Timoleone (Alfieri, 1946)/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Timofane, Echilo.

Echilo Timoleon giunge a momenti: ai soli

tuoi preghi, e miei, mal s’arrendea; null’altro
forza gli fe, che le materne istanze.
Timof. Ben so; pieghevol core egli non conta
fra sue tante virtú: ma, se varranno,
giunti all’oprar mio dritto, i dritti sensi,
oggi fia ’l dí, che il suo rigor si arrenda
a mie ragioni; o il dí mai piú non sorge.
Echilo Con quel di voi, ch’ultimo ascolto, parmi
che il ver si alberghi: eppur sol uno è il vero.
D’amistade e di sangue a te congiunto,
di riverenza e d’amistade a lui,
campo vorrei frattanto, ove ad entrambi
l’immenso affetto mio mostrar potessi.
Indivisi, deh! siate; e al senno vostro
me, mie sostanze, il cor, la mente, il brando,
deh! non vogliate disdegnar ministri.
Timof. Ben ti conosco, Echilo mio... Ma veggio
Timoleon venir: seco mi lascia,
vo’ favellargli a lungo; i sensi suoi
da solo a sol piú m’aprirá fors’egli.

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SCENA SECONDA

Timoleone, Timofane.

Timof. Fratello, al fin quí ti riveggo; in questi

Lari, pur sempre tuoi, benché deserti
duramente da te. Mi duol, che i cenni
sol della madre, e non spontanea tua
voglia, al fratel ti riconducan oggi.
Timol. Timofane...
Timof.   Che sento? or piú non chiami
fratello me? tel rechi forse ad onta?
Timol. D’una patria, d’un sangue, d’una madre,
Timofane, siam nati: a te fratello,
finora io ’l son; ma tu, fratel mi nomi.
Timof. Ah! qual mi fai non meritata, acerba
rampogna?... In qual di noi l’ira primiera
nascea? Che dico; ira fra noi? tu solo
meco adirato sei. Tu mi sfuggisti;
tu primo fuor delle materne case
il piè portasti: a rattenerti io forse
preghi non adoprai, suppliche, e pianto?
Ma tu, prestavi alle calunnie inique,
piú che a mie voci, orecchio. All’ire tue
non ira io, no; dolcezza, amor, ragioni
iva opponendo, invano. — Or vedi, in quanta
stima ti tengo: a lieta sorte in braccio
mi abbandonavi tu; quindi in me speme
anzi certezza, accolsi, che sostegno
io t’avrei nell’avversa: intanto andava
sperando ognor di raddolcirti, e a parte
pur farti entrar del mio giojoso stato...
Timol. Giojoso? Oh! che di’ tu? Deh! come ratto,
da ch’io piú non ti vidi, oltre ogni meta
scorso hai lo stadio insultator di regno!
Spander sangue ogni dí, giojoso stato?

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Timof. Ma, tu stesso, i cui giorni eran pur sempre

di giustizia splendor, lume del vero,
non m’hai tu dato di giustizia il brando?
Non mi ottenesti quel poter ch’io tengo,
de’ miei servigj in guiderdon, tu stesso?
Qual forza è dunque di destin sinistro,
che ognor nomar tirannico fa il sangue,
sparso da un sol; giusto nomar quant’altro
si dividono in molti?
Timol.   Odi. — Cresciuti
insieme noi, l’un l’altro appien conosce.
Ambizíon, che di obbedir ti vieta,
aggiunta in copia a bollentissim’alma,
che il moderato comandar ti toglie;
tal fosti, e in casa, ed in Corinto, e in campo.
Timof. Mi rimproveri or forse il don, cui piacque
al tuo saggio valore in campo farmi,
della vittoria e vita?
Timol.   Quel mio dono
era dover, non beneficio; e arrise
fortuna a me in quel punto. Or, non far ch’io
pentir men debba. Io mai guerrier piú ardente
di te non vidi; né Corinto un duce
piú valoroso mai di te non ebbe.
Ma quando poscia a cittadine risse
fu creduto rimedio, (e d’ogni danno
era il peggior) l’aver soldati in arme,
e perpetuo sovr’essi elegger capo;
se al periglioso onore eri tu scelto,
se al militar misto il civil comando
cadeva in te; non m’imputar tal fallo.
Io nol negai; ch’onta era troppa il farmi
del mio fratel piú diffidente io stesso,
che d’un concittadino altri nol fosse;
ma di te, da quel dí, per te tremai,
e per la patria piú: né in cor mi entrava

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invidia, no; sol del tuo lustro io piansi.

