Una famiglia di topi/Capitolo secondo
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CAPITOLO SECONDO
Rita e a Nello la mamma aveva data una graziosa canestra con un coperchio ricamato in lana a rosoni rossi per farne un nido ai loro nuovi piccoli amici; e questi, dapprima guardinghi, incerti, annusando con più incredulità che diffidenza quel letto elegante, s’eran poi quietamente accoccolati fra i pezzi di tela fina che i padroncini mettevan loro lì dentro a mo’ di materasse. E lì dentro schiacciavano dei sonni di ore e ore, mentre Rita e Nello erano occupati nelle loro lezioni.
Appena in libertà, i bimbi correvano a vedere che cosa facessero i due topini. Caciotta stava benone; soltanto dopo aver col girovago mangiato sempre un po’ di pane nero e raffermo, bagnato nell’acqua, il trattamento dei prigionieri, le pareva curioso, poverina, d’aver adesso a sua disposizione i cibi più squisiti. Ne’ primi tempi ella nè pure capiva il valore dei piattini che i padroni le preparavano con ogni cura e premura, togliendo dal proprio piatto quel che c’era di meglio.
Il latte, per Caciotta, fu a dirittura una rivelazione. Che differenza con quel brutto pentolo di creta sbocconcellato, mezzo pieno d’acqua sporca, ch’era stato, fin allora, tutto quel ch’ella aveva per dissetarsi, quando stanca di star in piedi, di tirar il secchio, di cercar i biglietti della fortuna, provava il bisogno di bagnarsi la bocca!
Quando vide il latte dentro un piattino di cristallo dorato, che Rita le porgeva tutta sorridente, non seppe se faceva bene o male a gustarlo. Ma perchè ormai tutto quello che la circondava le era nuovo e le tornava gradito, si fece animo e, per curiosità, allungò la linguetta e cominciò a leccare.
Bono, bonissimo, il latte! Le scendeva come un balsamo fresco e odoroso giù giù dal musino dentro lo stomaco! Bevve lungamente, deliziosamente, e non si sarebbe più staccata dall’orlo del piattino, se non avesse pensato di far sentire il latte anche a Ragù, che, poverino, ridotto a mal partito com’era, ne aveva anche più bisogno di lei. Ragù si mosse lentamente dal suo giaciglio, e venne al piattino, dove appoggiò le manucce rosate, assaporando con voluttà la candida bevanda.
― Come sono contenti, mamma! come gli piace il latte! ― esclamavano Rita e Nello battendo le mani dall’ammirazione.
Così fu per la carne, che a’ topini piaceva più tosto grassa; del pesce, di cui lasciavano giudiziosamente le lische; de’ legumi, fra’ quali preferivano le patate cotte col burro. Ma il torlo d’uovo e i dolci erano la loro festa.
― Non gli date molti dolci ― raccomandava la contessa Sernici ai suoi figliuoli. ― I dolci in quantità son dannosi anche ai bambini; riscaldano, mettono sete; possono, a volte, far venire la febbre e anche far morire. ―
La Rita e Nello, sapendo per esperienza propria come i bimbi più obbedienti siano i più felici, davano ascolto a tutto quel che diceva la mamma; così che a Caciotta, e soprattutto a Ragù, finchè non fu guarito completamente, dettero soltanto dei pezzetti di frutte candite, ogni tanto, per far loro un regalo.
― Chi vuol esser sano, dev’esser pulito ― ripeteva la contessa ai suoi ragazzi, ch’ella soleva lavare e strofinare da capo a piedi ogni mattina. E anche ai topi convenne abituarsi come i loro padroncini.
Fu Caciotta la prima che incominciò i bagni; tanto più che nella gabbia del girovago le si era ridotto il pelo di tutti i colori fuorche bianco, e più ruvido d’una spazzola di saggina.
I ragazzi, aiutati da Letizia, prepararono una catinella d’acqua tiepida, dove la topina fu immersa fino al collo. Caciotta, tutta tremante dalla grande impressione che le produceva questa novità, aveva messe fuori l’unghie, appuntate come quelle d’un gattino; non già per far male a Rita, che la lavava, ma per il natural timore d’annegarsi che hanno siffatti animalucci.
Rita la prese per la schiena e la tenne ben ferma, con delicatezza, s’intende; poi la insaponò tutta, e con uno spazzolino passò e ripassò ne’ punti in cui il pelo era più macchiato; alla fine mise Caciotta in un’altra catinella d’acqua chiara, egualmente tiepida, dove aveva versata qualche goccia d’acqua di Colonia.
