A Ferdinando Borbone
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VII
FERDINANDO BORBONE
Se mala signoria, che sempre accuora Dante, Paradiso , VIII. |
Mentre dell’ampia Napoli
il pescator mendico
spesso le maglie inutili
getta sul mar nemico,
5e la nefanda Inopia
l’ali sue negre stende
sulle selvagge tende
del ealabro pastor,
e l’abbruzzese ai pargoli
10l’ira col pan divide,
e alla sicana vergine,
pur quando danza o ride,
balena una profetica
stilla sul ciglio oscuro,
15e regna ovunque il duro
trionfo del Dolor;
tu re nascevi all’alito
dei cedri, al suon dei carmi;
ftír tue le vite, i codici,
20l’oro, le messi e l’armi:
tutto fu tuo. Dall’arbitra
sorte locato in trono,
per esser giusto e buono
che ti mancava, o re?
25E, quando primo i liberi
voti d’Italia udisti,
e sfolgoranti all’aere
i tre color fur visti,
del lungo ceppo immemori
30d’ebra letizia ardenti;
dimmi, o signor: due genti
non ti vedesti al piè?
Toccate allor le pagine
dell’Uno e Trino Iddio,
35giuravi tu: — La folgore
piombi sul capo mio,
se quel, ch’or dona ai popoli,
questa mia man riprenda!
E al sacramento attenda
40custode il mondo e il del. —
Or che hai tu fatto, o misero
spergiurator? Sull’ugne
de’ tuoi corsicr la polvere
delle lombarde pugne
45veder tremasti; e al vindice
Carlo il tuo brando hai tolto,
transfuga iniquo e stolto
dall’arca d’Israel.
Tesi gli orecchi e pallido
50sulla regai cortina,
stavi origliando il sonito
dell’itala ruina,
come sparvier famelico
odora il pasto umano,
55su cui dall’erta al piano
cupido avventa il voi.
E, quando il sol sui barbari
elmi splendea giocondo,
e lacrimava al funebre
60aitar d’Italia il mondo,
ahi! tu, d’Italia principe,
sulle codarde piume,
tu congioisti al lume
di quel nefando sol!
65Va’, tenta Dio; poi chiedigli
ch’ei ti difenda e t’ami,
Ei non placabil giudice
di quelle gioie infami.
Guarda, se puoi, nell’impeto
70dell’insanir feroce,
questa sabauda croce
senza spavento in cor!
Pensavi tu che il fremito
dell’anime secure,
75sotto l’orrenda immagine
d’un palco e d’una scure,
cadria domato? 11 libero
per codardie non muta:
la libertá saluta,
80pugna, sorride e muor.
Lá nelle turpi tenebre
de’ tuoi castelli, o cicco,
ben tu insepolcri i mártiri,
ma il lor martirio è teco;
85però che lá puoi vincere
poche languenti salme,
non i pensier, non l’alme,
non Dio che insiem le uni.
Fisa le illustri vittime
90tu, men di lor tranquillo.
Dimmi: non senti i palpiti
di Mario e di Cirillo
sotto quei polsi, o despota,
che tu di ferri hai cinto?
95Morto cadrá, non vinto,
chi da quel sangue usci.
Credevi tu che un’unica
benedicente mano
dell’atterrito apostolo,
100che piange in Vaticano,
srspenderia l’unanime
giudicio della terra?
Ah! chi, all ’aitar, non erra,
schiavo al tuo scettro, errò.
105E i figli suoi, che il videro
darti i fatali amplessi,
e all’oppressor sorridere,
lui padre degli oppressi,
tremar per quei segnacoli
110di ch’ci si noma erede,
tremar per quella fede
che Dio gli consegnò.
Speravi tu nel cupido
furor del Moscovita,
115che verso noi le indomite
criméc puledre incita,
poi d’Oriente ai zefiri
cauto le briglie gira,
svegliar tremando l’ira
120de l’Occidente alfin?
Forse lo attendi? A Dalila
offri, o Sansón, la chioma.
il boreal pontefice
non e giá quel ili Roma.
125Uno t’abbraccia e lacrima,
grato all’ospizio offerto;
l’altro d’Arrigo il serto
ti strapperia dal crin.
Va’, incresci a Dio: dell’isola,
130che osò gridar: — Fernando
non e piú re — ti vendica,
or che hai la legge e il brando.
Ma sul lerren di Procida
sangue di Francia stilla,
135e la tremenda squilla
non ha perduto il suon.
Quando tra prence e suddito
tratto è Tacciar, la Pace
velasi e muor. Longanime
140l’odio resiste e tace;
tace, e nelTombre edifica
coll’ignea man presaga
sulla terribil daga,
che non udrá perdón.
145Che speri or dunque? Un’opera
d’insania e di sgomento
è ogni tuo di; la lugubre
notte t’insegue; il vento
parla e t’impreca; il gemino
150mondo t’acclama infido;
sin l’innocenza un grido
ha di terror per te.
Se i tuoi leali assiepano
folti la regia stanza,
155dal fianco tuo si svincola
l’Onore e la Speranza;
e sin fra’tuoi qualch’intimo
genbl pudor si sdegna.
Dove Fernando regna,
160regno di Dio non v’è.
Me non lusinga il torbido
rumor di plebi inette;
mai co’ larvati Spartachi
la musa mia non stette:
165amo e cantai quel soglio,
dov’è del prence a lato,
con nodo immaculato,
la sacra libertá.
E non dal facil odio,
170come lo senton gl’imi,
ma dai dolor che ari ivano
lá dai scbczi climi,
e dalla man degli esuli
che lacrimando strinsi,
175oggi quest’ira attinsi,
che mi parca pietá!
A bruri ti vesti, o povera
Napoli bella. Intanto
io col fedel mio Renio
180penso d’Italia il canto;
e, per lenir pii spasimi
del cupo affanno, ond’ardo,
lascio vagar lo sguardo
dietro un regni destricr,
185su cui la bella immagine
d’Emanuel s’accampa,
e intorno a cui Io spirito
di mille prodi avvampa:
onde nel cor mi piovono
190rai d’una nova aurora,
e il Dio di Dante ancora,
sento ne’ miei pcnsier.