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atto secondo 123
invidia, no; sol del tuo lustro io piansi.

Timof. Mio lustro? e che? non era il tuo fors’anco?
non eri a me consiglio, anima, duce,
se tu il volevi? e s’io l’ardir, tu il senno
adopravam, di che temevi allora?
Timol. Sia che fratello, o a me signor ti estimi,
mal le lusinghe, ad ogni modo, or meco
ti stanno. — Oh! che di’ tu? sordo non fosti
a detti miei, dal fatal dí, che assunto
eri a novello insolito comando? —
Cinto di guardie il giá privato nostro
albergo: uscirne con regale pompa
superbo tu: sovra ogni aspetto sculta
di timor mista indegnazion: le soglie
di questo ostel, giá non piú mio, da infami
adulator tenersi: al ver sbandito
chiusa ogni entrata, appresentarsi audaci,
d’oro e di sangue sitibondi, in folla
delator empj; e mercenaria gente,
e satelliti, e pianti, ed armi, e sdegni,
e silenzio, e terror... Ciò non vidi io?...
E (pur troppo!) nol veggo? Esser mai questo
fero apparecchio orribile potea
il mio corteggio, mai? Ne uscii, che stanza
di cittadin questa non era; e in core,
piú ch’ira ancor, di te pietá ne trassi,
e del tuo errore, e del tuo orgoglio stolto.
Tuoi replicati falli assai gran tempo
iva scusando io stesso; e grandi, e plebe
m’udian sovente asseverar, che farti
non volevi tiranno. Ahi lasso! io vile,
io per te fatto mentitore, io m’era
della patria per te traditor quasi;
ch’io conosceva appien tuo core. Io ’l feci
per torti, ingrato, di periglio, e torre
tant’onta a me; non per aprirti strada