Una campagna autonomistica/Riassunti di discorsi/Una protesta
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Una protesta1
- Cittadini!
Come schianto di fulmine capitò fra noi l’annunzio di nuove sopraffazioni a nostro danno compiute dalla dieta d’Innsbruck.
Si sanzionò dapprima una serie di progetti coi quali si davano al Tirolo ben 2 milioni e mezzo di corone da spendersi in pubblici lavori, mentre al Trentino si destinava un briciolo di appena 28.000 corone. Venne poi la legge su Fassa colla quale si decretava l’introduzione della lingua tedesca nelle scuole, di Fassa, preludio evidente al progettato distacco di quelle valli dalla regione trentina, per aggregarle ai paesi tedeschi.
Queste imposizioni, deplorabili perchè costituiscono un’offesa veramente grave ai più vitali interessi del paese, ebbero per contraccolpo il salutare effetto di scuotere tutta la regione da lungo tempo immersa nel sonno e nell’ignavia. Giacchè purtroppo è doloroso il dover constatare che, mentre sono andati crescendo con vertiginosa celerità le soppraffazioni a nostro danno, e nuove procelle e nuovi nembi si scatenavano su di noi, le nostre voci di protesta si son fatte sempre più deboli e fioche, parvero quasi un’eco remota e lontana di battaglie passate, un gemito estremo di chi più non ha nè gagliardia, nè speranza.
Una volta non si concedevano alle nostre città mezzi per progredire, per costruire ferrovie o strade, per dar vita a nuove industrie; ora si fa di più: si impedisce che questi mezzi ce li procuriamo noi, e tutti sanno come da Innsbruck sia venuto il veto alle imprese tramviarie di Trento.
Si spendevano una volta i denari comuni in vantaggio quasi esclusivo del Tirolo a danno del Trentino: ora si è andati più in là. Rimane fisso il canone della distribuzione, mentre cresce la proporzione del contributo che dobbiamo versare noi.
Si tentava un tempo di sviluppare oasi germaniche fra noi; ora si pensa a scindere la nostra unità nazionale, staccando addirittura dalla regione valli intere per aggregarle politicamente e amministrativamente a centri non naturali.
A far la storia di questo crescendo di sciagure, che per opera della borghesia tirolese si sono accumulate su noi, non si riuscirebbe facilmente; d’altronde i pochi esempi recati posson bastare.
Ma al raddoppiarsi delle offese, il paese non seppe rispondere con raddoppiata energia di difesa. Di ciò che si faceva un tempo, oggi non vi è nè ricordo, nè traccia. Una volta si raccoglievan proteste con cinquantamila firme su appena trecentomila abitanti, si indicevano comizi pubblici, si inscenavano dimostrazioni ai deputati reduci dalla dieta, si dava ad ogni elezione il carattere di una lotta di protesta. Oggi nulla di questo.
E se gli avversari del Trentino mostrano talvolta un po’ di pudore e temono l’ira nostra, è solo perchè ricordano l’opera d’altri, che in altri tempi seppero seriamente combattere, ricordano che il paese ebbe leoni ruggenti e temono che questi leoni possano ridestarsi.
Oggi invece il paese nostro è terra di morti e noi stessi, per rifarci energia e coraggio in mezzo a tanto squallore, dobbiamo evocar l’opera e la memoria dei molti caduti, virilmente caduti in difesa della libertà del Trentino.
A scuotere i vivi dell’oggi occorre lanciare su quest’aria morta l’epico e fatidico verso della rivoluzione: Si scopran le tombe, risorgano i morti!
Risorgano e passino dinanzi a noi le figure belle dei martiri, dei combattenti, dei cavalieri dell’ideale.
Passate, passate o baldi eroi che in schiera invitta aveste morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . mentre l’ultimo vostro sorriso, l’ultima parola era per la patria!
E tu pure risorgi o figura austera di Narciso Bronzetti, tu, che incarnando in un’aspirazione più vasta l’affetto che portavi alla terra natia, hai avuto in sorte la gloria di morire al fianco di Garibaldi. Pur ieri ricorreva il trentesimo primo anniversario della tua morte e nessuno ebbe per il tuo nome ricordanze e fiori. Ritorna fra i gioghi delle nostre e tue alpi, o milite della leggendaria schiera, e ai pusillanimi infondi quell’ardore e quel fuoco che te — erculeo, bello, ridente al bacio di appena ventidue primavere — lanciava sui campi di guerra.
E riedi tu pure fra noi o mite vegliardo, o anima dolce di Giuseppe Grazioli, tu che nell’anno dell’epica rivoluzione sfidasti e il carcere e l’esilio e che al bene della tua terra dedicasti una lunga vita, pellegrinando in regioni lontane per salvare il tuo paese da immani disastri, tu, che vecchio e cieco avevi nel tuo accento tanto fuoco da scuotere tutto un popolo.
