Vite dei filosofi/Cenni del traduttore

Cenni del traduttore

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Diogene Laerzio - Vite dei filosofi (III secolo)
Traduzione dal greco di Luigi Lechi (1842)
Cenni del traduttore
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CENNI

DEL TRADUTTORE.



Diogene Laerzio, venuto in qualche fama col tempo e per solo difetto di libri migliori1, fu tante volte lodato e vilipeso da uomini letteratissimi2 che a conciliarne i giudizii e a dar [p. viii modifica]ragione dei molti studii che vi si spesero intorno è giuoco forza sequestrare senza più l’autore dal libro. Questo modo ci conduce di leggieri a ravvisare nel buon Laerzio l’uomo non affratellato colla critica, non avvezzo a seguire per filo un sistema, non abile a pesare autorità e dottrine di’ e’ reca in mezzo senza avvedersi talora di mutilarle o frantenderle, senza mai darsi briga di collegarle o vestirle con arte e modi appropriati3; ma a tenere il suo libro per una selva di fatti importantissimi, per una raccolta assai preziosa di brani cavati da gran numero di scrittori che più non esistono4, per una congerie di nomi, di dommi, di sentenze, di epoche, cercate con diligenza, offerte con ischiettezza, senza scopo per trasandarle, senza malizia per alterarle5. [p. ix modifica]Questo libro, se m’appongo, meritava di essere tradotto.

Pur chi fu Laerzio e quando visse? — Alla prima dimanda null’altro rispondono gli eruditi se non che Laerzio fu l’autore anche di un libro di epigrammi, chiamato Pammetro6, che in gran parte travasò nelle Vite; all’altra, che Sopatore facendo menzione di Laerzio, e Laerzio dicendo la setta eclettica di Polamone da non molto introdotta, e’ fu anteriore al primo, contemporaneo del secondo, e visse in sullo scorcio del terzo o al principiare del quarto secolo.

I manoscritti, le edizioni, le traduzioni, i comenti delle Vite sono in buon dato. Enumerandoli qui ripeterei senza frutto ciò ch’altri scrisse7. Toccherò di una versione italiana e dei testi di cui mi sono giovato. [p. x modifica]

L’anno 1545, preceduta da due altre versioni italiane, una del sunto di Laerzio, fatto dal Burley, una di trenta vite, pur dal latino8, apparve l’intiera, della quale teniamo discorso. Essa, rimasta anche sola finora9, è fattura di due fratelli Rosetini di Pralboino, i quali vi pongono innanzi la dichiarazione, di che difficoltà sia l’interpretar d’una in un’altra lingua, quanto più tra sè sono lontane; e l’eccitamento a chi non ne fosse soddisfatto di far conferire il testo volgare

[p. xi modifica]col greco, d’onde è stato cavato! — Or bene, i fratelli Rosetini neppure salutarono il testo da lunge, anzi voltando dal latino e da una edizione scorrettissima di frate Ambrogio, fecero opera così spregevole da lasciare il libro di Laerzio peggio che non traslatato10. [p. xii modifica]

Il testo sul quale io condussi da prima la mia versione fu il Westeniano reputatissimo11, ma prescelto a mia disperazione se non fossero venuti in soccorso l’Aldobrandino e quello di E. Stefano. Conosciutone, assai tardi, scorrendo a caso il Brunet, uno di Lipsia12, [p. xiii modifica]procacciatomelo e ripassato anche su questo il mio lavoro, come una lunga epatite mi consentì, lo consegnai finalmente alle stampe.

E tu, o Lettore, ch’io vorrei cortese e non dotto - i dotti hanno sul Diogene altre lautezze che il mio povero lavoro - aggradisci la schietta fedeltà di un volgarizzamento che non fu senza fatica, poche note raggranellate alla fine di ciascun libro per dichiararti qualche passo del testo od ammannirti qualche dottrina ed alcune appendici alla fine dell’opera per integrare o ricordare sistemi o monchi od al tutto preteriti dall’Autore, accennando all’uopo, brevemente ed in iscorcio, le principalissime vicende della filosofia che precedette o susseguì la greca13, a solo [p. xiv modifica]intendimento di mostrare qual parte avesse anche nell’opera della sapienza Un popolo privilegiato, che più di qualunque sentì le impressioni del bello, ne riprodusse le immagini colle meraviglie dell’arte, e se non fu, come spaccia il buon Laerzio, di ogni cosa inventore, ogni cosa tuttavia penetrò colla potenza dell’ingegno.

