Tempesta e bonaccia/XXIII
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XXIII.
«Giungemmo a Milano sull’imbrunire. Bisogna aver provato a sentirsi un simile inganno sulla coscienza, per comprendere l’angoscia di quel momento. Non mi ero premunita, come le donne da commedia o da romanzo, di un denso velo per coprirmi il volto. Faceva un caldo soffocante; ero vestita di chiaro, con un cappello tondo. Chiunque m’avesse veduta una volta poteva riconoscermi. Allo scalo c’era un mondo di gente coll’occhio intento ai nuovi arrivati, per cercare fra essi le persone che aspettavano.
«Mio Dio! Mi pareva che tutti quegli occhi fossero là per me sola; che tutta quella gente non avesse altro affare a questo mondo che di domandarsi a vicenda perchè io giungessi a Milano, e che vi cercassi se non Max; e perchè lo cercassi dacchè avevo un fidanzato.
«Non potevo capire che i facchini gridassero forte i numeri dei colli, nel distribuire le merci, ed i conduttori d’omnibus e di carrozze facessero tanto chiasso, mentre io giungevo con tanto mistero. Mi pareva che tutti avessero a star zitti, ed a camminare in punta di piedi, ed a sgusciar via al più presto, come feci io.
«Entrammo in una carrozza da nolo; non osai entrare nell’omnibus dell’albergo, per non esser veduta. Mi pareva di non aver diritto di essere a Milano; e che ogni primo venuto potesse ricordarmelo. Si passò in via della Spiga per condurre la contralto da’ suoi parenti, poi per la via Gesù, Monte Napoleone, via Pietro Verri, e piazza Belgiojoso, mi feci condurre all’Albergo della Bella Venezia. Non avrei mai avuto il coraggio di affrontare gli sguardi dei camerieri dell’albergo di Milano. Non c’era mascalzone sulla terra, in cui non vedessi un giudice, e dinanzi a cui non chinassi la fronte.
«Massimo non seppe e non saprà mai che immenso sacrificio io gli abbia fatto, e quanto quella follia sia costata al mio cuore.
«Avevo preparato a Firenze un biglietto per avvertirlo del mio arrivo, e lo avevo impostato allo scalo. Non c’era caso che egli si alzasse avanti la prima distribuzione della posta. Così il mattino seguente alle otto avrebbe la mia lettera.
«Non mi fu mai possibile di tener conto, ne’ miei calcoli, del tempo che impiegherebbe il fattorino a recarsi da Max, ed egli a vestirsi ed a venire da casa sua all’albergo — dalla via del Cappuccio alla piazza S. Fedele — circa un chilometro di strada. Alle otto si cominciava la distribuzione delle lettere; e mi pareva che alle otto Max busserebbe alla mia porta.
«Tutta notte vegliai, angosciata dalla paura di non destarmi abbastanza presto per essere in ordine a quell’ora mattutina. Alle sei mi alzai senz’aver chiuso un occhio. Alle sette ero vestita per ricevere. Con un’ora dinanzi a me, guardai trenta volte l’orologio e feci dei calcoli infinitesimali, per persuadermi che avevo il tempo di prendere il caffè prima che Max venisse. Ordinai quella bibita con tanta premura che dovettero credere che mi prendesse male. Poi m’inquietai che non fosse lì subito, e nel tempo che il cameriere impiegò a scendere le scale e risalire, mi pentii dieci volte di aver dato quell’ordine, e mi spaventai all’idea d’essere scoperta da Max prendendo il caffè, come non so di che umiliazione. Appena fu recato il vassoio, dissi al cameriere di aspettare, ed afferrata la tazza ingollai tutto il caffè bollente in un fiato, bruciandomi la bocca e lo stomaco, e rimandai tosto il servo col corpo del delitto.
«Non erano che le sette e mezzo. Ancora mezz’ora, mezzo secolo da aspettare!
«Andai allo specchio e rifeci toletta; mi ravviai i capelli, rilavai le mani, ecc. Finalmente sentii il primo tocco delle otto. Era come se Max avesse bussato. Gettai alla rinfusa tutti gli oggetti da toletta nella scatola senza prendere un minuto per ordinarli; e prima che l’ottava ora fosse suonata, corsi a sedermi sul sofà, come se me ne restasse appena il tempo.
«Oh Dio! Le ore avevano cessato di suonare, e Max non era ancora giunto; ed il mio uscio rimaneva chiuso. Ne ero sbalordita come se da quell’uscio avessi veduto entrare la guglia del duomo.
«Là, immobile su quel sofà, coll’occhio intento e l’orecchio teso, rimasi ore dopo ore, e ad ogni passo di cameriere che saliva le scale, il mio cuore si mettava a ballare una pazza tarantella. S’è molto scritto sul senso di divinazione dell’amore che ci fa riconoscere il noto passo della persona amata; ma in realtà codesto si riduce ad una questione di scarpe. Quelle di Massimo scricchiolavano quand’ero a Milano. Supposto che le avesse cambiate, addio noto passo; non l’avrei riconosciuto più. Intanto scricchiolavano tutte le scarpe dei servitori, e, se non ne presi un aneurisma, è un fenomeno da notare negli annali della medicina.
«Passò il mezzogiorno, ed un’ora, e le due, ed ero sempre sola. Non c’era pensiero desolante che non mi venisse in mente.
«Max era innamorato d’un’altra e non pensava più a me. O aveva rinnovata la sua relazione colla marchesa Vittoria, e stava a Monza nella villa di lei, e non aveva nemmanco idea della mia lettera e del mio arrivo. O la lettera l’aveva ricevuta, sì; ma giudicava la mia condotta severamente; come meritava. Gli sembravo un’avventuriera, una donna senza decoro ad andarmene così di città in città per dare appuntamento ad un giovinotto in una camera d’albergo. E non si degnava neppure dì venire a porgermi la mano. Era un rimprovero, una lezione.
«E quest’idea era la più insistente, la più terribile. Mi pareva di vedermi dinanzi la bella figura tanto dignitosa di Gualfardo, fissarmi con uno sguardo di sprezzo, che mi trafiggeva il cuore.