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XXXIV.

«Come avevo presentito, perdendo il babbo perdetti anche Gualfardo.

«Egli vegliò il cadavere, ordinò i funerali e mandò una carrozza a prendermi per la messa di requie; tutto ciò senza che io lo vedessi. Poi terminato quel doloroso compito se ne andò, e non lo rividi più.

«Ero in una specie d’apatia. L’isolamento pesava su me, mi gelava il cuore. Non pensavo nulla. Mi sentivo sola e profondamente infelice.

«Mi erano rimaste nella mente quelle ultime parole scritte da Gualfardo, che interpretavano pure l’ultima volontà del povero babbo:

«Non uscite dalla vostra camera.»

«Mi pareva che non dovessi uscirne più; che dovessi passare il resto de’ miei giorni solitaria ed inerte in quei dodici metri quadrati di spazio, per obbedire a due ordini egualmente sacri.

«Non ricevevo nessuno. La serva mi recava continuamente delle lettere. Ne avevo aperte alcune sbadatamente e ci avevo trovato una carta da visita colle iniziali P. C. scritte a mano.

«Quella formola per condoglianza, che ricorreva [p. 188 modifica]persino ad un’abbreviazione per sbrigarsi più presto da un dovere di società che non aveva nessun lato piacevole, mi parve uno scherno al mio dolore, mi irritò; e d’allora a misura che la serva mi recava quelle buste le gettavo sulla tavola senza aprirle.

«Non so quanto tempo rimanessi così, muta, triste, isolata nella mia camera. Forse qualche settimana appena, forse pochi giorni. Ma nella mia memoria quel tempo occupa uno spazio grande, mi pare di esserci rimasta un anno.

«Un giorno la serva entrò con una lettera. Io la presi e la gettai sulla tavola.

«Ma no. Ella tornò a darmela. Bisognava che io la leggessi; l’aveva recata un signore, che stava aspettando la risposta.

«— Chi è? domandai.

«La serva non lo sapeva. Era già venuto due volte, ed essa non l’aveva introdotto, dicendogli che io non ricevevo ancora. Ora era tornato con quella lettera, ed attendeva ch’io gli facessi dire una parola.

«Lessi la lettera. Era dell’agente teatrale che mi aveva proposto la scrittura per Nuova-York. Aveva aspettato a lungo la mia decisione in proposito. Non ricevendola era venuto per vedermi; alla porta gli avevano detto che il mio babbo stava male; che io non abbandonavo più la sua camera.

«Aveva compreso che in quel momento non po[p. 189 modifica]tevo pensare ad altro, e, nella necessità di fare la compagnia, aveva scritturata un’altra donna.

«Ma ora, al momento di partire, quella signora s’era ammalata alle tonsille, ed il medico le aveva consigliato un lungo riposo, se non voleva perdere affatto la voce.

«Per questo egli, informato della mia disgrazia che mi lasciava nell’isolamento, veniva a proporre ancora a me quella scrittura ridivenuta disponibile. L’arte potrebbe distogliermi da’ miei tristi pensieri, ecc., ecc.

«In realtà mi sentivo sola ed infelice. Il babbo e Gualfardo, le due grandi affezioni, e le sole che mi legassero a Torino, erano entrambe perdute per me.

«L’amore dell’arte non mi parlava punto al cuore in quelle ore di sconforto.

«— Ma se potessi ancora trovarvi un interessamento, — pensai. — Se potessi ancora appassionarmi di qualche cosa, dare uno scopo alla mia vita!

«Non istetti a riflettere un istante di più. Feci entrare l’impresario. Firmai la scrittura, e gli promisi d’essere pronta a partire fra dieci giorni.