Vita di Galileo Galilei scritta da Giovanni Bonfanti
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V I T A
D I
G A L I L E O G A L I L E I
VITA
DI GALILEO GALILEI
SCRITTA
Da nobile prosapia nacque in Pisa Galileo Galilei l’anno 1564 nel dì 15 febbrajo, ed ebbe in genitori Vincenzo di Michelagnolo Galilei, e Donna Ammanati di Pescia.
Ne’ suoi primi anni venne istruito a Firenze nella lingua latina, italiana e greca, nella poesia, nella musica, e si dilettò ancora della pittura.
Pervenuto intanto all’età d’anni 18, passò a Pisa ad apprendere medicina, secondo la volontà del padre, il quale d’elevatissimo ingegno e spirito scorgendolo, sperava in quella da lui felice riuscimento. Ivi adunque cominciati quegli studi insieme alla peripatetica filosofia, non potè a meno di non dimostrarsi, quasi da naturale istinto tratto, alle dottrine di quest’ultima avverso: tuttavia proseguì in questi esercizj per circa tre anni, consultando da sè le opere degli antichi e più illustri filosofi.
Or avvenne, che un dì trovandosi nel duomo di Pisa una lampana smossa mise innanzi agli occhi suoi una semplice e precisa misura del tempo, dietro di che, siccome studiava in medicina, trovò modo di misurare la frequenza del polso, cosa che recò meraviglia a’ medici di que’ tempi, e fu avuta assai cara da tutti.
Di sovente dal padre egli udiva dirsi, che la pittura, l’architettura e la musica traevan tutte origine e fondamento dalla geometria; per la qual cosa gran desiderio gli entrò di conoscere una tal scienza, e pregò quindi il padre, acciocchè in quella ne lo facesse istruire; ma perchè dalla medicina non si distraesse, la grazia fu a lui negata.
Eravi in que’ tempi certo Ricci Ostilio di Fermo, matematico del duca di Toscana, e intrinsicissimo della famiglia Galilei. A lui ne venne il Galileo, ed umilmente il pregò, che gli volesse dichiarare Euclide. Il Ricci, ottenuto però anche il consenso del padre, il soddisfece, e cominciò a far conoscere al Galileo, che allora contava dell’età sua gli anni 22, i primi elementi della geometria. Come conobbe il bello e l’utile di sì fatta scienza, sentì dolore per non essersi molto prima incamminato in quella, e datosi con fervore, assiduità ed impegno a questo studio, pose in trascuranza la medicina; della qual cosa avvedutosene il padre, ne lo riprese acerbamente, ed il Ricci per questa causa privollo delle consuete lezioni.
Nè pertanto s’arrestò il Galileo, chè fattosi anzi maggior coraggio, fermo propose di scorrere da per sè stesso il primo libro di Euclide, e felicemente vi riuscì. Preso vie più animo, giunse al libro settimo; ed un giorno chiamato a sè il padre fecegli sentire il profitto che fatto avea senza gli ammaestramenti e l’ajuto d’alcuno, ed in così breve spazio di tempo; pregandolo quindi a non volerlo distorre da quello studio, al quale da naturale inclinazione sentivasi chiamato. Preso il genitore da allegrezza e meraviglia, non potè far a meno di non secondare la virtuosa brama del figliuolo.
Abbandonata adunque egli la medicina, percorse velocemente tutte le opere de’ geometri di prima classe, scrisse intorno la fabbrica ed uso di quella sua bilancia per la cognizione della gravità in ispecie delle diverse materie, e della lega de’ metalli ed altre molte cose, che comunicate a’ suoi amici, si resero pubbliche in diverse parti d’Italia e fuori.
Per così fatti ritrovamenti, e perchè liberamente e sensatamente filosofava, s’acquistò fama di alto ingegno. Strinse quindi amicizia per lettere con Guidubaldo de’ Marchesi dal Monte, gran matematico di que’ giorni, che dimorava in Pesaro, e con esso lui s’applicò alla contemplazione del centro di gravità dei solidi, e tanto seppe in questa materia operare, che fu da tutti esaltato e commendato grandemente, acquistandosi pure la benevolenza del gran duca di Toscana Ferdinando I, e del principe don Giovanni de’ Medici.
