Adone/Dedica a Maria de' Medici
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DEDICA
A MARIA DE’ MEDICI
Alla
Maestà Cristianissima
di Maria de’ Medici
Reina di Francia, e di Navarra.
La Grecia di tutte le bell’arti inventrice, la qual sotto velo di favolose fizzioni soleva ricoprire la maggior parte de’ suoi misteri, non senza allegorico sentimento chiamava Hercole Musagete, quasi Duce e Capitano delle Muse. Il che non con altra significazione (s’io non m’inganno) hassi da interpretare, che per la vicendevole corrispondenza che passa tra la forza e l’ingegno, tra ’l valore e ’l sapere, tra l’armi e le lettere; e per la reciproca scambievolezza che lega insieme i Prencipi e i Poeti, gli scettri e le penne, le corone dell’oro e quelle dell’alloro. Perciò che sì come alla quiete degli studii è necessario il patrocinio de’ Grandi, perché gli conservi nella loro tranquillità; così allo ’ncontro la gloria delle operazioni inclite ha bisogno dell’aiuto degli Scrittori, perché le sottraggano alla oblivione. E sì come questi offrono versi e componimenti, che possono a quelli recare insieme col diletto l’immortalità; così ancora quelli donano ricompense di favori, e premi di ricchezze, con cui possono questi menare commodamente la vita. Quinci senza alcun dubbio è nato ne’ Signori il nobilissimo costume del nutrire i Cigni famosi, acciò che illustrando essi col canto la memoria de’ loro onori, la rapiscano alla voracità del Tempo. Quinci d’altra parte parimente si è derivata in coloro che scrivono, l’antica usanza del dedicare i libri a’ Gran maestri, a’ quali non per altra cagione sogliono indirizzargli, se non per procacciarsi sotto il ricovero di tale scudo sicura difesa dall’altrui malignità, e dalla propria necessità. Questi rispetti mossero Virgilio ad intitolare il suo Poema a Cesare, Lucano a Nerone, Claudiano ad Onorio, ed a tempi nostri l’Ariosto e ’l Tasso alla Ser.ma Casa da Este. Questi istessi dall’altro lato mossero Mecenate a sovvenire alla povertà d’Orazio, Domiziano a promuovere Stazio e Silio Italico a gradi onorevoli, Antonino a contracambiare con altrettanto oro le fatiche d’Oppiano; e ultimamente (per tralasciare gli altri stranieri) Francesco il primo Re di Francia a remunerare con effetti di profusa liberalità le scritture dell’Alamanni, del Tolomei, del Delminio, dell’Aretino, e d’altri molti letterati italiani; Carlo il nono a stimare, onorare, e riconoscere oltremodo la virtù ed eccellenza di Piero Ronzardo; Arrigo il terzo ad accrescere con larghe entrate le fortune di Filippo di Portes, Abate di Tirone; ed Arrigo il quarto dopo molti altri segni d’affezzione parziale, ad essaltare alla sacra dignità della porpora i meriti del Cardinal di Perona. Non mossero già (per mio credere) questi rispetti la M.tà Cr.ma di Lodovico il Xiii quando con tante dimostrazioni di generosità prese a trattener me nella sua corte, sì perché all’edificio della sua gloria non fa mestieri di sì fatti puntelli, sì anche perch’io non son tale, che basti a sostenere con la debolezza del mio stile il grave peso del suo nome. Né muovono ora similmente me a consacrare a S. M.tà il mio Adone, come fo, sì perché l’animo mio è tanto lontano dall’interesse, quanto il suo dall’ambizione, sì anche perché sono stato prevenuto co’ benefici, ed ho ricevuti guiderdoni maggiori del disiderio, e della speranza, non che del merito. Ma quantunque i fini principali della sua protezzione e della mia dedicazione non sieno questi, contuttociò tanto per la parte che concerne i debiti della obligazion mia, quanto per quella che s’appartiene ai meriti della grandezza sua, con ragione parmi che si debba il presente libro al nostro Re, e che da me al nostro Re sia buon tempo fa giustamente dovuto. Devesi a lui, come degno di qualsivoglia onore; e devesi da me, come onorato (ben che indegnamente) del titolo della regia servitù.
