Trattatelli estetici/Parte terza/VII. I Titani
Questo testo è completo. |
◄ | Parte terza - VI. Dei giudizii di alcuni uomini illustri intorno sè stessi | Parte terza - VIII. L'uomo e il letterato | ► |
VII.
I TITANI.
I.
Titani si chiamano con molto appropriato vocabolo quei letterati, ai quali accade niente meno che di ammassar le montagne, per farne scala all’Olimpo ove sperano di poggiare. La favola antichissima dei figli della terra, congiorati a rivendicarsi il dominio della dimora celeste, racchiude un senso molto profondo, e può essere riferita a diverse età e condizioni della razza umana, sempre agognante e sempre infelice. Ma prendendo la cosa dal solo lato degli studii, e cominciando a considerarla storicamente, può dirsi che questi Titani non mancarono mai. Gli ebbero le scienze non meno delle arti, i secoli della barbarie al pari di quelli della civiltà. Le loro imprese, tuttochè riuscissero a male, meritano di essere studiate, e sono feconde di conclusioni molto importanti. L’antichità, avvolgendo della sua nebbia molti nomi e molte opinioni, ci ha fatto giudicare gigantesco ciò che, considerato a più giuste distanze, avremmo trovato non altro essere che mostruoso; e molte volte l’ignoranza in cui siamo de’ tramezzi, ci ha fatto supporre un’unica massa ciò ch’era ammucchiamento di parti bene spesso tra loro discordanti. Ma di ciò tocca discorrere diffusamente a chi scrive la storia dei traviamenti dell’umano intelletto; non volendo io che dar conto rapidamente di alcuni de’ più moderni e de’ più famosi scrittori, che possono esser compresi sotto questa intitolazione generale di Titani, ogni più lungo esordio sarebbe soverchio, per non dire nocivo.
Non esaminerò le cagioni che fecero sentire il bisogno di una letteratura ringiovanita e proporzionata alla civiltà sempre crescente dei popoli, ma questo bisogno è incontrastabilmente sentito; e gl’ingegni che ricevettero l’istituzione letteraria come una missione loro affidata a giovamento dei proprii fratelli, si studiarono di contentarlo. Considerati i nostri Titani sotto questo aspetto generale, entrano essi pure nel numero di coloro, ai quali la posterità è debitrice di rispetto e di lode pel nobile fine al quale mirarono colle loro opere. Quando però si venga alle particolarità dei mezzi adoprati, bisogna cambiar discorso, e compiangere l’abuso di molte valide facoltà, rese inette all’acquisto del fine cui si proponevano di ottenere. Nelle arti questi trascorrimenti sono assai più deplorabili che nelle scienze, in quanto che, non potendo nulla aspettarsi le arti dal caso, nessun utile effetto è sperabile da chi s’incammina per via non secura. Nelle scienze bisogna pur sempre procedere per la via dei tentativi e degli esperimenti, avendosi a scongiurare nella natura una Sibilla ritrosa che imbizzarrisce sotto l’opera dell’esorcismo, e affida alle foglie volanti i suoi non mai chiari responsi; nelle arti per lo contrario è la natura stessa che viene a presentarsi volontaria al suo favorito per essere vagheggiata, e gli parla un linguaggio che non gli sarebbe stato possibile d’indovinare prima che avesse goduto di quei mis eriosi colloquii.
Mi fu detto che un letterato italiano, di cui venero, oltrechè l’acutezza dell’ingegno, la rettitudine somma dell’animo, sia per dar fuori uno scritto, col quale presume di dimostrare l’utilità derivata e da derivare alla morale dal nuovo carattere che assunsero tutte indistintamente le moderne letterature Europee. Ne punto atterrito il degno scrittore da ciò che in esse abbonda di smodatamente terribile, ciò stesso pretende abbia a stimarsi concorrere al nobile scopo di quella morale utilità. Prontissimo a confessarmi in errore, quando le ragioni accampate dal dotto uomo me ne procurino il convincimento, non rimarrò in questo mezzo dall’esporre quelli che mi sembrano argomenti di qualche importanza a provare il contrario. Non si supponga per questo ch’io mi faccia proselite delle arbitrarie prescrizioni, reverende soltanto a cagion della ruggine che le ricopre, e voglia meritarmi la taccia di adulator dei sepolcri, ch’è, se non la più vile, certamente la più ridicola fra le adulazioni. Mi sono sempre fatto beffe di quelli che combattevano i così detti romantici con dir loro che miravano ad escludere tutte le regole, quando dovevano dire piuttosto che alle regole arbitrarie e tutte particolari volevano surrogarne di legittime ed universali. E per questa stessa ragione mi sembra di dover contraddire all’intenzione attuata nell’opere di questi moderni Titani, troppo indeterminata, e troppo individuale.