Divenuta vacante la cattedra di matematica in Pisa, vi fu promosso, ed ivi entrò l’anno 1589, e dell’età sua vigesimo sesto. Qui egli essendo, vòlse la mente ad altissime cose; imperciocchè alle prime osservazioni della lampana fece seguire le pubbliche esperienze della caduta de’ corpi gravi dalla cima del campanile, e cominciò quindi ad attaccare e battere in ogni parte la fisica peripatetica; e si fu questo il principio della riforma generale de’ suoi studi, e quello ancora delle sue più disgustose vicende; dappoichè molti filosofastri se gli mossero contro, ed in guisa lo perseguitarono, che fu costretto di abbandonare Pisa, e ridursi in Padova, ove subito dalla Serenissima Repubblica di Venezia ottenne in quella sua Università la lettura delle matematiche. Scrisse quivi vari trattati, fra i quali uno di fortificazione, uno di gnomonica, un compendio di sfera, un trattato di meccanica, ritrovò il termometro, e nell’anno 1597 inventò il suo ingegnosissimo compasso geometrico e militare, insegnandone l’uso; e fatta particolar osservazione sopra la virtù della calamita, ottenne con esperienze di armare qualunque pezzo, che sostenesse di ferro cento volte più che disarmato.
Circa l’aprile del 1609 fu per semplice caso, che in Olanda un artefice collocò due lenti in modo, per cui si vedevano gli oggetti vicini resi più grandi del loro stato naturale, ed i lontani apparivano più vicini. Se ne sparse di ciò voce in Venezia, e giunse ancora alle orecchie del Galileo, il quale s’immaginò tosto l'opportuna combinazione delle lenti, ed in pochi giorni formò un occhiale, che rendeva tre volte il diametro più grande, e nove la superficie e la grandezza apparente degli oggetti. Altri poi ne costrusse, e finalmente ne presentò uno alla Veneta Repubblica, che recava l’ingrandimento fino ad un migliajo di volte, per il qual dono, ma più per l’invenzione di sì fatto istromento, ebbe dalla Repubblica stessa largo compenso, oltre d’essere stato creato lettore in vita con maggiore stipendio. Per mezzo d’altre combinazioni di lenti giunse poi a costruire il microscopio, applicandolo ad osservare i minimi componenti le materie, e le mirabili conformazioni delle parti e membra degli insetti.
Da così alti segni d’ingegno cresceva sempre più la fama del Galileo; ma allora divenne gloriosa, ed allora cominciò a prendere altissimo volo, quando il telescopio nelle mani di questo gran Genio portò in poco tempo alla cognizione dei corpi celesti, allo scoprimento d’altri non visti, al fine dei sogni astronomici d’Aristotile e di Tolomeo, al trionfo del sistema Copernicano, ad una nuova fisica celeste, e ad una nuova maniera di filosofare.
S’accinse primieramente a contemplare la Luna, e la scoperse di superficie ineguale. Vide le stelle nubilose, la via lattea, e nel dì 7 Gennaio del 1610, osservando Giove, lo ritrovò circondato da 4 pianeti che a lui giravano intorno per orbite determinate e distinte, e con regolari periodi nel loro moto. Consacrando questi pianeti all’immortalità della Casa de’ Medici, diede loro il nome di Medicèi. Fatte simili ed altre scoperte ed osservazioni, nel marzo del 1610 mandolle a luce per mezzo del suo Nunzio Sidereo, stampato in Venezia, e dedicato da esso lui a Cosimo II, gran duca di Toscana, il quale in segno di gratitudine, con lettera data il dì 10 luglio del suddetto anno, lo chiamò a sè col titolo di primario e sopraordinario matematico dello Studio di Pisa, senza obbligo di leggervi, e di suo primario filosofo e matematico con amplissimo assegno. Il Galileo coronò intanto il suo soggiorno in Padova colla scoperta de’ primi fenomeni, che valsero poi ad Ugenio per lo scoprimento dell’anello di Saturno.
Arrivato in Toscana circa il fine di agosto dell’anno 1610, proseguì le sue osservazioni. Conobbe meglio Saturno, scoperse le fasi di Venere e di Marte, e nell’aprile dell’anno 1611, desiderato a Roma, vi andò; ed ivi fatti vedere i nuovi spettacoli del cielo, riputato da molto, venne ascritto nella famosissima Accademia de’ Lincei.
