Teogonia (Romagnoli)/Prologo

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Esiodo - La Teogonia (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Prologo
Teogonia Le prime quattro essenze
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PROEMIO


Cominci il canto mio dalle Muse Eliconie, che sopra
l’eccelse d’Elicona santissime vette han soggiorno,
con i molli pie’ d’intorno alla cerula fonte
danzano, intorno all’ara del figlio possente di Crono.
Esse, poiché nel Permesso lavate han le tenere membra,
o d’Ippocrène nell’acque, oppur del santissimo Olmèo,
intreccian d’Elicona sui vertici sommi, carole
agili, grazïose: ch’è grande virtù nei lor piedi.
Di qui balzando poi, nascoste entro veli di nebbie,
muovon di notte, attorno spargendo la morbida voce,
per esaltar nell’inno l’Egíoco Giove, e Giunone
la venerabile Dea, che muove con sandali d’oro,
e la figliuola di Giove signore dell’ègida, e Atena
occhiazzurrina, e Apollo, e Artèmide vaga di frecce,
Posidóne, il Dio che cinge, che scuote la terra,
e Teti veneranda, Ciprigna dagli occhi fulgenti,
Dióna bella, ed Ebe dall’aurea ghirlanda, Latona,
Giapèto, Crono acuto pensiero, ed Aurora e Selène
lucida, ed Elio grande, e Ocèano immenso, con Gea,
con Notte negra, e tutta la stirpe dei Numi immortali.

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Quelle che canto bello d’Esiodo ispirarono un giorno.
mentr’egli pasturava le greggi sul santo Elicona,
quelle medesime Dive narrarono a me ciò ch’io narro,
le Muse Olimpie, figlie di Giove, dell’ègida sire.
25«Pastori avvezzi ai campi, gran bíndoli, pance e null‘altro,
favole molte sappiamo spacciar ch’ànno aspetto di vero;
ma poi, quando vogliamo, sappiamo narrare anche il vero».
Disser del sommo Giove cosí le veridiche Figlie;
e a me diedero un ramo di florido alloro stupendo,
30ch’io ne tagliassi uno scettro, m’infusero in seno la voce
divina, ond’io potessi cantare il presente e il futuro,
mi disser di cantare la stirpe dei Numi immortali,
e loro stesse, sempre, del canto al principio e alla fine;
ma perché mai qui sto cianciando di rupi e di quercie1?

     35Su’, dalle Muse dunque comincia, che allegran di Giove
l‘eccelsa mente, quando intonano gl’inni in Olimpo,
e dicono le cose che furono e sono e saranno,
con le parole espresse. Dal labbro alle Dive, la voce
infaticabile scorre, soave. La casa di Giove
40è tutta un riso, allorché s’effonde la voce di giglio
di queste Dive: echeggia la vetta nevosa d’Olimpo,
echeggiano le case dei Superi. Ed esse, spargendo
l’ambrosia voce, prima l’origine cantan dei Numi,
cui generò da prima la Terra col Cielo profondo:
45cosí nacquer gli Dei, che largiscono agli uomini i beni.
E Giove cantan poi, degli uomini padre e dei Numi,
e quanto egli è piú forte dei Numi, quanto è piú possente.
Cantan degli uomini poi la progenïe, poi dei Giganti.
Allietano così la mente di Giove in Olimpo
50le Olimpie Muse, figlie di Giove, dell’ègida sire:
le generava nella Pïèride al padre Croníde
Mnemòsine, che quivi regnava sui campi Eleutèri:

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ed esse dànno oblio nei mali, e riposo dai crucci.
Con lei Giove dal sonno profondo s’uní nove notti.
55salendo — e nulla i Numi ne seppero — il talamo sacro.
E quando un anno poi fu trascorso, e tornâr le stagioni,
furon distrutti mesi, compiuti molteplici giorni,
essa, non molto lungi dai picchi nevosi d’Olimpo,’
nove fanciulle die’ a luce, di mente concorde, che tutte
60amano il canto, e scevro d’affanni hanno il cuore nel petto.
Intreccian quivi molli carole, quivi hanno le case;
e presso hanno soggiorno le Grazie e il soave Desio,
sempre in diletto. Ed esse, l’amabile voce effondendo,
cantan di tutti quanti le leggi, ed i santi costumi
65dei Numi, alte accordando le voci dolcissime al canto.

