Trattato di archeologia (Gentile)/Arte etrusca/II/Appendice II
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APPENDICE II.
Osservazioni intorno all’arte plastica degli Etruschi.
Si è veduto, nell’Appendice I, che anche l’arte, secondo il mio debole parere, contribuisce a far credere gli Etruschi provenienti dall’Oriente piuttosto che dall’Occidente, almeno fino a nuovi ritrovamenti archeologici e soprattutto linguistici.
Ma questo non si è ancor dimostrato; il che facciamo ora brevemente, come il luogo e la mole del lavoro ce lo permettono.
Vi è pertanto un assieme di fatti che non devono essere trascurati. La stessa grandiosità delle costruzioni etrusche, delle applicazioni fatte dagli Etruschi delle volte e delle armature, la stessa solidità e vastità di piani nell’architettura etrusca si direbbe alunna di quella egiziana, che fa meraviglia ancora oggi a quale perfezione sia giunta. L’uso poi della decorazione geometrica, l’horror vacui, la moda delle epigrafi incise direttamente sul monumento, il lusso delle oreficerie con pietre preziose (ved. tav. 35), la predilezione per gli ornamenti decorativi e pei vivaci colori, la frequenza di vasi a rilievo, già usati nei paesi greci, l’impiego dei motivi plastici e pittorici animaleschi, l’uso del Canopo o urna, funeraria con ritratti e la presenza delle maschere funebri (ved. tav. 30), sono tutti indizi di affinità e di contatto prolungato con gli Orientali e coi Greci Asiatici, e collegano la civiltà etrusca con quella micenea ed omerica in genere.
C’è in tutta l’arte etrusca ed omerica quel convenzionalismo orientale che mantiene anche nei suoi periodi più avanzati la rigidezza arcaica delle mosse, la scelta dei tipi in piedi, senza moto e grazia, la preferenza per rappresentazioni figurate d’indole decorativa, e simbolica, mancanti della vera vita (ved. tav. 33).
Nell’applicazione poi dei tipi e dei motivi dell’arte etrusca si vedono i caratteri dell’importazione marittima, come di popoli venuti dal mare, non per via di terra. Nulla ci suggerisce la civiltà del centro d’Europa, che non ammette assolutamente quegli elementi orientalizzanti e d’importazione, che noi troviamo nella civiltà etrusca, fino al punto in cui si assimila la civiltà greca e romana, trasformandole entrambe.
Se noi, però, ci soffermiamo a considerare il valore intrinseco di quest’arte etrusca, troviamo (d’accordo col Martha, com’egli esprime in un’appendice al suo lavoro magistrale sull’arte etrusca), che mancavano agli Etruschi l’invenzione e il sentimento artistico, mentre non si può loro negare un certo spirito di realismo, e una forza di imitazione e di assimilazione dei vari elementi artistici non minore di quella dei Romani. — Questo spirito di verismo è però tale che impedisce di aggiungere anche il menomo lato ideale alle rappresentazioni artistiche, ammettendovi invece l’orrido più osceno e sgradito, purchè risponda al concetto che essi se ne fecero, o se ne vogliono fare. Ciò non toglie che nella pittura e nella plastica bisogna concedere agli Etruschi una certa originalità pel ritratto e per la rappresentazione delle scene intime, familiari. E difatti nel ritratto furono maestri ai Romani, come lo furono nella predilezione per quei grandi bassirilievi di processioni funerarie, o trionfali, che diedero ai Romani l’idea di ornare i loro archi e monumenti dei noti bassirilievi storici, nonchè di alcuni ritratti parlanti per somiglianza e vivezza di tratti fisionomici.
Se gli Etruschi dovettero dibattersi tra la forma convenzionale dell’Oriente e quella troppo ideale della Grecia, se non ebbero tempo di immedesimarsi sempre e perfezionarsi negli elementi estranei coi quali venivano a contatto, non sì può negare alla loro arte, oltre l’intuito della natura, del ritratto, del bassorilievo, anche il gran merito di aver fatto riconoscere ed apprezzare ai Romani l’ellenismo nelle sue varie forme, in modo che non si può studiar bene l’arte greca in Roma, nè l’arte stessa romana senza rilevare la parte avuta dagli Etruschi nel diffondere gli elementi dell’ellenismo nelle varie città del Lazio e dell’Etruria.