Per quel che tocca a S. M.tà dico, ch’è proporzionato questo tributo, essendosi già col sopraccennato essempio d’Hercole dimostrato, ch’a’ Prencipi grandi non disconvengono poesie. E mi vaglio della somiglianza d’Hercole, meritando egli appunto ad esso Hercole d’essere per le sue azzioni paragonato; poi che se l’uno ne’ principii della sua infanzia ebbe forza di strangolare due fieri Dragoni, il che fu preso per infallibile indizio dell’altre prove future; l’altro ne’ primordii e della sua età e del suo governo conculcò né più né meno due ferocissime e velenosissime Serpi, dico le guerre intestine di Francia, e le straniere d’Italia, superate l’una con la mano del valore, l’altra con quella dell’autorità; dal qual atto si può far certissimo giudicio dell’altre imprese segnalate, che ci promettono gli anni suoi più fermi. Havvi però di più tanto di differenza, che quel che l’uno operò già adulto e robusto, l’altro ha operato ancor tenero e fanciullo, estirpando dal suo regno un mostro così pestifero, com’era l’Hidra della discordia civile, le cui teste pareva che d’ora in ora moltiplicassero in infinito. E se bene al presente guerreggia tuttavia co’ suoi sudditi, il che par che repugni alla publica pace, e contrafaccia alla concordia dello stato, vedesi nondimeno chiaramente, che dopo l’onor di Dio (ch’è il suo primo riguardo) il tutto è inteso a quel medesimo scopo, cioè di passare alla quiete per lo mezo de’ travagli; né altro pretende, che con la dovuta ubbidienza de’ popoli tranquillando le continove tempeste del suo reame, stabilirsi nella paterna monarchia. Gran cosa certo è il mirare i miracolosi progressi che fa questo mirabile giovane in età sì acerba con sì maturo consiglio, che più di grave non si disidera nella prudenza de’ più canuti. Ecco appena uscito della fanciullezza, mosso dal senno, spinto dalla virtù, guidato dalla Fortuna, accompagnato dalla loda, ascende a gran passi co’ piedi del valore le scale della immortalità, e va crescendo in tanta grandezza di pregio, che oggimai i suoi fatti peregrini sono ammirabili, ma non imitabili. Si arma per l’onor di Cristo, combatte per la verità evangelica, vendica l’ingiurie della corona Gallica, ristora i riti del culto cattolico, fa inviolabili le leggi della buona religione. Le sue forze, le sue armi, le sue genti, i suoi tesori, e tutti i concetti alti del suo animo reale non ad altro fine si rivolgono, che alla gloria del Cielo. Fassi essecutore della divina disposizione, difensore della regia dignità, punitore della insolenza de’ rubelli; e in tutte le sue generose azzioni si dimostra amico de’ buoni, compagno de’ soldati, fratello de’ servi, padre de’ vassalli, e degno figliuol primogenito della Chiesa Apostolica. Risarcisce i quasi distrutti onori della milizia, i disagi gli sono ozii, i sudori delizie, le fatiche riposi. Fa stupire, e tremare, vince prima che combatta, ottiene più trionfi che non dà assalti, e signoreggia più animi, che non acquista terre. Il suo petto è nido della fortezza, il suo cuore refugio della clemenza, la sua fronte paragone della maestà, il suo sembiante specchio dell’affabiltà, il suo braccio colonna della giustizia, la sua mano fontana della liberalità. La sua spada infocata di zelo par la spada del Serafino, che discaccia dalla sua casa i contumaci di Dio; onde il mondo che gli applaude, e che ha delle sue magnanime opere incredibile aspettazione, con voce universale lo chiama Intelligenza della Francia, Virtù del trono e dello scettro, Angelo tutelare della vera fede, poi che angelico veramente è il suo aspetto, angelico il suo intelletto, e angelica la sua innocenza. Così la somma pietà di quel Dio il quale lo regge, ed il quale egli difende, guardi la sua vita, e allontani dalla sua sacra persona la violenza del ferro, la fraude del veleno, e la perfidia del tradimento; come in lui si adempiranno appieno tutte le condizioni di perfezzione che mancarono