Una notte di Dante/Canto primo
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Canto Primo
Su pel selvaggio dorso d’Apennino,
In quella parte ove di sè fa schermo
Dal torbid’Austro al glorïoso Urbino,
Chi tre miglia affatichi il piè mal fermo
5Vede al fin, sotto a bianco scoglio alpestre,
Le vecchie mura nereggiar d’un ermo.
Anime belle e di virtù maestre
Giunte in vincol di legge e di concordia,
Se furor scellerato armi le destre
10E spiri al mondo l’infernal Discordia,
Lassù co’ preghi, col digiun, col pianto
Chiama dal regno suo misericordia.
Già dal remoto monistero santo,
Che nome tien dell’Avellana fonte
15Alto suonava e non bugiardo il vanto
Fra le italiche genti, che sì pronte
Torcean le maledette armi in lor danno;
Quando solingo testimon fu ’l monte
Di ciò che le mie rime oggi diranno.
20Dopo mille e trecento dal fecondo
Virgineo grembo, il diciottesim’anno,
Era del quinto mese il dì secondo,
L’ora appressava del silenzio amica,
E il vespertino zefiro giocondo
25Movea le chiome della selva antica,
Quand’uom di dolce maestate adorno,
Cui visibil pensier grave affatica,
Parve in sull’uscio di quel pio soggiorno:
Il volto sollevò pallido e scarno,
30E lentamente girò gli occhi intorno.
S’affise là dove sue fonti ha l’Arno,
Qual chi mesto saluti di lontano
Cosa gran tempo lacrimata indarno.
Poi, sospirando, pel sentier montano,
35Fra’ colorati dal cadente Sole
Lugubri abeti, s’avviò pian piano.
Non era lungi ancor quanto trar suole
Rustica fionda, che rattenne i passi
E disse in chiaro suon queste parole:
40«Tra due liti d’Italia surgon sassi...1 »
Indi, tenendo le pupille intente
Al Catria, sommo di quegli ardui massi,
Alquanto seguitò sommessamente:
Ma di fuor manifesto trasparia
45L’imaginar della spirata mente
E riprendendo la silvestre via,
Ecco un bianco eremita d’anni grave
Che passo passo incontro gli venia.
Come pura, o Signor, come soave,
50Disse il monaco, è l’aere, e mite il vento!
Così quest’ermo a te faccian men grave
Le placid’aure che tornar già sento.
E lo stranier a lui: Frate, che giova
Di fuor la pace, se la guerra è drento?
55La benigna stagion ch’or si rinnova
Vestì sedici volte il bel colore
Dal dì ch’io fui sommesso a dura prova,
Nè ancor tregua ebbi mai di mio dolore.
Con la dolcezza del natal terreno
60Ogni dolce è rapito a gentil core.
Tralusse, a questo dir, come baleno,
Nella faccia del monaco un disio,
Ma non fe’ motto e chinò gli occhi al seno.
L’altro, che lesse in quel sembiante, O pio,
65Disse, rettor del consecrato ospizio
Che ignoto peregrin, qual mi son io,
Pronto accogliesti, il tuo cortese uffizio
Vuol ch’io di me, de’ miei crudi pensieri
Meglio ti porga che sì lieve indizio.
70Qual chi l’animo intende volentieri,
S’atteggiò l’eremita; e quel soggiunse:
Tu dei saper ch’io son Dante Alighieri.
Tutto visibilmente si compunse
Il sacro veglio d’alta riverenza
75Dinanzi a lui che proseguia: Se giunse
Alcuna di mio nome conoscenza
Per ventura quassù, credo saprete
Che a me fu madre e me cacciò Fiorenza.
Fiorenza no, ma le superbe e liete
80Della miseria mia belve bramose,
Le quai per arti perfide, secrete,
E scaltri accorgimenti e vie nascose,
Sotto lo strazio delle sanne loro
Trasser quell’egre a cui le membra han rose.
85Genti che l’ombra de’ rei gigli d’oro
Vasta ricopre, e a cui soccorso è fido
L’avara 2 che di Cristo fa tesoro.
Quelle m’han chiuso il mio diletto nido,
Perchè a svelar l’insidïosa guerra
90Levai primiero arditamente il grido.
Di stagione in stagion, di terra in terra,
Me, me, senza conforto altro che l’arte
Ond’io pur tutto non andrò sotterra,
Me poco tetto mendicando e parte
95Scarsa d’amaro pan, stanco, fugace
Manda la guelfa generosa parte.
E fora in prima di pietà capace
Alma, cred’io, d’ircana tigre o d’angue;
Chè il guelfo vincitor, lupo rapace.
100In cui l’ingorda voglia mai non langue,
Dà nell’aver di piglio... All’improvviso
Sclamò ’l romito: e il ghibellin nel sangue.
Dante ristette e, lui guatando fiso,
Disse: Che parli tu? Frate, chi sei?
105Ma il vecchierel, già ricomposto in viso,
Di subito a dir prese: Io non saprei
Qual altra, o signor mio, più di tua vista
Giugner cara potesse agli occhi miei.
Ch’or del gran carme tuo pasco la trista 3
110Anima, e piango con la gente umile
Che il ciel sospira e il ciel penando acquista.
Volea più dir, ma del novello stile
L’alto maestro, le severe gote
Alquanto raddolcendo: Alma gentile,
115Se a fidanza allettar fidanza puote,
Prego che a me significar ti piaccia
Donde e perchè quelle sdegnose note.
E l’altro: Indarno uom rinnovar procaccia
Se stesso tutto quanto; in lui l’antico
120Uom vive, e sempre non avvien ch’ei taccia.
Non ti maravigliar di quel ch’io dico;
Io mi son tal che non avria sofferto
In pace un tempo il tuo parlar nimico.
Ma il celeste favor, gli anni e il deserto
125Di tanto questo cor disacerbaro
Che, in pria che sappi come scusa io merto,
Perdon ti chieggio di quel detto amaro:
E poichè udir di qual fiamma procede
Questa favilla, come par, t’è caro,
130Sì m’aggrada il rispondere a tua fede,
E sì d’incomparabile martìre
Trovar mi giova in alto cor mercede
Ch’io volentier mi rendo al tuo desire.
E già ’l buon veglio, a cui dolenti stille
135Velarono le luci, era il sul dire,
Quando s’udì la voce delle squille
Che a sera invita a salutar Maria;
Ed amendue chinando le pupille
S’agginocchiaro in mezzo della via.
Note
- ↑ Verso del canto XXI del Paradiso, ove Dante accenna del monte Catria e del monastero dell’Avellana.
- ↑ Dante, siccome ghibellino, era avverso alla corte di Roma, cui spesso con aspre parole accusa di avarizia. Nondimeno quanto veracemente ei fosse ossequioso all’autorità della Chiesa lo dimostra in assai luoghi della Divina Commedia.
- ↑ È cosa certa che la cantica del Purgatorio non fu divulgata innanzi al 1315: parrà quindi verisimile che, mancando allora la stampa, non prima del 1318 pervenisse alle mani del monaco dell’Avellana.