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XXIX.

«Per tutti i vizi che la morale condanna, per tutte le colpe che la legge punisce, dovrebbe essere espiazione sufficiente la tortura morale che io soffersi quel giorno. Mi sentivo avvilita in faccia a Gualfardo; sentivo ch’egli aveva diritto di sprezzarmi, e ne piangevo con tutta l’amarezza del mio cuore. Pensavo:

«— Questa sera, o mi darà un bacio, come soleva [p. 150 modifica]prima che partissi, ed io dovrò renderlo, — io che l’ho tradito, — fare la parte di Giuda, piegarmi all’onta della finzione. O non mi darà il solito bacio, ed allora vorrà dire che sa tutto, che non si considera più mio fidanzato, ma ha bastante fede nella mia lealtà per aspettare che gli faccia io stessa la confessione che gli debbo.

«Ed allora pensavo seriamente a quella confessione. La dovevo io realmente? Non avevo ricusato di sposare Max per evitarla? Ed ora perchè la farei? Max non era che un amico per me.

«Sì, ma un amico che ero andata a vedere segretamente; un amico da cui aspettavo una lettera con tutta l’ansietà del mio cuore.

«Ed un istante sentivo di dovere aprir l’animo mio a Gualfardo ad ogni costo.

«Poi andavo alla finestra, guardavo un poco la gente, pensavo che, forse, neppur la metà di quelle signore che avevano marito, nutrivano per esso un sentimento più caldo dell’affettuosa stima ch’io aveva per Gualfardo. Che, forse, una gran parte di esse avevano amato un altro prima di sposar quello, che se ne ricordavano ancora; eppure non erano meno buone mogli, ed i loro mariti non erano infelici per questo; e nessuno faceva a quelle donne una colpa dei loro sentimenti combattuti; nessuno le disprezzava. Ricordai parecchie signore ch’io conosceva in quelle [p. 151 modifica]identiche circostanze; erano signore ammodo, cui il mondo non faceva la menoma eccezione, il menomo rimprovero.

«Allora le mie idee presero un altro indirizzo.

«Certo io ero troppo scrupolosa. Infine mi ero contenuta decorosamente con Max; egli sapeva il mio impegno; tra noi non s’era parlato che d’un sentimento fraterno. Io non avevo tradito i miei doveri verso Gualfardo. Ero ancora degna di lui. D’altra parte, quanti giovani avevo io conosciuti mentre cantavo? Quanti m’avevano corteggiata? Quanti m’avevano parlato con meno riserbo di Max? Io non li avevo lusingati, avevo respinto il loro amore. Precisamente come avevo fatto con Max. Forse che pensavo di fare a Gualfardo la cronaca di quelle galanterie? Nemmeno per ombra. E perchè dovrei farmi un dovere di narrargli la mia relazione con Max? Perchè gli altri li avevo respinti senza soffrirne, e Massimo lo avevo ricusato con dolore? Ma questo non era che un merito di più.

«Poi vennero le penombre della sera. Non vidi più la gente in istrada. Non vidi più nulla intorno a me; ed allora guardai nella mia coscienza.

«E vidi che tutto ciò era sofisma per ischermirmi da un dovere penoso. Vidi che la mia colpa non stava nel sentimento involontario ch’io provavo per Max, ma nelle piccole ipocrisie d’amicizia con cui [p. 152 modifica]lo alimentavo; in quella specie di compromesso col mio dovere, con cui cercavo di ricusare il suo amore, e di serbarlo vivo al tempo stesso; di mantenermi in dolci rapporti con lui, senza spezzare il mio vincolo con Gualfardo, che per una cara abitudine si era immedesimato colla mia esistenza; e da cui non avevo il coraggio di sciogliermi.

«In realtà io non desideravo di sposar Max. Egli aveva un grande ingegno, una posizione agiata, un avvenire largo di promesse, una salute fiorente, una maschia bellezza, e tutte quelle attrattive di parola, di voce, di modi, di eleganti cognizioni, che guadagnano tutte le simpatie, che aprono tutte le porte.

«Un uomo così, nel matrimonio ha tutto a dare, nulla a ricevere. Per farmi sua moglie avrebbe dovuto sacrificarmi la sua libertà. Farmi vivere colle sue rendite ed i suoi guadagni, perchè la sua carriera legale sarebbe stata inconciliabile colla vita girovaga di un’artista. E poi egli non avrebbe avuto alcun bisogno di farmi continuare a cantare. Per adattarsi alla vita di famiglia avrebbe dovuto far violenza al suo carattere gioviale, brillante; alle sue abitudini chiassose e disappensate; imporsi una gravità, una monotonia, un ordine d’esistenza a cui non era punto inclinato, e che gli avrebbero costato un vero sacrificio.

«Ed io, cosa avrei potuto dargli in compenso di [p. 153 modifica]tutto codesto? Il mio amore. Ma quante donne potevano dargli altrettanto, e per di più censo, bellezza, ingegno...

«Decisamente nel matrimonio a lui sarebbe toccata la parte bella della generosità; a me quella umiliante dell’egoismo. Ecco perchè non desideravo di sposare Max.

«Invece Gualfardo era avviato alla stessa mia carriera del teatro. Non guadagnava più di me; e non poneva nessun ostacolo a che io continuassi a cantare, e contribuissi quanto lui e più di lui alla vita comune.

«Egli pure aveva molto ingegno; a lui pure sorrideva la gloria, ma la stessa gloria, lo stesso ingegno che sorridevano a me. Eravamo pari. E poi egli era taciturno, serio, compassato; non attirava le simpatie. Ed era quindi più in grado di apprezzare il mio affetto. Era delicato di salute e misantropo, due cose che creavano a lui il bisogno della famiglia, a me la gioia e l’orgoglio di fargliene sentire i vantaggi.

«Per tutte queste ragioni io mi spaventavo all’idea di perdere l’amore di Gualfardo, malgrado la libertà che mi risulterebbe da quella perdita.