negli antichi Cesari. E trattandosi in questa guerra santa dell’interesse pur di Dio, non mancheranno a quella infinita sapienza modi da terminarla a gloria sua, e con riputazione d’un Re sì giusto. Quanto poi alla parte che tocca a me, debita ancora, non che ragionevole, stimo io questa dedicatura, acciò che se nell’uno abonda cortesia, nell’altro non manchi gratitudine. Ma con qual cambio, o con qual effetto condegno corrisponderò io a tanti eccessi d’umanità, i quali soprafanno tanto di gran lunga ogni mio potere? Certo non so con altro pagargli, che con parole, e con lodi, in quella guisa istessa che si pagano le divine grazie. Ben vorrei, che la mia virtù fusse pari alla sua bontà, per potere altrettanto celebrar lui, quanto egli giova a me; perciò che sì come i suoi gesti egregi, quasi stelle del Ciel della gloria, influiscono al mio ingegno suggetti degni d’eterna loda, così i favori ch’io ne ricevo, quasi rivoli del fonte della magnificenza, innaffiano l’aridità della mia fortuna con tanta larghezza, che fanno arrossire la mia viltà, onde rimango confuso di non aver fin qui fatta opera alcuna per la quale appaia il merito di sì fatta mercede. Potevano per aventura da questa oblazione distòrmi due circostanze, cioè la bassezza della offerta dal canto mio, e l’eminenza del personaggio dal canto suo. Ma era legge de’ Persiani (come Heliano racconta) che ciascuno tributasse il Re loro di qualche donativo conforme alla propria facoltà, qualunque si fusse. E Licurgo voleva, che si offerissero agl’Iddii cose ancor che minime, per non cessar già mai d’onorargli. Queste ragioni scusano in parte il mancamento del donatore; ma per appagare la grandezza di colui, a cui si dona, dirò solo che quell’istesso Hercole di cui parliamo, per dar alle sue lunghe fatiche qualche sollazzevole intervallo, deposta talvolta la clava, soleva pure scherzando favoleggiare con gli amori. Achille, mentre che nella sua prima età viveva tra le selve del monte Pelia sotto la disciplina di Chirone, soleva (secondo che scrive Omero) dilettarsi del suono della cetera, né sdegnava di toccar talvolta l’umil plettro, e di tasteggiar le tenere corde con quella mano istessa, che doveva poi con somma prodezza vibrar la lancia, trattar la spada, domare destrieri indomiti, e vincere guerrieri invincibili. Per la qual cosa io non dubito punto, che fra l’altre eroiche virtù, ch’adornano gli anni giovanili di S.M.tà, in tanta sublimità di stato, in tanta vivacità di spirito, e in tanta severità d’educazione, non debba anche aver luogo l’onesto e piacevole trastullo della Poesia. E se il medesimo Eroe pargoletto (come narra Filostrato) quando ritornava dall’essercizio della caccia stanco per la uccisione delle fiere, non prendeva a schifo d’accettare dal suo maestro le poma e i favi in premio della fatica, con quello istesso animo grande con cui poi aveva da ricevere le palme e le spoglie delle sue vittorie; perché non debbo io sperare che S.M.tà, non dico dopo le cacce, nelle quali suole alle volte nobilmente essercitarsi, ma dopo le guerre, le quali con troppo dure distrazzioni l’incominciano ad occupare, abbia con benignità a gradire questo picciolo e povero dono presentato da un suo devoto, il quale appunto altro non è, che frutto di rozo intelletto, e miele composto di fiori poetici, quasi lieto e sicuro presagio de’ ricchi tributi, e de’ trionfali onori, che in più maturo tempo saranno al suo valore offerti? Farmi veramente la figura biforme di quel misterioso Semicavallo ben confacevole al mio suggetto, come molto espressiva delle due necessarie e principali condizioni del Principe, dinotando per la parte umana il reggimento della pace, e per la ferina l’amministrazione della guerra. La qual significanza si attende che debba perfettamente verificarsi in S.M.tà, come degno figlio di sì gran padre, ed erede non meno delle paterne virtù, che de’ regni; la cui generosa indole precorre l’età, e