Viaggio sentimentale di Yorick (1813)/XLI
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Traduzione dall'inglese di Ugo Foscolo (1813)
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XLI. | IL CARCERATO |
parigi
L’uccello in gabbia mi perseguitava nella mia camera: m’assisi presso al tavolino; e sostenendomi il capo con una mano, mi posi a rappresentarmi le miserie della prigione. L’anima contristata lasciò libero campo alla fantasia.
E principiai da tanti milioni di creature tutte mio prossimo, e tutte nate con l’unico patrimonio della schiavitù. Ma per quanto il quadro fosse compassionevole, m’avvidi ch’io non poteva ravvicinarmelo, e che sarei sopraffatto e distratto dalla folla di que’ tristissimi gruppi.
— Mi tolsi un prigione solo; e serrato ch’io l’ebbi dentro il suo carcere, m’apparecchiai a farne il ritratto, osservandolo dal pertugio della sua porta inferrata.
Vidi il suo corpo macerato dall’aspettar lungo e dalla prigionia; ed io sentii quella malattia di cuore che nasce dalla speranza protratta. E accostandomi con la pupilla più attenta, lo vidi macilente e febbricitante — da più dì trent’anni l’aura occidentale non rinfrescò mai le sue vene — non aveva veduto nè sole nè luna da più di trent’anni — non voce d’amico non di congiunto risuonò mai fra quelle ferriate — i suoi figli —
— Qui il mio cuore grondò sangue — e ritrassi gli occhi gemendo all’altra parte del quadro.
Sedeva per terra nel fondo della sua carcere sopra un fascio di paglia che gli era or letto ed or sedia: a capo al letto giacerà un piccolo calendario di stecchi intagliati tutti degli amari giorni e delle amare notti perdute nella solitudine delle catene — e aveva tra le mani uno stecco, e con un chiodo ruggine v’intagliava un altro giorno di lagrime da aggiungervi al cumulo. Io gli ombrava quel po’ di barlume che gli giungeva, ond’ei girò l’occhio nudo di speranza alla porta; poi l’abbassò; crollò il capo, e continuò il suo lavoro d’afflizione. Si voltò col corpo a riporre nella serie il suo stecco, ed io udii stridergli le catene tra’ piedi — sospirò dalle viscere — vidi il ferro piantarglisi nell’anima — le lagrime m’innondavano gli occhi — nè io poteva più omai sostenere l’immagine del carcerato dipinta dalla mia fantasia — Mi scossi dalla sedia; chiamai La Fleur. Fammi allestire una remise1, gli diss’io; e ch’io l’abbia alla porta dell’hôtel per le nove di domattina.
— Me ne andrò a dirittura a monsieur le duc de Choiseul.
La Fleur voleva mettermi a letto; io non voleva che quell’onesto ragazzo guardandomi più da vicino si procacciasse un crepacuore — gli dissi che mi sarei coricato da me — e lo mandai a dormire.