Nell’estate del 1611 ritornò in Firenze, e siccome il Galileo, per le sue prime scoperte dai Pisani invidiato e perseguitato, fu costretto di abbandonare la patria, così in processo per lo compasso di proporzione, pe’ monti della Luna, per le macchie del Sole, pe' satelliti di Giove, per le leggi di gravità, venne inviluppato miseramente in molte dispute da’ suoi nemici; ma sempre ottener seppe sopra di coloro vittoria. Nell’apologia però sulle macchie solari, manifestata avendo la sua opinione intorno al moto della terra ed alla immobilità del Sole, questo bastò all’ignoranza ed alla malignità perchè s’avesse pretesto di formalmente perseguitarlo. Il Galileo tuttavia mancar mai non seppe nè alla verità, nè a sè stesso, ed entrò in materia con una lettera, che nel 1616 scrisse alla duchessa Cristina di Lorena. Pochi periodi di quella bastar doveano a chiamar gli uomini al buon senso; ma nulla valsero. Pensò allora di recarsi a Roma, e vi comparve l’uomo religioso, ed anco filosofo. Per due fini vi si recò: l’uno, siccome diss’egli, per atterrare le macchine direttegli contro da tre potentissimi fabbri, ignoranza, invidia ed empietà; l’altro e più importante oggetto era di sostenere la causa di coloro, che erano intimamente persuasi del moto della terra, causa ch’era comune a tutti i saggi uomini, e quindi ottenere libertà di pensare, di ragionare e di scrivere nelle materie puramente filosofiche, e non risguardanti punto la religione. Or avvenne, che alcuni teologi e dentro e fuori di Roma ardirono di chiamar falsa e filosoficamente assurda quell’opinione, ed eretica in ciò che concerne l’immobilità del Sole, e pericolosa teologicamente quanto al moto diurno ed annuo della Terra; per le quali cose il dì 25 febbrajo I616 il cardinale Bellarmino impose al Galileo di non più sostenerla in veruna guisa. Il Galileo rispettosamente bensì, ma siccome conveniva, rispose al signor cardinale, il quale fu sorpreso non per le tante addotte e fondate ragioni, ma per la tanta audacia di un filosofo; quindi acerrimamente riprendendolo, la cosa era divenuta molto seria, e certo andava a finire colla peggio del filosofo Pisano, se il gran duca Cosimo II non lo avesse tantosto levato di là, e fatto entrare in Toscana.
Il Galileo però in seno alla patria, in mezzo a’ suoi studi nella solitudine, vicino all’amicizia viveva giorni tranquilli e beati. Scrisse i suoi Dialoghi sul moto della terra, e furono pubblicati l’anno 1632. Si divulgarono per tutta Europa, e vennero ammirati ed accolti con universale soddisfazione. Ma siccome i trionfi del genio sono quasi sempre gravi delitti agli occhi della mediocrità; così allora piombarono addosso al Galileo tutti i fulmini della malignità, la quale da tutte le circostanze venne favorita.
Morto era Cosimo II, e Ferdinando, suo primo genito e successore, essendo in minor età, fu posto sotto tutela di Maria Maddalena d’Austria sua madre, e di Cristina di Lorena sua ava. Queste devote principesse, alle quali premeva ascrivere un loro cadetto nel numero de’ cardinali colla bella speranza, che un dì esser dovesse il quinto papa della casa de’ Medici, stavano attaccate santamente alla corte di Roma, pur nulla curando che il loro astronomo e primario matematico e filosofo, quell’uomo anzi, che rinnovò nel mondo le stesse matematiche e le vere dottrine filosofiche, cessasse d’insegnare virtù.