E fra quel popolo che ti amava, riappari anche tu, figura severa e buona di Carlo Dordi, o consigliere che sapevi e spronare al lavoro e temprare gli ardimenti, o forte campione, a cui, l’aver traversato e miserie e bufere e tempeste e dolori, non fece mai perdere quella dolce serenità dell’animo e quella fermezza di carattere, che eran terrore degli avversari.
Passate, passate davanti al nostro pensiero, poetiche, balde figure, passate e scuotete un popolo di morti.
Se la voce vostra non scenderà nell’anima di quei borghesi — falsamente camuffati da liberali — che hanno sdegnato di accorrere a questa solenne manifestazione, essa troverà certamente eco nel cuore, di falangi ben più numerose.
Un ideale grande, di emancipazione umana ha insegnato a migliaia e migliaia di oscuri lavoratori, di gente che fino ad ieri non seppe cosa fosse vita politica, ha insegnato ad amar la giustizia a volerla per sè e per tutti, a snidare le prepotenze e i dispotismi dovunque, e contro chiunque si compiano.
Questi oscuri lavoratori, — nel cui nome io mi sento superbo di parlare — sono qui convenuti a schiere e a drappelli e vogliono che il paese tutto senta la lor voce di protesta e che la sentano i nemici lontani, e anche quelli che essi contano fra queste mura.
Essi, i lavoratori, ben sanno che, lottando per l’autonomia, più che pel proprio bene immediato provvedono ai vantaggi della borghesia; ben sanno che domani, vinta questa prima battaglia, ad altre lotte, ad altre fatiche dovranno sottostare per avere la loro completa emancipazione, ma non per questo s’astengono di far ciò che essi credono un passo avanti nella via della civiltà. No, dal compiere un tale dovere non li trattiene nè il freddo disprezzo di molti avversari, nè l’odio gretto e piccino di parte.
E rialzando — per proprio conto — la bandiera, cui hanno mandato baci e saluti i morenti per la patria, essi sanno di dover portare in sua difesa quegli stessi tesori di energia, di abnegazione, di sacrificio che dimostrano nella dura lotta per la conquista del pane. Essi sanno che è vano protestare contro un’offesa se non si studia il modo di scalzar dalle fondamenta la causa di tutte le offese; perciò, mentre additano al rimprovero l’insulto di ieri, domandano una riforma radicale, domandano la separazione del Trentino dal Tirolo, e l’instaurazione di un regime autonomo.
Domandano che il regime nuovo, che qui si deve instaurare, elimini ogni traccia di privilegi feudali di nobiltà e di casta e si inspiri a principî di uguaglianza sociale.
Sanno che questa lotta per l’autonomia non deve esser trascinata blandamente con trattative, con compromessi, ma deve essere lotta dichiarata, aperta, lotta gagliarda, che non si arresta davanti a supreme misure. Sanno che l’arma civile di una scheda, e l’arma di una legale ribellione, con cui si può inceppar il funzionamento della vita dei comuni e dei parlamenti, valgono assai più di una ribellione cruenta per le strade in mezzo alle barricate.
Sanno che il nemico è forte e che potrà resistere ai primi assalti, ma sanno altresì che bisogna saper affrontare le sconfitte e che vi sono sconfitte che disonorano non i vinti ma i vincitori.
Con quest’animo essi giurano solennemente di perseverare nella lotta per l’autonomia al fianco di altri, se altri vi saranno sinceramente democratici e amanti della libertà; soli, piuttosto che mescolarsi, con gente che senza dignità lascia schernire sè e il proprio paese.
E sperano e augurano prossimo il giorno in cui i lamenti, che s’alzano da ogni canto del Trentino, i gemiti del contadino che invano si sforza a strappare dai nostri alpestri gioghi il necessario alla vita, l’urlo di maledizione che alla patria scaglia l’emigrante costretto all’esilio, le imprecazioni dell’operaio che trascina la grama esistenza in officine, dibattentesi fra la vita e la morte, lo stato spasmodico a cui è in preda, quale corpo che si divincola nelle ore estreme, tutto il paese, si cambino nell’inno sonoro della pace, nell’affascinante inno della vittoria.
Vittoria sopra i pregiudizi secolari, sopra ingordigie prepotenti; e pace fra le nazioni, fra chi vive al di qua e al di là delle Alpi, pace fra tutti gli uomini, non intenti a lotta accanita fra loro, ma a sfruttar gli elementi e a strappare alla natura tesori pel bene, pel vantaggio comune.
Di questa vittoria, di questo ideale di pace segnerà un primo passo la conquista dell’autonomia.
E il dovere di conquistarla possa scuotere i cuori dei giovani, far balenar lampi di giovinezza sulle fronti pensose dei vecchi, far tacere lotte, odi, rancori; in tutti accendere fiamme di febbrile entusiasmo e far salire da ogni canto delle nostre Alpi, come da un petto solo, il grido solenne: Vogliamo l’autonomia!