Un sentimento d’irrequietudine impossibile ad essere definita; una lotta continua tra due potenze, delle quali l’una vive e si nutre di volontà, l’altra di resistenza, sentendo la prima sė in sé e nelle proprie azioni, l’altra manifestandosi per via degli impedimenti che oppone; un’aberrazione dal sensibile e dall’effettivo al possibile e all’immaginato; l’individuo rappresentato coi caratteri della generalità, e il generale costretto e rappicciolito entro i termini dell’individuo; cercata la virtù in quell’estremo confine dov’essa sta per mancare, e spesse volte abbracciata al vizio, per modo da sembrare intrinsecata con esso; è questa l’espressione del tipo, al quale più o meno si accostano presso che tutti i lavori della scuola Titanica. In questa espressione sono più o meno esattamente compresi i Fausti, i Manfredi, quali enti puramente immaginarii; i Frollo, i Corsari come possibili; i Sardanapali e le Borgia, come reali. Nella sfera stessa si aggirano tante concezioni mirabili, sebbene grottesche; tante amabili creature,che colla loro apparenza allettatrice rendono desiderabile l’avveramento di sogni che per altra parte ci fanno inorridire.
Non negherò che le forze morali, idoleggiate in alcuno di questi moderni poemi e di questi moderni romanzi, non esistano; ma il difetto, a parer mio, sta nel riprodurle troppo frequentemente, e con troppo generici lineamenti. La disperazione, a cagion d’esempio, ha sempre avuto chi la celebrasse col racconto dei proprii dolori; e l’antichissima canzone di Fazio alla Fortuna mostra abbastanza come fossero proprii della nostra poesia nella sua robustezza più giovanile que’ sentimenti, che alla spossata vecchiaia del nostro tempo è convenuto imparare dai forastieri. E anche in mezzo a questa misera decrepitezza i canti di Giacomo Leopardi hanno quella intensità di dolore, che le esagerate imitazioni non possono che raffreddare. Se parliamo poi di portentose apparenze, e di relazioni col mondo defunto, non ci dava Andrea del Basso, fino dal secolo XV, nel risorgimento della donna che gli fu bruttamente infedele, un esempio anticipato delle Eleonore, e delle Spose di Corinto? Con queste citazioni vorrei aver dichiarato quello ch’io intenda dire tacciando i Titani di soverchia indeterminatezza nella rappresentazione de’ loro concetti. E credo anche aver in parte mostrato quanto ingiustamente sarebbero accusati di novatori. Non mi stancherò di ripeterlo: nell’opere d’arte le generalità, ad essere utilmente rappresentate, devono assumere caratteri individuali.
Di questo vero, e fors’anco del vizio in cui erano caduti i suoi confratelli, diede segno recentemente di essersi accorto Vittore Hugo, che nella prefazione alla Lugrezia Borgia si studia d’indirizzare l’attenzione de’ suoi lettori a quel punto cui aveva mirato. Un poco di comento a questa prefazione, quantunque comento sopra comento non sia gran bel fatto, metterà in maggior luce le cose che ho discorso fin ora con forse troppo astratte parole.
II.
Per verità io non soglio stimare gran fatto quegli scrittori che alle loro poesie antepongono in prosa proemii, nei quali dichiarano l’intendimento o la cagione dell’opera. L’una e l’altra di queste cose, e specialmente la prima, deve apparire distintissimamente dall’opera stessa; e chi mi viene ammonendo di quello che accadrà, e del come accadrà nel corso del libro, fa l’uffizio de’prologhi nelle antiche tragedie, che spuntavano l’attenzione prima ancora del cominciare del dramma, o può essere paragonato a quei cattivi compagni di teatro, da’ quali mi scampi il cielo quando canta Giuditta Pasta o recita Luigi Vestri, che ti danno di gomito, ripetendo ad ogni ora: bada veh! sta in orecchi! ora viene il buono! ci siamo! Qualche volta ancora ti zufolano sotto voce la musica negli orecchi.
Una prefazione bene immaginata è un’arma potentissima in mano d’uno scrittore, ma chi nel tirare le prime botte fa si che io mi metta sulla guardia, ingaggia un duello dal quale uscirà vincitore molto difficilmente. Carissime le prefazioni nelle quali il lettore mi conduce a diporto, apparecchiandomi l’animo e la fantasia a quelle impressioni che io devo ricevere dalla lettura, senza punto parlarmi, se occorre, del libro, o parlandomene assai leggermente e per via generale. Tali prefazioni mi rendono immagine di quelle anticamere con belli a freschi, o altri splendidi addobbi, esaminando i quali molto volentieri t’indugi ad attendere il valletto che deve introdurti nelle stanze più interne. Intanto la immaginazione, infiammata da quell’esterno aspetto di ricchezza e di lusso, ti narra mille belle cose della persona e del luogo a cui devi venire.