Pur riconoscendo, però, che l’arte etrusca ha familiarizzato, per così dire, Roma con l’ellenismo, è doveroso riconoscere pure che, per la mancanza del senso estetico, venendo meno agli artisti etruschi il concetto delle proporzioni esatte delle parti del corpo, il che è fondamento della vera bellezza, non potè mai l’arte etrusca inalzarsi a quelle sfere ideali e perfette che ammiriamo nell’Ellade e in Roma. Lo stesso carattere, la stessa costituzione fisica, le abitudini, le aspirazioni del popolo contribuivano a dare un’impronta tutta speciale all’arte loro. Infatti gli Etruschi ebbero presto il concetto della ricchezza, del fasto, e, per natura inclinati al piacere, sotto la sua forma più grossolana, crearono un’arte materiale, verista al sommo grado, lottante per di più con le superstizioni e le credenze demoniche, molto vive nel popolo, e tali da ispirare un certo timore e ribrezzo per quello che credevano utile di fare a vantaggio della famiglia o dello Stato.
Gli Etruschi, venendo in Italia, portarono seco un patrimonio artistico relativamente misero, che accrebbero immensamente a contatto coi Greci asiatici e del continente, e coi Fenici. Ma nemmeno questo scambio di idee, di costumi, di aspirazioni valse a togliere dall’arte etrusca quell’impronta di rigidezza, di goffa asprezza, di sproporzione, che essa presenta anche nei momenti dell’arte libera.
Tanto il Martha citato (ved. Art étrusque), quanto l’Amelung (Führer durch die Antiken in Florenz) rilevano, però, come vi fosse negli Etruschi, in compenso della mancanza del sentimento estetico e della facoltà dell’invenzione, oltre il principio di assimilazione e di verismo citati, anche una gran cura e quasi uno sfoggio nel ritrarre i particolari dei vestiti, degli ornamenti, delle decorazioni, e un gran culto per l’arte greca, che essi imitano, diffondono, e fanno apprezzare, come s’è detto, anche ai Romani.
II. — Toreutica.
1. Osservazioni generali.— Abbiamo già notato che gli Etruschi riuscirono più valenti nell’arte applicata o industriale, che non in quella pura. La parola toreutica veramente indica il lavoro di cesello (τορευτική, lat. caelum, caelatura), ma il vocabolo si estese con più largo senso alle varie forme di lavoro di incisione, di rilievo, o di commessione dei metalli (oro, argento e bronzo). Lavori di toreutica si hanno in gran numero nelle raccolte d’antichità etrusche, perchè erano dei rami più produttivi e più sviluppati. Opere di industria così fiorente erano candelabri, lampadari, tripodi, bracieri, coppe, varie foggie di vasi, specchi, cofanetti o ciste, patere, anelli, e le così dette bulle, che erano un ornamento portato dai fanciulli, a guisa d’amuleto, d’origine e d’uso propriamente etruschi, passato poi ai Romani; insomma ogni guisa d’ornamenti femminili, fornimenti di cavalli, o phalerae, armi, utensili domestici. La quantità di queste opere, mirabili per la ricchezza della materia e la finitezza del lavoro, è prova della prosperità e dell’inclinazione al lusso della nazione etrusca.
2. Candelabri. — Celebrati erano i candelabri tirreni di bronzo, cesellati con varietà di figure e d’invenzioni ornamentali, e destinati all’uso domestico e religioso. Di queste opere l’arte industriale etrusca faceva esportazioni. Un frammento di Ferecrate, comico dei tempi di Pericle1, cita un candelabro tirrenico come un capolavoro. Candelabri si trovarono nei sepolcri insieme con altri arredi sacri o domestici. Constano generalmente di un’asta su base, con punte in cima da infiggervi le candele, o con piattello o bacinetto per la lucerna (lychnuchus). La grande varietà e l’eleganza delle forme sono prova dell’ingegno inventivo degli Etruschi. Le basi sono o di piedi belluini, o di ben composte forme umane od animali; le aste o fusti raffigurano colonne, o alti steli terminati in capitelli varî, in fiorami, in bacini, o coppe ornate. Su per il fusto sono spesso figure rampanti d’animali, talora figure umane in vario atteggiamento fanno da sostegno, ed altre si ripetono sull’estremo dell’asta (ved. Atl. cit., tav. XXX).
I lampadarî pendenti dall’alto, con più fiamme, con ricchi ornati usati dagli Etruschi, e in genere dagli Italici, nelle case signorili e nelle tombe, sono designati col nome di lychni2. L’esemplare più insigne di questa classe è il lampadario rinvenuto a Cortona nell’anno 1840, e ancòra conservato in quella città, mirabile per grandezza, per figurazione assai ricca e variata, e per isquisita finezza di lavoro a cesello in alto e basso rilievo3.