Note

  1. Massime filosofici, dei quali il più grande adunamento perì colla biblioteca d’Alessandria. Molti per inconsulto fervore, come dice Brucker, ne distrusse il Magno Gregorio, nell’abbruciare que’ dei gentili; molti Al-Mamun, per disperdere, sotto pretesto di raccorle, le fonti dell’araba filosofia. Ultima peste, e la maggiore cui soggiacquero, dopo quella del tempo, fu il bisogno di pergamena che indusse i frati a raschiare i codici e ad iscrivervi le loro opere teologiche o divote.
  2. F. Ambrogio chiama Diogene scrittore poco diligente; scrittore dottissimo Scaligero. Mediocre ingegno lo dice Parcker; il Curio filosofo dei primi. Struvio giudica il suo libro fondamento di tutta la storia filosofica; Stollio lo crede sfuggito al pizzicagnolo, solamente perchè perirono le opere da cui fu tratto. Bayle lo critica amaramente in molte parti del suo dizionario; de Maupertui lo loda come dei più dilettevoli ed utili. — Uno spiritoso francese qualificò Laerzio il Ribadeneira del suo secolo.
  3. Non chiarezza; non purità di stile; non ombra di atticismo. Diogene, dice Le Clere, inesatto scrittore, usa di quello stile che i Greci appellano idiotico, proprio delle persone prive di lettere.
  4. L’ouvrange de Diogène, dice Schœll, est un de plus prècieux de l’antiquitè par la quantitè des faits et des notices qu’il nous fournit, et par un grnnd nombre de passages d’auters perdus qu’il nous a conservè. Sono più di quattrocento, e nessuno quasi è giunto a noi. Quante vite e quanti dommi non si ignorerebbero!
  5. Il suo libro non lo appalesa nè attico, nè cristiano, nè platonico, nè epicureo, o di una setta qualunque, se pure ad alcuna appartenne, com’altri pretese.
  6. Pammetro (di ogni misura), cioè raccolta di poesie di vario metro. — Di codesti epigrammacci, peggiori anche della sua prosa, alcuni si trovano nel compendio di Esichio, nelle Chiliadi di Tzetze, nell’Antologia di Plannde; Brunck gli escluse da’ suoi Analetti; perchè, dice Jacobs, paucissima sunt in iis tollerabilia, longe plurima autem vehementer inepta et frigida, nec sermonis elegantia, nec numerorum bonitate commendanda. E questi epigrammi che sono ben suoi rendono testimonianza bastevole dell’ingegno di Laerzio per isconfortare chiunque volesse purgarlo di quelle colpe ch’altri amò attribuire agli amanuensi, al tempo, ec.
  7. Possono i lettori in proposito consultare l’edizione del Weslenio, ma più che tutto l’introduzione dottissima dell’av. Pietro Menin premessa ad una versione italiana delle vite di Laerzio (Venezia, 1826) che non oltrepassò quella di Pittaco.
  8. L’una verisimilmente di Antonio Cartulario, nobile padovano, morto nel 1440, stampala in Venezia da Bernardino Celerio da Lucre l’anno 1480, in 4.°; ristampata poi molte volle; l’altra di un anonimo che dà a sè stesso il titolo di ozioso, e che scelte dalla traduzione di frate Ambrogio trentasei vite, a lui sembrate le più dilettevoli, le trasportò in italiano. Anche questa fu stampata in Venezia senza anno e nome di tipografo; ma forse, secondo l’avv. Manin, al principiare del secolo XVI.
  9. Quella dell’Astolfi è un compendio. — Salvini non tradusse che il libro sesto. — Un Viaroli la vita di Teofrasio. — Spiridione Blandi la vita di Eraclide Pontico. — Gaetano Carcano gli epigrammi inseriti da Planude nella sua antologia. — La traduzione francese al solito; nè migliorata nelle moderne ristampe! — Buona, per quanto mi si disse, la tedesca del Boreck. Non conosco le inglesi.