Timof. Mio lustro? e che? non era il tuo fors’anco?
non eri a me consiglio, anima, duce,
se tu il volevi? e s’io l’ardir, tu il senno
adopravam, di che temevi allora?
Timol. Sia che fratello, o a me signor ti estimi,
mal le lusinghe, ad ogni modo, or meco
ti stanno. — Oh! che di’ tu? sordo non fosti
a detti miei, dal fatal dí, che assunto
eri a novello insolito comando? —
Cinto di guardie il giá privato nostro
albergo: uscirne con regale pompa
superbo tu: sovra ogni aspetto sculta
di timor mista indegnazion: le soglie
di questo ostel, giá non piú mio, da infami
adulator tenersi: al ver sbandito
chiusa ogni entrata, appresentarsi audaci,
d’oro e di sangue sitibondi, in folla
delator empj; e mercenaria gente,
e satelliti, e pianti, ed armi, e sdegni,
e silenzio, e terror... Ciò non vidi io?...
E (pur troppo!) nol veggo? Esser mai questo
fero apparecchio orribile potea
il mio corteggio, mai? Ne uscii, che stanza
di cittadin questa non era; e in core,
piú ch’ira ancor, di te pietá ne trassi,
e del tuo errore, e del tuo orgoglio stolto.
Tuoi replicati falli assai gran tempo
iva scusando io stesso; e grandi, e plebe
m’udian sovente asseverar, che farti
non volevi tiranno. Ahi lasso! io vile,
io per te fatto mentitore, io m’era
della patria per te traditor quasi;
ch’io conosceva appien tuo core. Io ’l feci
per torti, ingrato, di periglio, e torre
tant’onta a me; non per aprirti strada

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a reo poter, ma per lasciartene una

al pentimento.
Timof.   E ad un tal fine intanto
scegliesti in vece mia nuovi fratelli
fra’ miei piú aperti aspri nemici...
Timol.   Ho scelto
i pochi amici della patria, in loro.
Non perch’io t’odio, perch’io lei molt’amo
son io con quelli; e per sospender forse
(poiché distor tu non la vuoi) quell’alta
vendetta giusta, che alla patria oppressa
negar non può buon cittadino. I primi
impeti regi in te frenar non volli;
pur troppo errai: per risparmiarti l’onta,
che a buon dritto spettavati, lasciai
spander sangue innocente; o se pur reo,
fuor d’ogni uso di legge da te sparso.
Troppo t’amai; troppo a te fui fratello,
oltre il dover di cittadino. Accolsi
lusinga in me, che gli odj, il rio sospetto,
e il vil terror, che a gara squarcian sempre
il dubbio cor d’ogni uom, che farsi ardisce
tiranno, a brani lacerando il tuo,
pena ti foran troppa; e sprone a un tratto
all’emendarti... Io ciò sperai; lo spero;
sí, fratello; e tel chieggio; e di verace
fraterno e in un cittadinesco pianto,
(inusitata vista) oggi la gota
rigar mi vedi; e supplichevol voce
d’uom, che per se mai non tremò, tu ascolti.
È sorto al fine il dí; giungesti al punto
infra tiranno e cittadin, da cui
o ti è forza arretrarti, o a me fratello
cessar d’esser, per sempre.
Timof.   Archida parla,
in te: pur troppo i sensi suoi ravviso!

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SCENA TERZA

Demarista, Timoleone, Timofane.

Timof. Deh! vieni, o madre; tua mercé mi vaglia

del mio fratello a piegar l’alma alquanto...
Timol. Sí, vieni, o madre; e tua mercé mi vaglia
a racquistarmi un vero mio fratello.
Demar. Voi, l’un l’altro v’amate: or perché dunque
sturbar vostra amistá?...
Timof.   La troppo austera
sua virtú, non de’ tempi...
Timol.   Il desir suo,
superbo troppo, e in ver de’ tempi degno;
ma indegno appien di chi fratel mi nasce.
Demar. Ma che? sua possa, non da lui rapita,
potria dolerti? infra la plebe vile
indistinto vorresti, oscuro, nullo
chi la patria salvò?
Timol.   Che ascolto! Oh fero
di regia possa pestilente fiato!
Come rapido ammorbi ogni uom, che schermo
non fa d’alti pensieri! Oh come tosto,
perfida voglia d’impero assoluto,
entro ogni core alligni! — E il tuo le schiudi,
madre, tu pur? Tu cittadina, desti
la vita a noi fratelli e cittadini:
né vile allora tu estimavi il nome
di cittadina: in vera patria nati,
quí ci allattasti, e ci crescesti ad essa:
e accenti tuoi fra queste mura or odo,
conveníenti al labbro stolto appena
d’oríental dispotica reina?
Timof. Madre, tu il vedi: ei tutto a mal ritorce.
Odi, fallace sconsigliato zelo,
come si fa sordo di natura al grido.