3. Specchi. — Una classe singolare e assai importante di bronzi etruschi è costituita dagli specchi; sono dischi piatti, con un leggiero rialzo all’ingiro, con manubrio, lisci da un lato, ornati di disegni nell’opposto, solitamente incisi o graffiti a punta, più raramente fatti a rilievo. Si rinvennero nelle tombe etrusche, e dapprima si chiamarono col greco nome di φιάλαι, o col romano di paterae, cioè tazze da libazione nel sagrifizio; poi Inghirami li riconobbe come specchi, loro attribuendo però un significato ed un valore religioso e mistico; a questo dava special motivo il fatto di trovarli frequentemente dentro cofanetti, o ciste, anch’esse qualificate per mistiche. Oggi però è accettata l’opinione che siano specchi comuni, come lo sono le ciste e la loro suppellettile muliebre. L’uso di questi dischi come specchi comuni è comprovato dal vederli rappresentati in mani femminili sui bassorilievi e sui vasi dipinti. Le rappresentazioni incise a punta, e spesso accompagnate da inscrizioni dichiarative delle figure, sono assai importanti per lo stile dell’arte, per il contenuto mitologico, e per i nomi che vi sono inscritti.
Il contenuto delle rappresentazioni è solitamente di miti greci nazionalizzati etruschi. Frequenti sono le figure alate senza inscrizioni, che soglionsi dichiarare per imagini della Fortuna etrusca, il cui culto passò poi a Roma. Tali rappresentazioni della Fortuna con suoi attributi si riferiscono allo scongiuro del fascinus, o della jettatura, diffusissima superstizione italica. Con la Fortuna si hanno imagini di altri Dei averrunci, quali, p. es., i Penati. Le rappresentazioni di scene della vita comune sono rare. Il progresso dello stile vedesi negli specchi, come negli altri rami dell’arte etrusca. Alcuno ve n’ha con rappresentazione di stile arcaico, che mi sembra prossimo a quello delle situle estensi (ved., per es., specchio etrusco di Castelvetro, illustrato dal Cavedoni4). I più hanno uno stile diligente, ma stentato e penoso, e nelle figure scorretto. In questi monumenti, come nelle urne o sarcofaghi, vedesi l’arte etrusca, che tenta di ravvivarsi con la greca, o forse l’arte greca che si corrompe in mano di artefici etruschi. La maggior parte degli specchi ornati di figure viene dalle tombe dell’Etruria propria; parecchi, ma con qualche differenza di carattere, da tombe del Lazio, e specialmente da Preneste; pochi, e per lo più lisci, sulle due faccie, salvo qualche leggier fregio di ornato, provengono dall’Etruria Circumpadana (v. Atl. cit., tav. XXXI)5.
4. Le ciste a cordoni. — Parlando delle scoperte felsinee si sono ricordate le ciste a cordoni, deposte in tombe per contenervi ceneri, ma effettivamente prima oggetti da toletta. La forma a cordoni è la più antica, la primitiva per tali ciste; le quali per la maggior abbondanza di ritrovamenti in regioni padane, a cominciar dalla prima scoperta a Monteveglio, nel Bolognese, l’anno 1817, si credettero opera degli Etruschi settentrionali. Altro genere di ciste, o a dir meglio, ciste lavorate in tempo d’industria e d’arte assai più progredite, e fornite quindi d’un maggior pregio intrinseco, ma derivanti dal tipo primitivo della cista a cordoni, sono le ciste trovate in tombe dell’Etruria propria, a forma di vaso cilindrico riposante su peducci lavorati, chiuso da coperchio, ornato di rappresentazioni figurate, incise a punta, o fatte a rilievo. Il passaggio dalla forma primitiva a questa più sviluppata parrebbe rappresentato da una cista trovata a Vulci, che ha il corpo ornato di quattro cordoni rilevati ed è sostenuta da peducci ad unghia forcuta sormontati da testa di Medusa6.
