Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XXXV

Lettera XXXV

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LETTERA XXXV

10 maggio.

Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu hai dunque ritirato il tuo spirito, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicitá! Tu ascolti i gemiti che partono dalie viscere dell’anima, e mandi la morte per isciogliere dalle catene della vita le tue creature perseguitate ed afflitte. Mia cara amica! Che il tuo sepolcro beva almeno le lagrime ch’io ti offro! Le zolle, che ti nascondono, siano coperte di poca erba! Tu, vivendo, speravi da me qualche conforto: eppure non ho potuto nemmeno renderti gli ultimi uffici! Ma... ci rivedremo..., sì!

Quand’io, caro Lorenzo, mi ricordava di quella povera fanciulla, certi presentimenti mi gridavano dal cuore profondo: — Ella è morta! — Pure, se tu non me lo avessi scritto, io certo non lo avrei saputo mai: perché... e chi si cura della virtú, quand’ella è avvolta nella povertá? Spesso mi sono posto a scriverle...: m’è caduta la penna, e ho bagnato la carta di lagrime: temeva ch’ella mi raccontasse le sue sciagure e mi destasse nel cuore una corda la di cui vibrazione non sarebbe cessata sì tosto. Purtroppo! noi sfuggiamo d’intendere i mali de’ nostri amici, le loro miserie ci sono gravi, e il nostro orgoglio sdegna di porgere il conforto delle parole (sì caro agli infelici!), quando non si può unire un soccorso vero e reale. Ma... fors’ella mi annoverava fra la schiera di coloro che, ubbriacati dalla [p. 124 modifica] felicitá, abbandonano gli sventurati. Lo sa il cielo!... Frattanto Dio ha conosciuto ch’ella non poteva reggere piú. «Egli tempera i venti in favore dell’agnello recentemente tosato», e... tosato al vivo!

Tornerò, Lorenzo: conviene ch’io esca. Il mio cuore si angustia e geme, come se non volesse starmi piú in petto: sulla vetta di un monte mi sembra d’esserne un poco piú libero; ma qui..., nella mia stanza..., sto quasi sotterrato in un sepolcro.

Sono salito sulla piú alta cima della montagna. I venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava: su le rupi dell’erta sedeano le nuvole... Nella terribile maestá della natura la mia anima attonita e spaventata ha dimenticato i suoi mali, ed è tornata per alcun poco in pace con se medesima.

Vorrei dirti, mio caro amico, gran cose: mi passano per la mente, vi sto pensando, m’ingombrano il cuore, s’affollano, si confondono, non so piú da quale io mi debba incominciare: poi tutto ad un tratto mi sfuggono, ed io prorompo in un pianto dirotto.

Vado errando come un ragazzo, senza saper dove e perché: non m’accorgo, e i miei piedi mi strascinano fra i precipizi. Io domino le valli e le campagne soggette: magnifica ed inesausta natura! I miei sguardi e i miei pensieri si perdono nel lontano orizzonte. Vo salendo, e... sto... li... ritto..., anelante; Guardo all’ingiú: quale voragine! Alzo gli occhi inorridito e scendo passo passo appiè del colle, dove la valle è piú fosca. Un boschetto di giovani querce mi protegge dai venti e dal sole: due rivi d’acqua mormorano qua e lá sommessamente; i rami bisbigliano, e un rossignuolo... Ho sgridato un pastore, che era venuto per rapire dal nido i suoi figli: il pianto, la desolazione, la morte di que’ deboli innocenti dovevano essere forse venduti per una meschina moneta di rame: così va! Ma io l’ho compensato del guadagno che sperava di trarne, ed egli mi ha promesso di non disturbare piú i rossignuoli. E lá... [p. 125 modifica] io mi riposo. Dove se’ ito, o buon tempo di prima? La mia ragione è malata e non può fidarsi che nel sopore, perché... guai se sentisse tutta la sua infermitá! Quasi quasi..., povera Lauretta! tu forse mi chiami...