     Mossero allora all’Olimpo, levando l’ambrosie canzoni
liete di loro voci. D’intorno echeggiava a quell’inno
la negra terra, ed era soave dei piedi la romba,
mentre moveano al padre Croníde signore del cielo,
70che regge il tuono in pugno, che regge la folgore ardente,
poscia che il padre Crono domò con la forza, e a ciascuno
degli Immortali assegnò, con equa ragione, gli onori.

     Cosí cantâr le Muse che hanno soggiorno in Olimpo,
le nove figlie nate da Giove signore possente,
75Tersícore, Polímnia, Melpòmene, Urania, Talía,
Euterpe, Erato, Clio, Callíope: è questa fra tutte
egregia, essa dei re venerandi mai sempre compagna.

     Quello dei re nutriti da Giove, cui rendono onore,
cui miran, quando nasce, le figlie di Giove possente,
80a cui versano sopra la lingua una dolce rugiada,
e le parole di bocca gli sgorgan piú dolci del miele,
guardano quello tutte le genti, quando esso le leggi
parte con equa giustizia: quand’egli securo favella,

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súbito seda con saggia parola una rissa anche grave.
85Per questo i saggi re ci sono: perché, quando incombe
dànno sui popoli, sanno con miti, con sagge parole,
in assemblea, di leggeri, parlando, rivolger le sorti.
Se fra le genti va, l’onorano al pari d’un Nume,
con reverenza grande: ch’ei muove fra tutti distinto.
90Il sacro dono è questo che porgon le Muse ai mortali,
ché, per voler delle Muse, d’Apollo che lungi saetta,
cantori e citaristi divengono gli uomini in terra,
i re per volontà di Giove. Beato il mortale
caro alle Muse: a lui fiorisce dai labbri la voce:
95e, pur se alcuno ha cruccio nel cuore per lutto recente,
se di cordoglio ha pieno lo spirito, quando il cantore
ministro delle Muse, le gesta degli uomini antichi
canta, e i beati Celesti che reggon d’Olimpo le sedi,
súbito le sventure dimentica, piú non ricorda
100i lutti: e delle Dive ben presto lo svagano i doni.

     Figlie di Giove, salvete, l’amabile canto a me date;
e celebrate la stirpe dei Numi che vivono eterni,
che nacquer dalla Terra, dal Cielo gremito di stelle,
e dalla buia Notte: nutriti altri furon dal mare.
105E dite come prima la Terra ebbe origine, e i Numi
nacquero, e i Fiumi, e il Mare che irato si gonfia, infinito,
e sfavillanti gli astri nell’alto, e l’amplissimo Cielo.
E come i Numi nacquer da loro, datori di beni,
e come fêr dei beni le parti, ed ottenner gli onori,
110e come ebbero prima l’Olimpo dai molti recessi.
Ditemi questo, o Muse, che avete dimora in Olimpo,
sin dall’origine, dite chi primo di lor venne a luce.

Note

  1. [p. 279 modifica]È un verso che ha dato e dà molto da fare agli interpreti. Pare che «cianciar di rupi e di querce» fosse una espressione simile, su per giú, alla nostra «menare il can per l’aia». Viveva fra gli antichi la credenza che i primi uomini fossero nati appunto da rupi e da querce. Quindi l’espressione proverbiale; parlar di rupi e di querce: 1) per chi narrando un fatto si rifacesse sempre dal principio, 2) per chi divagasse.