vince l’altrui speranze. E già gli effetti ne fanno fede, poi che non così tosto prese in mano le redine dell’imperio, che stabilì per sempre la devozione ne’ popoli; e appena assunto al possesso dello scettro, gli fu commesso l’arbitrio del mondo. Egli è ben vero, che se il Centauro (come finge il medesimo Scrittore) per rendersi uguale alla statura del giovanetto, quando le dette cose nel grembo gli sporgeva, piegando le gambe dinanzi si chinava, chiunque volesse con dono conforme pareggiare gli eccelsi pregi di S.M.tà, ch’ancor crescente si solleva a pensieri tanto sublimi, bisognerebbe per contrario, in vece d’abbassarsi, inalzar più tosto se stesso a quel grado d’eccellenza, che nella mia persona e nel mio ingegno manca del tutto. Per riparare adunque alla disconvenevolezza di cotale sproporzione, io mi sono ingegnato di ritrovare un mezo potente, e questo si è introdurre il mio dono per la porta del favore di V.M.tà, anzi all’una e all’altra M.tà farlo commune, acciò che sì come ella è per tutti una fontana, anzi un Mare, onde scaturiscono agli altri l’acque della vena regia, così sia per me una miniera, onde passando quelle del mio tributario ruscello, piglino altro sapore e qualità, che non dispiaccia a gusto sì nobile. E sì come ella è fatta (si può dire) lo Spirito assistente del regno suo, avendolo tanto tempo governato con sì giusto e provido reggimento, così si faccia anche il Genio custode dell’opera mia, rendendola in virtù del suo glorioso nome e della sua favorevole autorità più cara e più dilettevole. Veramente, che la madre abbia a partecipare delle glorie, e delle lodi, che si dànno al figlio, è dovere di legge umana e divina; e che in particolare debba ella aver parte in quelle che si contengono in questo volume, è cosa giusta sì per rispetto suo, come per rispetto mio. Per rispetto suo, poi ch’essendo V.M.tà la terra che ha prodotta sì bella pianta, e la pianta che ha partorito sì nobil frutto, si debbono tutti gli onori attribuire non meno a lei, come a cagione, che a lui, come ad effetto. Per rispetto mio, perciò che essendo io sua fattura, e dependendo tutto il mio presente stato da lei, per la cui ufficiosa bontà mi ritrovo collocato nell’attual servigio di questa Corte, si come dalla sua protezzione riconosco gli accrescimenti della mia fortuna, così mi sento tenuto a riconoscere le ricevute cortesie con tutti quegli ossequii di grata devozione, che possono nascere dalla mia bassezza. Oltre che, per essere il componimento ch’io le reco quasi un registro delle sue opere magnanime, delle quali una parte (ancor che minima) mi sono ingegnato d’esprimere in esso; e per avere io ridotto il suggetto che tratta (come per l’allegorie si dimostra) ad un segno di moralità la maggiore che per aventura si ritrova fra tutte Cantiche favole, contro l’opinione di coloro che il contrario si persuadevano; giudico che ben si confaccia alla modesta gravità d’una Prencipessa tanto discreta.
Or piaccia a V.M.tà con quella benignità istessa, con cui si compiacque di farmi degno della sua buona grazia, accettare, e far accettare la presente fatica; onde si vegga, che se bene il mio ingegno è mendico e infecondo, e il Poema che porta è tardo frutto della sua sterilità, vorrei pur almeno in qualche parte pagar con gli scritti quel che non mi è possibile sodisfar con le forze. Se ciò farà (per chiudere il mio scrivere con l’incominciato paralello d’Hercole) ricevendo ella per se stessa, e rappresentando a S.M.tà composizioni di Poeta come non indegne di Re guerriero, né disconvenevoli a Reina grande, conseguirà la medesima loda che conseguì già Fulvio, quando delle spoglie conquistate in Ambracia trasportò nel tempio dello stesso Hercole da lui edificato i simulacri delle Muse. E senza più augurando a V.M.tà il colmo d’ogni felicità, le inchino con reverenza la fronte, e le sollevo con devozione il cuore.
Di V. M.tà Umilissimo, e devotissimo servitore |