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XXIII.

«Giungemmo a Milano sull’imbrunire. Bisogna aver provato a sentirsi un simile inganno sulla coscienza, per comprendere l’angoscia di quel momento. Non mi ero premunita, come le donne da commedia o da romanzo, di un denso velo per coprirmi il volto. Faceva un caldo soffocante; ero vestita di chiaro, con un cappello tondo. Chiunque m’avesse veduta una volta poteva riconoscermi. Allo scalo c’era un mondo di gente coll’occhio intento ai nuovi arrivati, per cercare fra essi le persone che aspettavano.

«Mio Dio! Mi pareva che tutti quegli occhi fossero là per me sola; che tutta quella gente non avesse altro affare a questo mondo che di domandarsi a vicenda perchè io giungessi a Milano, e che vi cercassi se non Max; e perchè lo cercassi dacchè avevo un fidanzato.

«Non potevo capire che i facchini gridassero forte i numeri dei colli, nel distribuire le merci, ed i conduttori d’omnibus e di carrozze facessero tanto chiasso, mentre io giungevo con tanto mistero. Mi pareva che tutti avessero a star zitti, ed a camminare in punta di piedi, ed a sgusciar via al più presto, come feci io.