Dopo questa seconda lavatura, la Letizia rasciugò la topina con un panno di tela, anch’esso leggermente caldo; e Nello volle incipriarla con la polvere di riso della mamma, che sapeva di violette.
Caciotta, la quale cominciava a sentire il piacere d’esser pulita, si lasciava fare stando ormai quieta. Quell’acqua le aveva dato al pelo una lucidezza che non si era mai sognata; quella cipria dall’odor soave di violette le metteva addosso un benessere fin allora sconosciuto. Che cari bimbi que’ suoi padroncini! Che gentile signora quella contessa, la quale avvezzava i figliuoli così pieni di pietà per tutti gli esseri piccoli e disgraziati! Dio, certo, ama anche i poveri topi, creati da Lui, come tutta l’immensa famiglia dell’universo!
Così doveva ragionar Caciotta, mentre, dopo il suo primo bagno, s’abbandonava a chi sa quanti pensieri, e finiva di pettinarsi e di ripulirsi da sè, passandosi rapidamente le manucce su e giù per il nasino roseo e per il collo, leccandosi e morsicchiandosi il ventre, il dorso e la coda.
Ragù, quand’ella ritornò nella paniera imbottita, dov’egli l’aspettava, quasi non la riconosceva più. Nella loro lingua topesca si mise allora a farle un monte di complimenti, dicendo:
— Caciotta mia, sei più bianca della luna, adesso! Il tuo pelo è più morbido della seta floscia; più odoroso della vallata delle Rose!
Lascia ch’io ti baci gli occhi, che splendono più dei rubini! lascia ch’io ti ripeta che il mio amore per te è un mazzo di fiori che non avvizzisce mai!
Caciotta, tutta contenta d’esser tanto bella agli occhi del suo sposo, gli susurrava alla sua volta, perch’era anche una gran buona topina:
― Anche tu, mio Ragù, sei bello. I tuoi occhietti spiccano in mezzo a quel cappuccino bruno come due brillanti neri. Anche tu, appena guarito, sarai tutto lavato e profumato come me. Ormai abbiamo trovato dei padroncini che ci colmano di buone grazie, e che s’ingegnano di farci dimenticare tutte le pene sofferte nella nostra vita da zingari. ―
Ragù, rassicurato su l’avvenire, dichiarò, volgendo qua e là la testina con gli occhi lucenti che piacevano tanto a Caciotta:
― Adesso, se avremo dei figli, non ci metterà più paura l’idea che i nostri piccini facciano una vita di stenti, di punzecchiature e di fame!... ―
Caciotta accostava allo sposo il musetto col naso mobile, tutto roseo in mezzo alla raggiera dei lunghi baffi (tra’ topi, curiosa! hanno i baffi anche le femmine), e già sognava le gioie d’una famigliuola di topolini, che Rita e Nello avrebbero saputo educare con ogni cura e ogni gentilezza.
A poco a poco Ragù s’era pienamente ristabilito in salute. I fianchi, prima scarni, che gli facevano due incavi, s’eran venuti arrotondando; il pelo, che prima qua e là gli mancava, gli era ricresciuto raffittendosi per modo, che Rita appena gli ci poteva passare il pettine, e doveva contentarsi di spazzolarlo come un piccolo manicotto.
Siccome la contessa Sernici non intendeva che i suoi ragazzi trascurassero gli studi, così essi s’occupavano di Ragù e di Caciotta nelle ore di ricreazione. Gli era allora che si faceva la pulizia; gli era allora che insegnavano ai topi a seguirli come cagnolini da una stanza all’altra, a prendere il cibo dalla bocca, come due piccioni, e altri simili garbi. Congli antichi esercizi non li affliggevano più: non si parlava, certo, di scegliere il biglietto verde o color di rosa della sorte. Soltanto Nello aveva detto:
— Sarà bene, però, che Ragù non si dimentichi a dirittura del fucile. Chi è stato soldato, non è vero, mamma? dev’esserne contento.
— Contento e superbo; — rispondeva la contessa. — Ma il povero Ragù ha presa una malattia sotto le armi, e ora, Nello mio, bisogna che tu lo consideri come un veterano inutile al servizio. — Poi soggiungeva sorridendo: — Piuttosto, se Ragù e Caciotta avranno dei figli, faremo militare un di que’ piccolini. —