Un romanzo/XI
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XI.
Tristi giorni!
Olimpio era sempre assente; il signor Prospero andava e veniva borbottando e sacramentando.
Le amiche di Giulia bisbigliavano tra loro — L’ho pur detto! Me l’aspettava. Non poteva essere altrimenti — e curiose di scandali, avide di particolari, si componevano una ciera malinconica adattata alla circostanza, poi andavano a farle visita, a due a due, preparando prima le parole, e consultandosi colla coda dell’occhio.
— Che vuoi, la è toccata a te! fatti spirito, coraggio, sta su allegra, non ci pensare — tant’e tanto è lo stesso.
Così parlavano le meglio informate.
Quelle che non sapevano nulla adottavano un’altra tattica.
— Sei pallida, Giulietta, mi sembri dimagrata, che hai? Tu sei pur sempre felicissima, tuo marito ti ama, i vostri interessi vanno a gonfie vele.... Io dico sempre: quella Giulietta è stata proprio fortunata, davvero.
Terzo sistema.
Una vecchia compagna di scuola arrivava tutta commossa, si gettava piangendo nelle braccia di Giulia, la stringeva, la baciava.
— Oh Dio, so tutto. Povero angelo! Eccomi qui a consolarti — parla — disponi di me. Domani vado in campagna per i bachi, starò assente tre mesi, ma non serve, dimmi come posso esserti utile. Mio marito è influentissimo, ha molte relazioni, molte conoscenze; è sempre assediato, a dir vero, e i suoi minuti sono preziosi, non arriva a tutto — ma puoi far calcolo su di lui, oh! sì, noi ci facciamo in quattro per gli amici. Addio, addio cara; scappo perchè ho a casa i provini della semente, e poi i muratori sulla scala e l’imbianchino per le camere della servitù; sono piena di faccende, non so da che parte voltarmi. Ho lasciato ordine al portinajo che non ricevo visite, nessuno alla lettera; ma tu puoi venire, figurati se voglio abbandonarti ora che la sventura ti ha colpito. Addio dunque, a rivederci. Se conosci della buona semente del Giappone a bozzolo verde, sappiamelo dire.
Come Giulia sentiva la sua solitudine!
Le amiche furono presto giudicate; parenti non ne aveva; le venne in mente il suo tutore, ma si era ritirato in una villa tra Sesto e Gorla, e vi conduceva un’esistenza perfettamente solitaria.
Tuttavia ne parlò al signor Prospero — e seppe che le relazioni dei due vecchi s’erano alquanto raffreddate.
Passò qualche giorno, ed ognuno di essi le portò nuovi affanni, nuovi disgusti, nuove lagrime, nuove disillusioni.
— Voglio provare! — disse tra sè — se il signor Prospero non m’accompagna, anderò sola. Egli è stato il mio secondo padre, il compagno della mia adolescenza, non può avermi abbandonata.
La villa del tutore era una gran casa quadrata, dipinta in color carne, con un giardino mezzo selvaggio, più ortaglia che giardino, e più campo che ortaglia.
Mi domanderete perché allora l’ho chiamato giardino.
Ma perchè è l’uso. Quel pezzo qualsiasi di terra che circonda una casa di campagna, per poco che vi presenti un cespo di rose brullo e qualche pianticella trascurata di crisantemi volgari, è subito un giardino.
Io ho veduto uno di questi giardini che produceva esclusivamente delle carote; quello del tutore invece era prodigalmente seminato a fagioli.
Giulia lo attraversò senza guardarlo, dopo aver aperto, non senza un po’ di difficoltà, il rozzo cancello di legno che lo difendeva dai monelli e dai quadrupedi erranti.
Non si vedeva nessuno a comparire, ma seguendo le traccie di un sentiero che assomigliava pochissimo, tra parentesi, ai sentieri dei parchi inglesi, giunse sulla soglia di un vestibolo lungo, basso, umido, che metteva ad un salottino oscuro e silenzioso, tutto coperto sulle pareti di gran fogli tolti al Cosmorama pittorico, e che servivano nello stesso tempo di tappezzeria e di quadri.
— Chi va là? — fece una voce di tenore in quiescenza, mentre il corpo magro e rugoso di un vecchio sulla sessantina si moveva in un angolo.
— Sono io, tutore, non mi conoscete?
Il tutore fece le meraviglie — disse che non s’aspettava così bella visita — chiese del marito, di Prospero, di tutti.
Quando Giulia, vergognosa, lo ebbe messo a parte delle sue disgrazie, egli uscì in una esclamazione intraducibile, si rinchiuse un poco, abbassò il tono della voce, prese un’aria di riserbo, e si pose a guardare con interesse la manica del suo soprabito che incominciava a scucirsi.
