Viaggio sentimentale di Yorick (Laterza, 1920)/XLVI-XLVII-XLVIII-XLIX. Il passaporto
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Traduzione dall'inglese di Ugo Foscolo (1813)
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XLVI
IL PASSAPORTO
VERSAILLES
Non trovai difficile l’adito a monsieur le comte de B***. Aveva su lo scrittoio l’edizione di Shakespeare, e l’andava scartabellando. Nel farmi innanzi, mandai l’occhio a que’ libri, perch’egli scorgesse che non m’erano incogniti, e dissi ch’io mi presentava senza introduttore, sapendo che avrei trovato in quell’appartamento un amico, e confidando ch’egli m’avrebbe introdotto. — Eccolo — e additai l’ediziore, — il mio concittadino, il grande Guglielmo Shakespeare; et ayez la bonté — continuai invocando l’ombra sua — mon cher ami, de me faíre cet honneur là! —
Sorrise il conte a sí bizzarro cerimoniale; e, vedendo ch’io aveva del pallido e dell’infermiccio, m’indusse a pigliarmi una sedia d’appoggio; e mi v’adagiai: e affinché le congetture su la mia visita irregolare non gl’imbrogliassero il capo, gli ridissi schiettissimamente i discorsi col libraio, che mi diedero animo a ricorrere a monsieur le comte, anziché ad altr’uomo in Francia, per esporgli certo affaruccio che m’inquetava.
— E che è mai? disse il conte — me lo faccia sapere. —
Gli narrai dunque né piú né meno tutto quello che il lettore già sa. — E il mio albergatore — continuai — s’ostina, monsieur le comte, ch’io sarò alloggiato nella Bastille. Non già ch’io ne tema; perché, nell’abbandonarmi nelle braccia del meglio educato tra i popoli, io ero conscio della mia lealtà, e ch’io non veniva a spiare la nudità della terra1; e non m’è quasi venuto in mente ch’io mi trovava senza difesa; né si condice al valore francese, monsieur le comte, d’esercitarsi contro gl’invalidi. —
A queste parole le guance del conte s’animavano di rossore. — Ne craignez rien, la non tema, — m’andava egli dicendo.
— No certamente — risposi; e poi, soggiunsi scherzando: — Son corso da Londra a Parigi ridendo sempre; né stimo monsieur le duc de Choiseul per sí nemico dell’ilarità, ch’ei voglia ch’io per mio premio rifaccia la strada piangendo. Anzi, affinché non gliene venga la voglia, ricorro a lei, monsieur le comte; — e me gl’inchinai ossequiosamente.
Se il conte non m’ascoltava con quella amorevolezza, e soltanto m’interrompeva: — C’est bien dit, c’est bien dit, — io senz’altro rimanevami a mezzo. Parvemi che la perorazione bastasse; e mi proposi di non ne dir altro.
Il conte avviava il discorso: si chiacchierò del piú e del meno: di libri, di politica, d’uomini: finalmente di donne. — Dio le benedica! — diss’io, poiché se n’ebbe alquanto parlato — Dio le benedica tutte quante! la madre Eva non ha per certo verun nipote che mi pareggi in amarle: per quanti peccatucci io vada in esse scorgendo, per quante satire io ne legga, tanto e tanto io le amo; anzi ho per fermo che l’uomo, il quale non abbia una specie di dilezione per tutte, non sia capace d’amarne debitamente una sola.
— Eh bien! monsieur l’anglaís — mi diss’egli festevolmente, — Ella non viene a spiare la nudità della nostra terra, e gliel credo; né encore, direi forse, la nudità delle nostre donne; ma la mi passi una congettura: se, par hasard, le cadesse per la via sotto gli occhi si fatta vista, non le rincrescerebbe, credo. —
Ho in me non so che, che ripugna ad ogni minima insinuazione immodesta: e spesso nella piacevolezza della chiacchiera mi sono provato di vincermi; ma, sebbene dopo incredibili sforzi io abbia in un crocchio di dodici donne lasciato correre un centinaio di barzellette, non avrei ad ogni modo potuto avventurarne una sola, nemmeno la piú innocente, con una donna a quattr’occhi, quand’anche dovesse aprirmisi il paradiso.
