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atto secondo 127
Timof. Vuoi dunque inerme all’ira cieca espormi,

all’invidia, alla rabbia, alla vendetta
d’Archida, o d’altri al par di lui maligni,
cui sol raffrena il lor timore?
Timol.   Armato
sii d’innocenza, e non di sgherri; e velo
del timor d’altri al tuo non far. Se iniquo
non sei, che temi? ove tu il sii, non sola
d’Archida l’ira, ma il furor di tutti
temi; — ed il mio.
Demar.   Che ascolto? Oimè! fra voi
di discordia si accende esca novella,
mentr’io vi traggo a pace? Ahi lassa!
Timof.   Madre,
con lui ti lascio. Ei, di tropp’ira caldo,
meco per or contender mal potria. —
Sia qual si vuole il parer nostro, od uno,
o diverso, dal cor nulla mai trarmi
potrá, che a te son io fratello vero.


SCENA QUARTA

Demarista, Timoleone.

Timol. Odi miracol nuovo! Ei, che la stessa

ira fu sempre; ei, che piú ch’Etna, bolle
entro il fervido cor; maestro il vedi
del finger giá: della sua rabbia è donno,
or che incomincia nel sangue a tuffarla.
Demar. Figlio, ma in ciò, preoccupata troppo,
la tua mente t’inganna.
Timol.   Ah! no: la vista
preoccupata hai tu; né scorger vuoi
cosa manifestissima e funesta.
Madre, da te lontano io vivo; e avermi
al fianco sempre ti saria mestiero,