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Demar. Ma, quante volte non ti udiva io stessa

biasmar questa cittá? Guasti i costumi,
i magistrati compri...
Timol.   Or di’: m’udisti
a magistrati iniqui antepor mai
compri soldati, ed assoluto sire?
Per l’onor vostro e mio, supporti, o madre,
voglio innocente ancora; e te men tristo,
che impetuoso. A che l’oprar tuo incauto
trar ti possa, nol vedi? io dunque luce,
io fiamma or sono alle tenébre tue.
N’hai tempo ancora. Alta, sublime ammenda,
degna di grande cittadin, ti resta;
generosissim’opra.
Timof.   Ed è?
Demar.   Per certo,
magnanim’opra fia, s’ella è concetta
entro al tuo petto generoso. Or, via,
a lui l’addita.
Timol.   Il tuo poter, che reo
tu stesso fai coll’abusarne, intero
tu spontaneo il rinunzia.
Timof.   — A te il rinunzio,
se il vuoi per te.
Timol.   Tolto a chi l’hai? favella;
al tuo fratello, o ai cittadini tuoi?
Rendi alla patria il suo; né me capace
creder mai di viltá. S’altri il tenesse,
privo ne fora ei da gran tempo. Pensa,
ch’io finor teco aperti mezzi...
Timof.   Io penso,
che tormi incarco, che dai piú mi è dato,
solo il possono i piú. Forza di legge
creato m’ha; legge mi sfaccia, io cesso.
Timol. E di leggi tu parli, ove insolente
stuol mercenario fa di forza dritto?

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Timof. Vuoi dunque inerme all’ira cieca espormi,

all’invidia, alla rabbia, alla vendetta
d’Archida, o d’altri al par di lui maligni,
cui sol raffrena il lor timore?
Timol.   Armato
sii d’innocenza, e non di sgherri; e velo
del timor d’altri al tuo non far. Se iniquo
non sei, che temi? ove tu il sii, non sola
d’Archida l’ira, ma il furor di tutti
temi; — ed il mio.
Demar.   Che ascolto? Oimè! fra voi
di discordia si accende esca novella,
mentr’io vi traggo a pace? Ahi lassa!
Timof.   Madre,
con lui ti lascio. Ei, di tropp’ira caldo,
meco per or contender mal potria. —
Sia qual si vuole il parer nostro, od uno,
o diverso, dal cor nulla mai trarmi
potrá, che a te son io fratello vero.


SCENA QUARTA

Demarista, Timoleone.

Timol. Odi miracol nuovo! Ei, che la stessa

ira fu sempre; ei, che piú ch’Etna, bolle
entro il fervido cor; maestro il vedi
del finger giá: della sua rabbia è donno,
or che incomincia nel sangue a tuffarla.
Demar. Figlio, ma in ciò, preoccupata troppo,
la tua mente t’inganna.
Timol.   Ah! no: la vista
preoccupata hai tu; né scorger vuoi
cosa manifestissima e funesta.
Madre, da te lontano io vivo; e avermi
al fianco sempre ti saria mestiero,

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per farti sano il core. A te fui caro...

Demar. E ognora il sei; credilo...
Timol.   Amar tu dunque
dei, quanto me, la vera gloria. A gara
riacquistarla dobbiam noi: gran macchia
al mio fratel vo’ torre: io l’amo, il giuro,
piú di me stesso, e al par di te. Ma intanto,
tu in lui puoi molto; e il dei risolver prima
al necessario e in un magnanim’atto...
Demar. A ritornar privato?
Timol.   A tornar uomo,
e cittadino; a torsi il meritato
odio di tutti; a rintracciar le prische
orme smarrite di virtú verace;
a tornarmi fratello: ch’io per tale
giá giá piú nol ravviso. Invan lusinga,
madre, ti fai: quí veritá non entra,
s’io non la porto. Infra atterriti schiavi
vivete voi: voi, di Corinto in seno,
spirate altr’aure: all’inumano vostro
ardir quí tutto applaude: odi le stragi
nomar giustizie; i piú feroci oltraggi,
dovuta pena; il prepotente oprare,
provida cura. Del rio vostro ostello
uscite; udite il mormorar, le grida,
le imprecazion di tutti: i cuor ben dentro
investigate; e nel profondo petto
vedrete ogni uom l’odio covar, la vostra
rovina; ognun giurarvi infamia e morte;
cui piú indugia il timor, tanto piú cruda,
atroce, intera, e meritata, debbe
in voi piombar, su i vostri capi...
Demar.   Ah figlio!...
Tremar mi fai...
Timol.   Tremo per voi sempr’io.
Di me pietá, di lui, di te, ti prenda.

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A tale io son, ch’ogni sventura vostra

piú mia si fa: ma della patria a un tempo
ogni offesa a me spetta. Il cor mi sento
fra tai duo affetti lacerar; son figlio,
cittadino, fratello: augusti nomi!
Niun piú di me gli apprezza, e i dover tutti
compierne brama: ah! non vi piaccia a prova
porre in me qual piú possa. Io Greco nasco;
e, Greca tu, m’intendi. — Al fero punto
d’esservi aperto, aspro, mortal nemico,
me vedi presso; or fe prestami dunque,
finché qual figlio, e qual fratello io parlo.
Demar. Oh! qual Dio parla in te?... Farò, ch’ei m’oda,
il tuo fratello...
Timol.   Ah! senza indugio, vanne,
e il persuadi tu. S’ei piú non snuda,
e depon tosto il sanguinoso brando,
fia in tempo, spero: oggi tu puoi, tu sola,
comporre in pace i figli tuoi; con essi
viver di pubblic’aura all’ombra lieta; —
o disunirli, e perderli per sempre.