La prefazione della Lugrezia Borgia è prefazione in parrucca e lattuche, e, dallo stile in fuori, vivace ed effettivo come in tutti gli scritti di V. Hugo, può dirsi che questa volta l’animoso poeta ha interrotto la sua carriera per discendere di cavallo a parlar non so che cosa all’orecchio de’ suoi lettori. Se i lettori gli danno risposta, questa può dirsi opera di creanza, anzichè di critica; si potrebbe anzi dir di coscienza, chi consideri che quanto in essa prefazione è annunziato tocca materie di somma importanza, e vuole che l’arte dello scrittore, drammatico singolarmente, sia considerata nella sua più alta e più degna veduta. Trascrivo tradotti alcuni periodi.
»L’autore di questo dramma sa benissimo quanto grande e seria cosa sia il teatro. Sa che il dramma, a non voler pur uscire dai limiti imparziali dell’arte, ha una missione nazionale, una missione sociale, una missione umana. Quando vede ogni sera un popolo tanto civile ed intelligente stiparsi affoltatamente davanti una tela, ch’egli, povero poeta, deve indi a poco sollevare co’ suoi concetti, si accorge assai bene del nulla ch’egli è nel cospetto di tanta aspettazione e di tanta curiosità. E intende che quando il suo ingegno sia nulla, la probità sua dev’esser tutto. Interroga sè medesimo con severità e ponderazione intorno la filosofica importanza del suo lavoro, dacchè sente la propria responsabilità, e non vorrebbe che quella moltitudine gli avesse un giorno a domandare ragione degl’insegnamenti da lui ricevuti. Il poeta ha esso pure affidate delle anime. L’uditorio non deve uscir del teatro senza portare con sè una qualche massima di morale austera e profonda. Però si conforta, coll’aiuto celeste, di non svolgere altro mai sulla scena, salvo cose piene d’ammaestramenti e di consigli. Introdurrà volentieri il cataletto nella sala de’ conviti, la preghiera dei trapassati fra i ritornelli della dissipazione, la cappa da lato alla maschera. Lascierà alcuna volta il carnovale sventato cantare a piena gola sovra il proscenio, ma si farà ad intuonargli dal fondo della scena memento. Sa benissimo che l’arte sola, l’arte pura, l’arte propriamente detta, non domanda tutto questo al poeta; ma pensa che, nel teatro singolarmente, non basti obbedire alle semplici condizioni dell’arte.«
Non staremo a discutere la convenienza di questi principii; certo il poeta che sapesse rispettarli nella loro rigorosa interezza ricondurebbe l’arte all’antica sua dignità, e per poco non scambierebbe l’ufficio coi banditori evangelici. Una sola osservazione mi permetterò di fare, sorvolandone altre innumerevoli: dato anche l’esatto adempimento di questi severi principii per conto del poeta, è sperabile, è possibile mai, che gli strumenti tutti concorrano nella medesima perfezione? Il bel memento cantato da chi ha continue le rose del secolo sulla faccia! Ma nou è questa discussione a cui vogliamo venire coll’illustre poeta. Vogliamo domandargli come rispondano queste ottime massime della prefazione a quanto egli medesimo ha praticato scrivendo la Lugrezia Borgia. Vorremmo sapere, non quali siano i cataletti, i memento, le cappe (che questi ce li abbiamo trovati tutti in anima e in corpo), ma le massime di morale austera e profonda che devono essere portate dall’uditorio con se all’uscir del teatro, per quello che l’autore stesso ha promesso.
E l’autore stesso risponde:» prendasi la deformità morale più ributtante, la più schifosa, la più compiuta; la si metta là donde può meglio colpire, nel cuore di una donna; la si circondi di tutte le condizioni della bellezza fisica e della grandezza reale; e in tutta questa morale deformità s’infonda un sentimento puro, il più puro che la donna possa provare, quello della maternità; nel mostro mettete una madre, e il mostro vi apparirà interessante, il mostro vi farà piangere; e la creatura da cui vi arretravate inorriditi, avrà la vostra compassione, e diverrà poco meno che bella ai vostri occhi. «Ecco il concetto della Lugrezia Borgia. E sia ringraziato Dio, che questa volta non bisogna indovinare la mira dell’opera, dacchè il poeta stesso ce la dichiara tanto spiatellattamente. Ma, domando adesso primieramente, con questo dramma vuolsi fare l’apologia dell’amor materno, o indurre negli animi la compassione per le morali deformità? Prego i lettori a ricorrere le parole dell’illustre poeta, e vedere se sia irragionevole la mia domanda.