— La mi perdoni, monsieur le comte — gli diss’io. — Quanto alla nudità della terra, se gli occhi miei la vedessero, si poserebbero lagrimosi sovr’essa; ma quanto alla nudità delle donne — e la fantasia mi fe’ tosto arrossire — io sono tanto evangelico, e la carità del prossimo mi muove per tutto quello ch’esse hanno di debole, ch’io la coprirei d’un drappo, se trovassi modo a gittarlelo addosso2. Bramo bensí di spiare la nudità de’ loro cuori, e a traverso i vari travisamenti de’ costumi, de’ climi e delle religioni, discernere ciò che hanno di meglio, per modellarvi anche il mio: ed eccole perché venni. Non ho dunque, monsieur le comte, visitato il Palais-royal, non il Luxembourg, non la façade du Louvre; non ho ambito d’impinguare i cataloghi che abbiamo di quadri, di statue e di chiese: nel mio pensiero ogni bella persona è un bel tempio, dov’io son vago d’innoltrarmi a fine di ammirare le immagini originali e gli schizzi abbozzati che vi si appendono, piuttosto che la stessa Trasfigurazione, di Raffaello 3. Questa sete che m’arde impaziente, pari a quella di tutti gli appassionati delle arti, mi trasse fuori del mio tetto; e di Francia mi trarrà per l’Italia. Viaggio riposatissimo è questo mio; viaggio del cuore in traccia della natura e di que’ sentimenti che da lei sola germogliano, e che ci avvezzano ad amarci scambievolmente; e ad amare una volta un po’ meglio tutti gli altri mortali. —
A questo il conte rispondevano cortesissimo; e con molta gentilezza si professava obbligato a Shakespeare della mia conoscenza. — Ma, à propos — soggiuns’egli: — Shakespeare è sí pieno d’alti pensieri, che s’è dimenticato della lieve formalità di nominare il signore, e lasciò quest’obbligo a lei. —
t1 XLVII
IL PASSAPORTO
VERSAILLES
Ma io non sono mai sí perplesso, come quando ho da dire a taluno ch’io mi sia, e vi sono pochi de’ quali io non possa dar conto migliore assai che di me; e perciò sovente ho desiderato che mi bastasse una parola sola e sbrigarmene; il che non m’incontrò mai fuorché in questa occasione: però che l’edizione di Shakespeare su lo scrittoio mi fe’ sovvenire che vi si parlava di me: mi pigliai l’Amleto, e svolgendolo in un batter d’occhio verso la scena de’ beccamorti nell’atto quinto, stesi il mio dito sopra di «Yorick»4, e, ponendo sotto gli occhi del conte il vo lume, col dito tuttavia su quel nome, gli dissi: «Me voici».
Or l’idea del cranio del povero Yorick fu ella cancellata nella memoria del conte dall’attuale presenza del mio? o per quale incantesimo traversò egli d’un salto lo spazio di sette in ottocent’anni? Ma qui non si tratta di ciò: certo è che i francesi concepiscono meglio di quel che combinino; e oramai non mi confondo di cosa veruna di questo mondo; tanto piú che uno de’ primati della nostra chiesa (personaggio ch’io, pel suo candore e per le paterne sue viscere, venero sommamente) pigliò per l’appunto il medesimo granchio.
— Non posso — diceva egli, — non posso indurmi a posare gli occhi sovra le omelie5 scritte dal buffone del re de’ danesi.
— Sta bene — rispondeva io; — ma, monsignore, i Yorick sono due. L’uno, di cui parla Vostra Eccellenza, è morto già da otto secoli e seppellito; e fioriva nella corte di Ordenvillo; l’altro Yorick mi son io, che non fiorisco, monsignore, in corte veruna. —
Il prelato crollava il capo.
— Dio buono! — diceva io — a questo modo Ella, monsignore, scambierebbe Alessandro il grande per Alessandro calderaio6.
— Tant’è — tornava a dire il prelato.
— Se Alessandro re de’ macedoni — soggiuns’io — potesse trasferir monsignore a miglior vescovado, sono sicuro che monsignore non direbbe cosí. —
Il povero conte de B*** non cadde se non nel medesimo errore.
— Et monsieur est-i! Yorick? — gridò il conte.
— Je le suis.
— Vous?
— Moi, moi qui ai l’honneur de vous parler, monsieur le comte.
— Mon Dieu! — diss’egli abbracciandomi: — vous étes Yorick! —
E si calcò frettoloso in saccoccia quel volume di Shakespeare, e mi lasciò solo nelle sue stanze.
t1 XLVIII
IL PASSAPORTO
VERSAILLES
Perché mai se n’andasse cosí a precipizio, e perché Shakespeare entrasse nella tasca del conte, erano nodi ch’io non poteva mai sciogliere. Le congetture ed il tempo sono spesi assai male quando i misteri si riveleranno da sé; e tornava meglio a leggere Shakespeare. Mi pigliai la commedia che ha il titolo Gran trambusto per nulla; e mi sono dalla mia seggiola trovato in un batter d’occhio in Sicilia, e in tante faccende con don Pedro, Benedetto e Beatrice, che Versailles, il conte ed il passaporto non erano piú cose mie.
