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atto secondo 121



SCENA SECONDA

Timoleone, Timofane.

Timof. Fratello, al fin quí ti riveggo; in questi

Lari, pur sempre tuoi, benché deserti
duramente da te. Mi duol, che i cenni
sol della madre, e non spontanea tua
voglia, al fratel ti riconducan oggi.
Timol. Timofane...
Timof.   Che sento? or piú non chiami
fratello me? tel rechi forse ad onta?
Timol. D’una patria, d’un sangue, d’una madre,
Timofane, siam nati: a te fratello,
finora io ’l son; ma tu, fratel mi nomi.
Timof. Ah! qual mi fai non meritata, acerba
rampogna?... In qual di noi l’ira primiera
nascea? Che dico; ira fra noi? tu solo
meco adirato sei. Tu mi sfuggisti;
tu primo fuor delle materne case
il piè portasti: a rattenerti io forse
preghi non adoprai, suppliche, e pianto?
Ma tu, prestavi alle calunnie inique,
piú che a mie voci, orecchio. All’ire tue
non ira io, no; dolcezza, amor, ragioni
iva opponendo, invano. — Or vedi, in quanta
stima ti tengo: a lieta sorte in braccio
mi abbandonavi tu; quindi in me speme
anzi certezza, accolsi, che sostegno
io t’avrei nell’avversa: intanto andava
sperando ognor di raddolcirti, e a parte
pur farti entrar del mio giojoso stato...
Timol. Giojoso? Oh! che di’ tu? Deh! come ratto,
da ch’io piú non ti vidi, oltre ogni meta
scorso hai lo stadio insultator di regno!
Spander sangue ogni dí, giojoso stato?