Se l’apologia dell’amore materno; il mezzo trovato è desso il più opportuno e il più degno? So benissimo che in forza dei contrasti balza all’occhio più netta una verità; ma qui le parti non hanno addentellato; la sozza libidine e la brutale ferocia della duchessa non legano punto, nemmeno per la ragione dei contrarii, col nobile sentimento che vuolsi influire nel corrotto suo animo. Nou è amalgamamento d’umori assimilativi, è vernice che potrà bene esser lucida, ma rimarrà sempre superficiale, e non sarà mai imbevuta dall’interna sostanza del corpo sul quale è distesa. L’apologia dell’amor materno l’abbiamo, a tacere esempi men noti, nell’antichissima Merope; e l’affetto paterno fu ringiovanito con arte mirabile dallo Scribe, nel Filippo. In quest’ultimo, il fallo che precede l’esercizio di un sacro dovere è di sua natura in armonia col dovere medesimo, e il poeta, a parer mio, ha qui toccato un gran punto. Ma, viva dio! nella Borgia, che ha che fare l’amore materno, con tutte le prostituzioni, e gli avvelenamenti descritte e operati nel dramma? Che ha che fare? domando, e domando a chi cerca gl’intimi legami che devono avere le parti tra loro per produrre un effetto durabile ed alto, non a chi si contenta degli apparenti. Oltre che, è egli bisogno a far sensibile la bellezza dell’amore materno il gettarlo nella pozzanghera di tutti i vizii, quasichè non avesse in sè stesso attrattive bastanti, anche messo da lato a molti altri affetti, essi pure nobili e dolci? E perchè in luogo di celebrare la colleganza di un sentimento si augusto colle più brutte passioni, colleganza che quand’anche si tenga possibile è da desiderare che non fosse, non dipingerlo quasi mercede accordata dal cielo a molte al tre virtù? Quanto è nocevole quella dottrina (parlo sempre riguardo all’arte) che insegna potersi riabbellire colle passioni un’anima dalle passioni medesime deformata; tanto utile sarebbe l’altra che inculcasse coll’efficacia delle drammatiche imitazioni doversi considerare certe virtù come premii accordati a chi ha ben meritato, anzichè come titoli a meritare. Tali virtù premiatrici esser dovrebbero appunto quelle che concorrono a promovere ogni civile felicità; di che l’anima onesta non attenderebbe più dagli uomini e dalla fortuna le ricompense, si bene dalla perfezione morale alla quale avesse saputo indirizzare i proprii affetti.
Se poi fu intendimento dell’illustre poeta di attrarre la compassione alla morale deformità, mi fo lecito domandargli ragione di questo suo intendimento. Quando gli antichi gettavano al mare le mostruosità fisiche, perchè vorremo noi accarezzar le morali? Non è ufficio del poeta abbellire ciò che vi ha di deforme nella natura morale, ma propriamente combatterlo ed estirparlo. Ora come si ottiene questo, appaiando queste deformità stesse a ciò che può avervi di più sacro ed amabile nei nostri sentimenti? — La compassione? Inspirarla per le deformità fisiche è giusto, e quindi il carattere di Quasimodo può essere per questo verso giustificato; ma per le morali? A qual pro? Con quale speranza di vantaggio pel pubblico bene? Perchè la compassione si rifletta sugl’individui? L’arte non deve mirare all’individuo, o si smarrirà dal suo nobile cammino. L’individuo nou è per essa che strumento del quale si serve a simboleggiare l’universale. Allevate gli animi nel vero amore della virtù, e li avrete fatti compassionevoli anche con chi non è virtuoso. Incominciate dal rendere compassionevole il vizio, e le passioni affonderanno più sempre le radici nel cuore, e voi avrete giovata la mostruosa loro vegetazione.
Dopo il detto finora, mi accorgo di non aver toccata che sola una parte dell’argomento, ma facciano gli altri sulle altre parti quello che io feci su questa, se pure la guerra mossa ai Titani non sembra ingiusta. E il farò forse io medesimo se mi venga altra volta in acconcio. In tanto non si confonda l’artista coll’arte; non si trascinino a particolari conclusioni le massime generali; non si attribuisca al cuore ciò che è dell’ingegno; e soprattutto abbiasi sempre rispetto a chi consacra la propria vita a far prosperare quell’arti, che, sebbene neglette dalla più parte, o in mille modi avversate, cospirano pur sempre ad altissimo fine, il pubblico bene. Chi poi fosse di contrario parere a quanto ho fin qui esposto, si ricordi che uno scritto come il mio può appena accennare ciò che domanderebbe assai lungo e riposato discorso a voler essere convenientemente trattato. Ed io che ho parlato ai Titani con ingenua franchezza, e non mi sono punto sbigottito alla vista delle montagne da essi ammucchiate, ho l’animo e la persona di quel Zaccheo piccoletto, che si arrampica su per l’albero a vedere la verità quando ella passa.