Soave arrendevolezza dello spirito umano, che può in un attimo secondar le illusioni le quali furano i piú affannosi momenti alla tristezza ed all’ansietà! Omai, omai da gran tempo gli anni miei non si numererebbero piú, s’io non n’avessi trascorsa una parte nell’asilo di quelle terre incantate. Quando la strada m’è troppo aspra alle piante, e troppo scoscesa per la mia lena, io mi devio in un viale di mollissima erbetta, sul quale sparpaglio le rose mattutine della voluttà, e dopo uno o due giri ritornomi rinfrescato, e m’accingo piú gaio e piú vigoroso al mio viaggio. Quando il male m’incalza vittorioso, ch’io non ho piú terra dove ritrarmi, gitto l’armi, abbandono questo mondo; e poiché gli Elisi mi s’aprono al pensiero piú manifestamente del paradiso, io vi penetro a forza siccome Enea, e lo vedo andar verso l’ombra della sua abbandonata Didone, e sospirar di placarla; e vedo l’ombra sommovere il capo, e fuggire con disdegnoso silenzio colui che le straziò il cuore e la fama: il mio dolore si smarrisce nel suo ed in tutti quegli affetti, che solevano impietosirmi per la misera innamorata regina sino dal tempo ch’io stava a scuola.
Veramente non si cammina per l’ombra vana; né l’uomo si travaglia indarno cosí 7. Ma ben gli è indarno, e sovente, per chi si confida che le sue perturbazioni possano essere calmate dalla sola ragione. Or io, per me, posso bravamente asserire che l’anima mia non è sicura di sconfiggere neppure la minima delle triste emozioni che le muovono guerra, se non suono tosto a raccolta, chiamando alcune emozioni grate e soavi per assalire e cacciare fuor del suo campo la prima.
Com’io finiva il terz’atto, monsieur le comte ritornò col mio passaporto in mano, dicendomi: — Posso dirle che monsieur le due de Choiseu è buon profeta siccome è uomo di Stato. — Un honime qui rit — disse il duca — ne sera jamais dangereux; — e mi sarebbe stato negato anche un passaporto d’un paio d’ore, s’io l’avessi chiesto per altri che pel buffone del re.
— Pardonnez-moi, monsieur le comte — gli diss’io, — non sono il buffone del re,
— Ma Ella è Yorick?
— Io.
— Et vous plaisan tez? —
Risposi ch’io di fatto celiava, ma senza onorario; anzi in tutto e per tutto a mie spese 8. — La corte nostra non ha piú buffone, monsieur le comte; e l’ultimo fu veduto sotto il regno dissoluto di Carlo secondo. Da indi in qua i nostri costumi si sono di mano in mano sí ripoliti, il trono è attorniato di tanti patriotti, che non aspirano a nulla fuorché agli onori e alla ricchezza della patria; e le nostre gentildonne sono sí pudiche, sí immaculate, sí buone, sí pie, che un beffardo non troverebbe piú da cavarne una beffa9.
— Voilà du persíflage! — gridò il conte.
XLIX
IL PASSAPORTO
VERSAILLES
Siccome il passaporto ingiugneva a tutti i luogotenenti-governatori, governatori e comandanti di città, generali di eserciti, giustizieri e ufficiali di giustizia, che lasciassero Mister Yorick buffone del re, e il suo bagaglio liberamente viaggiare, confesserò che la conquista del passaporto fu non poco macchiata dal personaggio ch’io recitava; ma in questo mondo non v’è cosa che sia tutta pura: sentenza da taluni de’ gravissimi teologi nostri universalmente applicata, sino ad affermare che il sospiro accompagna la voluttà10; anzi che l’estrema delle voluttà ch’ei conoscano finisce per lo piú con una convulsione, o poco meglio.
Ricordomi che il grave e dottissimo Bevorischio11, ne’ suoi Commentari su le generazioni da Adamo in poi, s’interrompe naturalissimamente a mezzo la nota, per dar notizia a’ lettori come un coppia di passeri posatasi sull’imposta esteriore delle sue finestre l’aveva frastornato per tutta quell’ora ch’ei si stava scrivendo: e tanto, che gli fe’ perdere il filo della sua genealogia.
«Poffare! — scrive Bevorischio — eppur non v’è dubbio: perch’io ebbi la curiosità di contare le volte, notandole una per una con la mia penna; ed il passero, nella breve ora che m’avrebbe bastato a finir l’altra metà di questa mia nota, mi frastornò visibilmente, reiterando le sue carezze alla passera per ventitré volte e mezzo. Bontà divina! — scrive Bevorischio — sei pur benefica verso le tue creature!».
Ma e tu, disgraziatissimo Yorick! e’ li tocca a vedere il piú grave de’ tuoi fratelli che scrive e stampa tal cosa, che tu non puoi ricopiare nel tuo studiolo, e che il rossore non t’offuschi la vista! e ne chiedo perdono.
Ma, e questo che importa egli a’ miei viaggi? Dunque due volte, due volte perdono.