Era allora Urbano VIII sommo pontefice. A quest’ottimo e santo papa, il quale letteratissimo uomo era, ma poco o nulla nelle nuove scienze versato, venne fatto credere da’ nemici del Galileo, che nei pubblicati Dialoghi Sua Santità fosse messa in ridicolo, sotto il nome di Simplicio, ciocchè non era; ma bastò tanto, perché il Santo Ufficio chiamasse a Roma il Galileo, il quale vi andò, perché era morto Cosimo II. Pervenuto colà nel febbraio dell’anno 1633, e dell’età sua sessantesimo nono, fu per due mesi sequestrato nella casa dell’ambasciatore di Toscana. A mezzo aprile circa di detto anno fu fatto entrare nelle prigioni dell’Iinquisizione, e nel dì 30 dello stesso mese venne rimandato alla casa dell’ambasciatore, e dopo 5o giorni fu ricondotto all’Inquisizione, dove fu obbligato di abjurare, maledire, detestare il moto della terra, di cui era intimamente persuaso. Furono i suoi Dialoghi proibiti, ed egli condannato indeterminatamente ad una carcere, pena che gli riuscì più grave che nuova, e che poi gli fu cummutata in una continuazione d’arresto, ed in seguito in una semplice relegazione nel palazzo di monsig. Picolomini, arcivescovo di Siena, e nelle sue ville di Bellosguardo e d’Arcetri: grazie, che ottenute furono coi fervidi maneggi del giovane duca di Toscana Ferdinando, e del suo ambasciatore.
Con tranquillità di mente riprese i suoi studi, e si dedicò a dimostrare gran parte delle proposizioni meccaniche sulla resistenza de’ fluidi con altre speculazioni.
Nell’anno 1636 offrì agli Stati Generali delle Provincie Unite d’Olanda il suo mirabile ritrovato per l’uso delle longitudini. Fu dagli Stati accettata ed avuta cara una simile offerta; mandarono in dono al Galileo una preziosa collana d’oro; ma egli pregò gli Stati, che si trattenessero quel dono fino a tanto che l’impresa fosse condotta perfettamente al suo fine; il che egli non ottenne, ma somministrò le prime idee, eccitò i geometri a svilupparle, ed i meccanici a farne l’applicazione; per cui a gloria dell’invenzione e pratica di così bello ed utile ritrovato di graduare le longitudini sarà sempre dell’immortale Galileo, ed a lui pure sarà dovuta la correzione delle carte geografiche di mare, e la descrizione del globo terrestre.
Perduto avea il Galileo nell’anno 1626 l’udito, ed in sul fine del 1637, dopo lungo travaglio per una flussione d’occhi, restò privo della vista. Nè questi soli mali cominciarono ad affliggere il Galileo; imperciocchè fu ancor preso da fortissimi dolori per tutta la persona, e da un insoffribil bruciore nelle palpebre, che gli toglievano ogni sorta di riposo. In questo compassionevole ed infelice stato venivano a lui i suoi più intimi amici, i più illustri personaggi della Toscana, tra i quali il gran duca Leopoldo, e gli somministravano tutti que’ sollievi, che l’umana condizione può avere nell’ultime infermità. Il Viviani, il Torricelli suoi discepoli, fra i primi che si distinsero, tutto operavano onde egli si mantenesse nel suo natural vigore d’animo, e fermezza e tranquillità filosofica. Ma finalmente venne soprappreso da una palpitazione di cuore, e da una febbre, e si fu quella che lenta lenta ne lo condusse a morte il dì 8 Gennajo dell’anno 1641 in età d’anni 78 nella villa d’Arcetri. Il corpo suo fu portato in Firenze per ordine del duca, e fu messo nella sepoltura della nobile famiglia Galilei in Santa Croce.
Da donna greca ebbe un figliuolo e due figlie. Non fu egli ambizioso d’onori: movevasi facilmente all’ira; ma ben tosto placavasi: fu coltivatore della poesia; prediligeva Virgilio, Ovidio, Orazio, Seneca, Petrarca, Ariosto, Tasso ed il Berni. Scrisse egli pure in versi in istile grave e burlesco. Per le sue eminenti virtù venne grandemente onorato, e da’ più illustri letterati consultato intorno a moltissime cose, e da moltissimi principi visitato, ammirato ed avuto in grandissima estimazione. Gli fu innalzata una statua all’ingresso del teatro di fisica in Firenze, della quale un poeta così cantò:
Chi è costui che d’alti pensier pieno
Tanta filosofia porta nel volto?
3È il divin Galileo, che primo infranse
L’idolo antico, e con periglio trasse
Alla nativa libertà le menti.
6Novi occhi pose in fronte a l’uomo; Giove
Cinse di stelle; e, fatta accusa al Sole
Di corrutibil tempra, il locò poi,
9Alto compenso, sopra immobil trono.
I N V E R O N A
DALLA SOCIETA' TIPOGRAFICA
1819.