Tutto!... tutto quello ch’esiste per gli uomini non è che la lor fantasia. Caro amico! fra le rupi la morte mi era spavento, e all’ombra di quel boschetto io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno. Vestiamo la realtá a nostro modo; i nostri desidèri si vanno moltiplicando con le nostre idee, sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoia, e le nostre passioni non sono, in fine del conto, che gli effetti delle nostre illusioni. Quanto mi sta d’intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. Quante volte io scorreva teco queste campagne, aggrappandomi or a questo or a quell’arbuscello di frutta, immemore del passato, non curando che del presente, occupandomi sopra cose che la mia immaginazione ingrandiva e che dopo un’ora non esistevano piú, e riponendo tutte le mie speranze ne’ giuochi della prossima festa! Ma quel sogno è svanito! e chi m’assicura che in questo momento io non sogni? Ben tu, Padre della natura, tu che creasti il mio cuore, sai che sonno spaventevole è questo ch’io dormo; sai che non altro m’avanza fuorché il pianto e la morte.

Così vaneggio! Cangio voti e pensieri, e quanto la natura è piú bella tanto piú vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi il cielo m’abbia esaudito. Nel verno passato io era felice; quando la natura dormiva mortalmente, la mia anima era tranquilla!... Ed ora?

Eppur traggo conforto della speranza di essere compianto. Su l’aurora della vita non vedrò forse il meriggio; ma la mia sepoltura sará bagnata dalle tue lagrime..., dalle lagrime di quella donna celeste. E chi mai cede a un’eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l’ultima volta i raggi del sole, chi salutò la natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori, senza lasciar dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care, che ci sopravivono, sono parte di noi. [p. 126 modifica] I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto dalle bracce amorose di chi sta per raccogliere l’ultimo nostro sospiro. Geme la natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscuritá della morte.

M’affaccio al balcone, ora che la divina luce del sole si va spegnendo e le tenebre rapiscono all’universo que’ raggi languidi che rosseggiano su l’orizzonte, e nell’opacitá del mondo malinconico e taciturno contemplo l’immagine della distruzione divoratrice di quanto esiste. Poi giro lo sguardo sulle macchie de’ giovani pini, piantati dal mio buon padre in mezzo a quel monticello di sabbia presso la porta della parocchia, e travedo biancheggiare, fra mezzo le frondi agitate da’ venti, la pietra della mia fossa. Quivi ti veggo venir con mia madre e pregar pace all’ombra dell’infelice figliuolo. Allora dico a me stesso: — Forse Teresa verrá solitaria sull’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dire alle mie ceneri un altro addio. No! la morte non è dolorosa. — Che se il solitario giovane innamorato chiederá la mia storia, forse l’agricoltore piú vecchio, seduto, sull’imbrunir della sera, al limitar della chiesa, risponderá que’ versi di Gray:

               Spesso fu visto frettoloso all’erbe
          scuoter col piè le rugiadose stille,
          poggiando al monte a salutar l’aurora.
          Sotto quel gelso, che gran ciel co’ densi
          rami prendea, sul fervido meriggio
          sdraiar soleasi trascuratamente,
          e muto muto contemplar le fresche
          onde inquiete del limpido lago.
          Quando la notte addormentava il mondo,
          mesto su quella rupe erma sedea,
          intento al cupo fremere dell’acque
          o al mormorar de’ venti. Or lo vedresti
          presso l’ombre del bosco, disdegnoso
          sorridendo aggirarsi, or borbottando
          quasi per doglia trasognato, o vinto
          da cruda sorte, o disperato amante.

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          Spuntò il mattino; e su l’usato balzo,
          e del lago alle sponde, e appiè del gelso
          piú non apparve: altro mattin succede;
          e il colle invano, e invan l’aspetta il bosco:
          al terzo di portar lento si vide
          con tetra pompa per le strade al tempio.
               A fama ignoto ed a fortuna, eterno
          sonno sotterra il giovinetto dorme.