A questi cofanetti si volle attribuire un carattere religioso, come destinati a qualche speciale uso nelle misteriose funzioni di Bacco, e perciò le chiamarono ciste mistiche. Ma, come già si è detto, gli oggetti in esse solitamente contenuti, spettanti al mundus muliebris, cioè specchi, vasetti da unguento, fibule, aghi crinali, pettini di metallo, di osso o di legno, strigili, ecc., e perfino un ricciolo di capegli posticci (tanto è antico l’inganno delle belle chiome!) dicono chiaramente che son scatole o nécessaires de toilette, senza che tuttavia resti assolutamente esclusa la possibilità anche d’una sacra destinazione. Le più delle ciste non si trovarono nell’Etruria ma bensì nella città latina di Preneste, onde la denominazione di ciste prenestine; esse valgono come antichi esempi dell’arte latina con influenza greca; e quindi se ne riparlerà più avanti.
La singolare perizia degli Etruschi nel lavoro dei metalli, la particolare loro disposizione non ai grandi concetti artistici, ma al lavoro minuto e diligente, si rivela nei molti oggetti preziosi d’ornamento, finissimi lavori d’oreficeria e di glittica. Di oro sono collane, armille, corone di varissime foggie, fibule, bulle, anelli, con varietà grandissima di invenzioni decorative e con perfezione non mai superata. Buona parte di tali oggetti in tombe antichissime hanno caratteri di gusto e di stile orientale, fenicio e babilonese, con figure di sfingi, leoni, mostri alati, e collane con pendagli formati di idoletti egizî (ved. tav. 35).
Del pazientissimo e difficile lavoro d’intagliare in un incavo le pietre dure, che il Vasari disse «un lavoro al buio», gli Etruschi lasciarono esemplari ammirabili. Sono pietre incastonate in anelli, o varie forme di amuleti da appendere al collo, specialmente quelli all’egizia foggia di scarabei, cioè globuli d’agata, d’onice, di sardonia (ved. tav. cit. 35), bucati per il lungo, figuranti nella parte superiore il sacro scarabeo colle elitre chiuse, e nell’inferiore una faccia piana, incisevi con microscopica minutezza figurine ed inscrizioni. Gli scarabei sono superstizione egizia, che considerava quest’animaluzzo quale divinità, simbolo del principio virile. Queste pietre incise, che trovansi nelle tombe etrusche più antiche, in parte sono di importazione orientale, fenicia, in parte vera lavorazione degli Etruschi, che per religiose superstizioni amavano ornarsi di tali amuleti. L’esemplare più perfetto d’intaglio etrusco è una sardonice orientale nel cui piccolissimo campo è rappresentata con esimio lavoro una scena di guerra, cioè due soldati che sorreggono un compagno ferito7.
Tavole
Carro con cavalli alati (Bassorilievo d’avorio di carattere cipriota, analogo a una classe di lavori etruschi arcaici).
Tavola 33. - Si rinvenne a Corneto, e si trova ora al Louvre (Parigi).
Ved. Melani, Manuale di scultura italiana antica e moderna, Milano Hoepli, 2ª edizione, tav. I.
La celebre cista Ficoroni, ora al Museo Kircheriano in Roma.
Tav. 34. — Per l’epigrafe ved. Serafino Ricci, Epigrafia latina. Milano, Hoepli, 1898, tav LII, e relativa bibliografia intorno alla cista Ficoroni.
Oreficeria etrusca (dal Museo del Louvre).
Tav. 35. — Bijoux di varia dimensione, forma e fattura; dall’opera di J. Martha, L’art étrusque, tav. I. — N. 3, orecchino con granate. — 4, collier con scarabei di cornalina. — 1, 9, 10, orecchini in filigrana d’oro con oggetti d’ornato in smalto.
Note
- ↑ Ved. Ateneo, Deipnosofisti, XV, 18.
- ↑ Ved. Virgilio, Eneide, I, 727; .....dependent lychni laquearibus aureis... incensi.....
- ↑ Ved. disegni in Micali, Mon. ined. IX e X e pag. 72; cenno della scoperta in Boll. C. A., 1840, pag. 164, e studio di Abeken, negli Annali I. C. A., 1842, pag. 53.
- ↑ Cavedoni, Annali Ist. Corr. Arch., 1842, pag. 75.
- ↑ Per gli specchi etruschi ved. Gerhard, Über die Metallspiegel der Etrusker (Abhandl. der koniglichen Akad. d. Wissensch. zu Berlin, 1836, pag 323), e la maggior opera dello stesso autore, Etruskische Spiegel, 1840. Molti disegni e illustrazioni negli Annali e nei Monumenti dell’Ist. d. C. A.
- ↑ Boll. Ist. Corr. Arch., 1880, pag. 213. Ved per la cista Ficoroni la nostra tav. 34.
- ↑ Ved. Micali, Mon. ined., tav. LIV.