Rime (Guittone d'Arezzo)/Vergogna ho, lasso, ed ho me stesso ad ira
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Ora parrà s'eo saverò cantare | Ahi, quant'ho che vergogni e che doglia aggio | ► |
XXVI
Si conforta nell’amore di Dio, pensando con sempre maggior disgusto
al tempo trascorso nell’errore.
Vergogna ho, lasso, ed ho me stesso ad ira;
e doveria via piú, reconoscendo
co male usai la fior del tempo mio.
Perché no lo meo cor sempre sospira,
5e gli occhi perché mai finan piangendo,
e la bocca di dir: merzede, Dio,
poi franchezza di core e vertú d’alma
tutta sommisi, ohimè lasso, al servaggio
de’ vizi miei, non Dio, né bon usaggio,
10né diritto guardando in lor seguire,
non mutando desire?
S’eo resurgesse, com fenice face,
giá fora a la fornace
lo putrefatto meo vil corpo ardendo;
15ma, poi non posso, attendo
che lo pietoso padre me sovegna
di tal guisa, ch’eo vegna
purificato e mondo di carne e alma.
Ohi, lasso! Giá vegg’io genere omano,
20che segnoril naturalmente è tanto,
che ’l minor om talenta emperiare;
e ciò, piú ch’altro, i piace, e piú li è strano
d’aver segnor; ché Dio volontier manto
non vole giá ciascun, sí come pare.
25Come poi donque lo minore e ’l maggio
sommette a vizio corpo ed alma e core?
Ed è servaggio alcun, lasso, peggiore,
od è mai segnoria perfetta alcona,
che sua propia persona
30tenere l’omo ben sotto ragione?
Ahi, che somm’è ’l campione
che lá, ov’onne segnor perde, è vincente,
né poi d’altro è perdente;
ché, loco u’ la vertú de l’alma empera,
35non è nocente spera,
né tema, né dolor, ned allegraggio.
O morti fatti noi de nostra vita,
o stolti de vil nostro savere,
o poveri de riccor, bassi d’altezza;
40com’è vertá da noi tanto fallita,
ch’ogne cosa di vizio è noi piacere
ed ogne cosa de vertú gravezza?
Giá filosofi, Dio non conoscendo,
né poi morte sperando guiderdone,
45ischifar vizi aver tutta stagione,
seguendo sí vertú, ch’onesta vita
fu lor gaudio e lor vita.
Noi con donque può cosa altra abellire,
che ’n vertú lui seguire,
50lo qual chi ’l segue ben perde temore?
Ché non teme segnore,
morte, né povertá, danno, né pene,
ch’ogni cosa gli è bene,
sí come noi è mal, non lui seguendo.
55Pugnam donque a valer forzosamente;
no ’l ben schifiam perché noi sembri grave;
ch’orrato acquisto non fue senza affanno;
e se l’om pene per vertute sente,
ne’ vizi usar sempr’è dolze e soave,
60che spesso rede doglia onta e danno.
Ma ciò ch’è ’n noi contra talento e uso
n’è grave, e n’è legger ciò ch’è con esso,
ch’uso e voler, ch’avemo nel mal messo,
ne ’l fa piacere, e despiacer lo bene.
65Adonqua ne convene
acconciare a ben voglia ed usanza,
se volem benenanza;
ché non è ben, se da ben non è nato,
e onne gioi di peccato
70è mesta con dolore, e fina male;
ed onne cosa vale
dal fine suo, che n’è donque amoroso.
Come a lavorator la zappa è data,
è dato el mondo noi: non per gaudere,
75ma per esso eternal vita acquistare;
e no l’alma al corpo è giá creata,
ma ’l corpo a l’alma, e l’alma a Deo piacere,
perché Lui, piú che noi, devemo amare.
Emprima che noi stessi, amò noi esso;
80e, se ne desamammo e demmo altrui,
di se medesmo raccattonne poi.
Ahi, perché, lasso!, avem l’alma sí a vile?
Giá l’ebb’ei sí a gentile,
che prese, per trar lei d’eternal morte,
85umanitate e morte.
Abbialla donque cara, ed esso amiamo,
ove tutto troviamo
ciò che può nostro cor desiderare;
né mai altro pagare
90ne può giá, che lo ben ch’ha noi promesso.
O sommo ben, da cui ben tutto è nato,
o luce, per qual vede ogne visaggio,
o sapienza, unde sa ciascun saggio!
neiente feci me, tu me recrii;
95desviai, tu me renvii;
ed orbai me, tu m’hai lume renduto!
Ciò non m’ha conceduto
mio merto, ma la tua gran bonitate.
O somma maestate,
100quanto laudare, amar, servir deo tee
demostra ognora a mee,
e fa ch’a ciò lutto meo cor sia dato!
A messer Cavalcante e a messer Lapo
va, mia canzone, e dí lor ch’audit’aggio
105che ’l sommo ed inorato segnoraggio
pugnan di conquistar, tornando a vita;
e, se tu sai, li aita,
e dí che ’l comenzar ben cher tuttore
mezzo e fine megliore,
110e prende onta l’alma e ’l corpo tornare
a mal ben comenzare:
e dí ch’afermin lor cori a volere
seguire ogne piacere
di quelli, che per tutto è nostro capo.