Note
- ↑ Locuzione frequente dove i libri sacri parlano dell’imminente pericolo d’una città guerreggiata: «Vae, civitas!... Osendam gentibus nuditatem tuam.» Nahum, cap. ii. E Yorick nelle contingenze di quella guerra poteva essere tenuto per esploratore [F.].
- ↑ «Et eras nuda, et transivi per te, et vidi te: et ecce tempu, tuum, tempus amantium; et expandi amictum meum super te». Ezech., cap. xvi, 8 [F.].
- ↑ Yorick forse profittò di quel detto divino, come tutti gli altri detti di Socrate: «L’osservare la virtú di una donna vivente m’è piú giocondo d’assai dell’immagine d’una bellissima donna a me presentata da Zeusi. Presso Senofonte, Econ., cap. x, n. 1 [F.].
- ↑ Yorick non è interlocutore nella tragedia; bensí i beccamorti, scavando una fossa, ravvisano il cranio di lui; e il principe Amleto piange sovr’esso, poiché l’aveva veduto in vita piú volte a rallegrare con le sue celie i conviti del re. Per bizzarria d’accidente, «stern» in inglese suona «tristamente severo». L’autore lo cambiò in Yorick e per la prima volta nel Tristram Shandy, dove dipinge il proprio carattere (vol. i). Gli scrittori della sua vita dicono ch’egli si compiacesse del nome di un buffone in odio dell’ipocrisia, la quale egli credeva sempre velata dalla serietà, dalla gravità, dalla severità e dall’altre inumane virtú. Né io dissento da questa opinione. Ma, a parer mio, piú vera ragione si è che l’antico Yorick, come è descritto da Shakespeare, muove insieme al riso e alle lagrime; e cosí appunto il nostro autore in ogni sua pagina; anzi, mentre professa il ridicolo, riesce assai piú nel patetico. Vedi il proemio alla mia traduzione [F.].
- ↑ Stampò col nome di Yorick le omelie ch’egli aveva già predicate nella sua parrocchia; e sono tenute l’opera sua migliore. Egli stesso, mandando tutti i suoi libri ad Elisa, scrive: «Gli altri scritti mi uscirono dal cervello: vi siano care soltanto le omelie, le quali mi sgorgarono calde tutte dal cuore». Yorick’s letters to Elisa, i [F.].
- ↑ E san Paolo si doleva pur molto di questo calderaio. «Alexander aerarius multa mala mihi ostendit: reddet illi Dominus secundum opera ejus». - Epist. ad Timoth., ii, cap. iv, 14. «Alexander, quem tradidi Satanae, ut discat non blasphemare». Epist. ad Timoth., i, cap. iv, 14.
- ↑ «Veruntamen in imagine pertransit homo, sed et frustra conturbatur.» - Psal., xxxviii, 7. - Ma Yorick cita la volgata inglese che ha: «Surely every man walketh in a vain shadow; surely they are disquieted in vain». (F.)
- ↑ Il Boccaccio, giornata I, novella 8, delinea da maestro il ritratto del buffone gentiluomo, arguto e liberale, e il ritratto del buffone codardo, maligno ed adulatore. Ma del primo s’era quasi spenta la razza anche a quel secolo; e del secondo s’è fecondata, specialmente dopo l’invenzione de’ giornali [F.].
- ↑ All’età di Beniamino Johnson, contemporaneo di Shakespeare, i patrizi inglesi si dilettavano di pascere, oltre il buffone, anche il nano e l’eunuco:
Cali forth my dwarf, my eunuch and my fool.
Ben. Johnson, nella commedia del Volpone.
Ma i patrizi italiani si sono sempre contentati di un poeta miserello, che sovente supplisce anche da segretario, da maestro e da cappellano [F.].
- ↑
... Medio de fonte leporum
Surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat.
Lucr., lib. iv, 1127. (F.) - ↑ Intende per avventura di certo Bevor, prelato nella provincia di York, dove il nostro autore amministrò per vent’anni le chiese di Sutton e di Stillington. Vero è che qui Yorick punge il teologo a lotto; e la pia conseguenza della bontà del cielo verso le sue creature fu altre volte dal medesimo fatto desunta da molti padri della Chiesa. Anzi san Francesco raccoglieva le tortorelle: — «O sirocchie mie tortore — diceva il santo patriarca — io voglio farvi nidii, acciocché voi facciate frutto, e che voi moltiplichiate, secondo lo comandamento del nostro Creatore». — Andò santo Francesco e fece lo nidio a tutte: e elle, usando, cominciarono a far uova e figliuoli, e stavano domesticamente con santo Francesco e con gli altri frati.» Fioretti di san Francesco, cap. xxi. Nota desunta dal Liber memorialis, i, 28 [F.].