetta di ribellarsi e di scaricare e condividere gli articoli non è nuova: una professoressa della Georgetown University, Julie Cohen, aveva da tempo elaborato e reso noto un teorema che era stato definito come “il teorema di Cohen”: un soggetto avrebbe diritto di violare (la studiosa parla proprio di “diritto di hack”) un sistema chiuso al fine di far valere, e difendere, i suoi diritti tradizionali, concessi dalla legge, per le libere utilizzazioni delle opere.

Il parlare di hacking, di apertura, di download e di condivisione, in quegli anni di grande espansione dell’economia digitale e dei profitti degli editori digitali, anche scientifici, poteva essere estremamente pericoloso da un punto di vista delle responsabilità legali.

In un articolo del 1999, pubblicato su The Industry Standard, Lawrence Lessig aveva compilato, un po’ per scherzo, una sorta di lista di comportamenti e azioni/strategie politiche che avrebbero avuto l’effetto, certo e immediato, di regolamentare, in maniera illiberale e liberticida, la società tecnologica così come si stava sviluppando, insieme ai comportamenti dei suoi utenti.

Il primo consiglio ai politici e al Legislatore, contenuto ironicamente nell’articolo, era quello di eliminare il movimento open source con tutte le sue influenze. Se il mondo di Internet avesse continuato a essere popolato da hacker, geeks, esperti e curiosi di informatica che combattevano perché il codice e la cultura fossero aperti, e se costoro avessero prodotto sempre di più software in codice aperto, una regolamentazione del ciberspazio sarebbe risultata sempre più difficile. Un dominio assoluto, invece, dell’idea di “chiusura” – ad esempio da parte del software commerciale e proprietario – sarebbe stata la chiave per garantire un controllo completo, sia a livello d’applicazioni, sia di architettura.

Nel pensiero di Lessig, ad esempio, è impossibile “imbrigliare” e regolare il comportamento di hacker come Aaron, anche se è stato fatto un gran lavoro, negli anni, per cambiare, nella percezione della gente comune, il senso del termine “hacker” e dare una connotazione negativa a un simile movimento culturale.

È molto più semplice, di conseguenza, regolamentare in maniera rigida tutto ciò che riguarda l’architettura e i contenuti, compresi i contenuti scientifici: se [p. 96 modifica] il software che governa la rete e i suoi servizi, i grandi archivi di contenuti, la produzione scientifica rimarranno liberi, sarà praticamente impossibile, per un soggetto privato o pubblico, controllare interamente il mondo digitale. Al contrario, la chiusura, operata anche tramite contratti di licenza e paywall, garantirà un sempre maggiore controllo.

La libertà del software, dei contenuti e della scienza intimorisce perché elimina alla radice ogni possibilità di confinare Internet all’interno di uno spazio perfettamente, e completamente, regolabile.

Nei dialoghi tra Aaron e Lessig, soprattutto negli ultimi tempi, i temi politici erano diventati preminenti, a volte anche più di quelli tecnologici, e lo si nota anche nella narrazione del Manifesto.

Lessig sosteneva, ad esempio, che chi si occupa di difesa dei diritti di libertà in Internet dovrebbe sempre analizzare sia l’azione del cosiddetto West Coast Code (il codice informatico che è sviluppato in California, nella Silicon Valley), sia l’azione del cosiddetto East Coast Code (ossia l’insieme dei provvedimenti legislativi voluti dal Congresso sul tema del digitale).

Per Lessig, la protezione degli interessi delle grandi società, attraverso il controllo tecnologico dei contenuti che producono, può essere ancora più dannosa dell’azione legislativa: tali strumenti informatici sono, infatti, più veloci, più economici e più facili da implementare rispetto agli strumenti legislativi.

Una reazione corretta a questa prassi, secondo Lessig, è quella della critica, più che della condanna aprioristica: ogni cittadino dovrebbe sviluppare, anche verso il codice informatico, lo stesso senso critico che ha nei confronti delle leggi.

Ogni software dovrebbe essere sottoposto, da parte del cittadino, a un vero e proprio esame, a un giudizio basato sui valori del prodotto, e ci si dovrebbe sempre domandare, secondo Lessig, per quali fini è utilizzato quel software, a che prezzo, e se il suo funzionamento è compatibile con quei valori che si ritengono, in un determinato contesto, imprescindibili.

Queste teorie del software e della sua “liberazione” sono ben presenti nell’idea del Manifesto di Aaron, anche se applicate alla ricerca e produzione scientifica, ed esasperate un po’ con alcuni pensieri tipici del mondo hacker di allora.

Lessig aveva un approccio molto più pacato: da giurista, cercava di operare in un’ottica di libertà, ma sempre dentro i confini della normativa sul copyright, magari cercando di allargarli il più possibile o di individuare spiragli di nuove libertà, o vulnerabilità, nel sistema.

Aaron, nella sua chiamata alle armi, si rifà ai padri costituenti e all’idea del diritto “naturale” di non seguire le indicazioni di norme ritenute ingiuste dalla maggior parte dei cittadini, e di ribellarsi.

L’idea del combattere, del ribellarsi, di non considerare il quadro giuridico, non ha affascinato solo Aaron: tre anni dopo, il 5 settembre del 2011, una sviluppatrice di software e ricercatrice kazaka, Alexandra Elbakyan, prenderà ispirazione (anche) dal Manifesto di Aaron e darà vita a Sci-Hub, enorme archivio [p. 97 modifica] scientifico online gratuito, che rende disponibili articoli indipendentemente dal loro regime di copyright. Si tratta, probabilmente, di uno dei più clamorosi progetti oggi in corso con, alla base, l’intento dichiarato di liberare la conoscenza scientifica.