— Ah! se lo avessi saputo prima.... — mormorava Giulia col fazzoletto sugli occhi. — Non lo dico a nessuno, no, ma con voi non posso fingere, non posso mentire. Ho il cuore che mi scoppia; da un anno divoro le mie lagrime sperando sempre che egli avesse a cambiarsi.... Oh, mio Dio! mio Dio! perchè mi sono maritata?
— Ma!... — esclamò il tutore ficcando l’indice nella scucitura.
— Ed io che l’ho amato tanto, che l’amo ancora!... Ma ditemi qualche cosa, non avete nulla a suggerirmi?
— Cosa vuoi ch’io ti dica, figlia mia? Ho sacrificato i più begl’anni della mia vita (dai cinquanta ai sessanta) per prendermi cura di te; ti ho allevata, istruita, ti ho fatta quella che sei, ho speso con saggezza e con parsimonia, senza guardare tanto per il sottile nè il tuo nè il mio — voglio dire che ci ho rimesso a preferenza del mio....
— Caro tutore — interruppe Giulia — non parliamo del passato.
— Ebbene, parliamo del presente. Io sono un povero vecchio, malaticcio, sfibrato, stanco del mondo e delle sue nequizie; venni qui per vivere tranquillo, senza fastidii, senza rompicapi....
— Ed io vi disturbo? esclamò Giulia con un po’ di amarezza.
— No, no, carina! — capì che s’era spinto troppo — tu mi fai piacere, immagina! Timoteo, Timoteo, appronta due tazze di caffè.
— Non disturbatevi....
— Al contrario! Timoteo, bada a non lasciarlo bollire troppo.
Timoteo, si capisce, era il servitore; un contadino rugoso, bruciato dal sole, in manica di camicia, con due bretelle di cotone rosse e verdi, piedi nudi e cappello in testa.
— Intanto vuoi venire a dare un’occhiata al mio giardino? Non c’è altro che un po’ di verde — dei fagioli — io vado matto per i fagioli — utile dolci. I fagioli sono belli a vedersi, hanno un fiore graziosissimo, si prestano volontieri a far ombra, e in fine allietano la mensa; ih! ih! il fagiolo è una pianta economica, è un servitore a doppio uso.
Con che cuore — ve lo lascio immaginare — Giulia seguì il suo tutore, che spietatamente egoista, come tutti i vecchi, volle mostrarle ad una ad una le sue pianticelle.
— Fagiolo phaseolus, della famiglia delle leguminose, oriundo delle regioni intertropicali; conta più di cinquanta specie. Guarda qui, questo che incomincia a metter fuori i suoi piccoli fiorellini bianchi, è il phaseolus lunatus del Bengala, quest’altro è il phaseolus vaxillatus delle Antille e dell’Avana; ecco il semierectus dell’America del sud, a fiori rossi.
Giulia era sulle spine; il tutore impavido continuò:
— Qui poi vi è una famiglia a parte della specie nana, osserva il sphaerospermus, adesso è ancora piccino e mette le prime foglie, ma poi si innalza dritto, le foglie s’arrotondano, spuntano i fiori di un bianco gialliccio, e i baccelli hanno forma cilindrica. Mi dispiace che non posso farti vedere il caracola, portato dall’India in Italia; è bellissimo, ha i fiori grandi, di colori vivissimi, che si volgono in spirale eccentrica; aspetto poi le sementi dell'anagrys faetida e del dolichos sesquipedalis. Il terreno pur troppo non è come io lo desidero, e spendo un occhio per migliorarlo; vi profondo l’ingrasso, lo faccio voltare e rivoltare....
— Addio, tutore, torno a Milano.
Giulia aveva raccolte le sue forze e le aveva messe in questa frase.
— Aspetta, aspetta che prenderai il caffè.
Convenne aspettare; l’implacabile vecchio fece sedere la sua pupilla su una panchina di legno, presso un albero intisichito, e riprese:
— Questo, per esempio, sarebbe un posto adattato a formarvi un padiglione, mescendo il phaseolus bianco del Bengala col semierectus dell’America settentrionale, che porta fiori vermigli; ma, Dio buono, queste piante richiedono, per prosperare, una terra ben preparata, fresca, leggiera, e che la temperatura dell’autunno sia sufficientemente calda, né troppo frequenti i geli in primavera, ed anche il solo freddo di certe notti d’estate può essere loro estremamente nocivo. Su dieci pianticelle otto mi muoiono invariabilmente.
Timoteo col caffè sopravvenne in buon punto; la pazienza di Giulia era esaurita.
Si lasciarono freddamente.
Il tutore disse che non poteva far nulla, ch’egli era ritirato dagli affari, infine che se ne lavava le mani.
Giulia, col cuore spezzato, tornò a Milano.
L’ultima illusione era svanita.