  10. Lo diranno i pochi raffronti che la natura di queste note concede. — Diogene: egli aveva primo aggiunto una mente alla materia. — Rosetini: Anassagora primo fu che puose mente a la materia che si chiama yle. — Affermava costui principio ed elemento essere l’infinito. — Pose costui per principio essere questo elemento immenso et infinito. — Nato cretese, di Gnosso, non ne aveva l’aria per la lunga capellatura. — 'Di patria candiotto, nato da Gnosso, dove per la natura del castello dicesi aver mutata effigie. — Trovò il modo di fare con minuti legni ben capaci vaselli. — Trovò il legno con che si fanno i vasi gonfi a guisa d’una panza ben gonfia. — Compiacere altrui della propria bellezza. — Donar via la sua specie ad un altro. — La presunzione chiamava un impedimento al progresso. — Diceva che era una immaginazione lo impedimento al partire. — Quando si corcava cacciavasi in mano una palla di bronzo, supponendovi un bacile, affinchè, cadendo la palla nel bacile, e fosse desto dal romore. — Quando si metteva a riposarsi, trova in su una balla di ferro pigliandola or con una mano or con l’altra ivi sottoposta la conca. — Jerofante. — Inquisitor delle eresie. — Diogene cinico. — Diogene canino. — Di tutti guida, amplissimo Platone. — Fra questi andava altiero il gran capitano Platone. — Navigò in Sicilia per vedere l’isola e i crateri. — Per vedere l’isola e le tazze!!! — Tre edizioni, tutte di Venezia, ebbe questa versione, una del 1545, una del 1561, ed una del 1566, in 8°. — I Rosetini protestando sempre di voltare dal greco, tradussero anche Aristofane, ma servendosi della versione latina di Andrea Dino di Capodistria, tacciato di non sapere nè greco nè latino, pubblicarono, col soprassello della propria ignoranza, un altro libro che il Gamba chiama miserabile e puerile.
  11. I giudizj degli uomini escono spesso come le pecorelle dal chiuso! L’edizione del Westenio fu della buona, forse perchè magnifica — e tutti, senza più, ripeterono ch’era buona non riflettendo che poca confidenza doveva inspirare a’ dotti il nome di M. Meibomio! — Odasi l’ultimo editore di Laerzio: «Verum is cui curain delegaverat, M. Meibomius non ille boni viri fide cura librario egit, sed ingenio malo pravoq. abusus est ad Diogenem eiusq. interpretem Ambrosium turpiter corrumpendum atq. interpolandolum. Temeritas antera Meibomii tantopere grassata est, ut quidquid ipsi in mentem veniret tamquam aliter esse non posset, ita statim reciperet, ut neque rationem adderet nulliam, neq. adnotaret quam fecisset mutationem. Adnotationum vero officium ita explevit, ut si ab una Epicuri vita discesseris, perpaucas daret ad reliquorum vitas philosophorum; in quis sane ita lapsus est, ut modo miserandus, modo irridendus esse videatur.» Huebnerus.
  12. Diog. Laertii de vitis etc. Graeca amendatiora edidit, notatione emendationum, latina Ambrosii interpretatione castigata, appendice critica atq. indicibus instruxit Henr. Gust. Huebnerus Lipsiensis. Lips. C. F. Koehlerus, 1828, in 8.°, vol. IV. — Il lavoro dell’Huebnero è dotto e coscienzioso. Confessa egli di aver sempre consultato, massime pe’ versi, l’eruditissimo Gof. Hermanno; e di avere fatto assai poco per congettura propria. La sua appendice critica rimasta sospesa, per morte, alla fine del lib. VIII, fu compita da Car. Jacobitzio.
  13. Mi sono giovato di Menagio, Casaubuono, Bruckero, Jacobs, Conio, Rossi, Uebnero, Visconti, Cousin, Salinis, ec., ec. ma più che di tutti di Ritter, la cui storia dell’antica filosofia mi parve pregevolissima per ogni rispetto. Valgami siffatta dichiarazione anche ov’io non accennassi le fonti alle quali ho attinto per questa compilazione, che tale soltanto, e non altro, io la reputo, per non dare, come alcuni sogliono, a sì fatte maniere di studii, che lo Scarron chiama sapere per ìndices, maggior peso di quello che e’ meritano in tanta abbondanza libri e di indici. Il perchè d’ordinario ho anche creduto inutile, non trattandosi di discussioni, citare alla maniera dei forensi, il libro e la pagina.