Sull'incivilimento primitivo/Parte XII

Parte XII

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Parte XI

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XII.


Ora, tornando donde partimmo, dico che una grande analogia esiste fra i monumenti italiani primitivi e quelli arcaici dell’Indo-Cina, dell’Egitto, [p. 44 modifica]della Grecia e del Messico, e questa analogia dall’arte maggiore, che è l’architettura, discende a rivelarsi fino alle minori gentili e leggiadre, trovate negl’ipogei e nei sepolcri italici, e sono nei monili, nelle bulle, nelle collane, nelle gemme e corone. Per dire ora dell’architettura, inutil cosa sarebbe, e lontana dal mio assunto, il farti una completa descrizione di cotesti monumenti, ma se getterai uno sguardo sulle vedute che rappresentano le ruine pelasgiche di Segni, di Alatri e di Palestrina, e comparerai queste a quelle delle città arcaiche etrusche, a quelle dell’acropoli di Atene, delle ruine assire, delle tombe egiziane, dei templi antichissimi indiani e cinesi, ed infine degli avanzi dell’antico Messico, dovrai pienamente convenire sulla loro similitudine e sull’identicità del sistema di lor costruzione. Sono esse formate da enormi masse di pietra sopraposte ed unite le une sulle altre senza cemento; si reggono per combaciamento e per contrasto, ed anche adesso, dopo tanti secoli che ci sono passati sopra, ci trovi tanta solidità quasi quanta ne ebbero quando cominciarono, a sfidare da oltre tre millenni le tempeste, i terremoti, l’azione distruggitiva degli anni e la mano devastatrice dell’uomo, e sembrano destinate a vivere quanto il tempo; e sebbene spesso sieno mostrate qual esempio di bellezza e come una perfettibilità di lavoro, non furono mai sorpassate dalle opere dei tempi posteriori. Nel vedere così sviluppata l’arte delle costruzioni in quei remotissimi tempi, potrebbe mai supporsi che fossero popolazioni rozze e non civilizzate quelle che tanto facilmente [p. 45 modifica]mossero immense moli per soprapporle a grandi elevazioni, senza esser soccorsi dalle più raffinate risorse dell’architettura e della meccanica? Nell’osservare sempre riprodotto tal sistema gigantesco nelle opere delle più arcaiche costruzioni, si credette essere tal fatto uno dei prodotti della invadente civiltà orientale, ma io faccio una semplice osservazione: Agrola ed Iperbio che in Grecia costruirono le mura dell’acropoli di Atene erano italiani; abbiamo noi alcuna memoria che ci dica esser d’Oriente i costruttori delle principali ruine d’Italia? D’altronde furono i Tirreni quelli che eseguirono i grandiosi lavori dell’arginatura dei fiumi e dei canali lombardi e che tolsero alle acque quelle ridenti pianure con lavori colossali sempre ammirati; ora io dico, come potrebbero essersi compiute quelle grandi operazioni, come terminare quelle immense costruzioni senza un tale sviluppo dell’umano scibile che a lor insegnasse a conoscer profondamente le proprietà fisiche della terra, e le scienze esatte per poter calcolare il corso delle acque, la spinta delle masse, le leggi dell’equilibrio, le proprietà tutte infine dell’idrometria?

Noi vedemmo che i Tirreni, a detta dei Greci stessi loro acerrimi detrattori, erano nati per compiere le più ardite navigazioni; dovettero dunque conoscere le scienze astronomiche almeno per poter dirigere i loro triremi senza la bussola e le altre moderne invenzioni; doveano avere qualche sistema di geografia per potersi bene orizzontare pur solo nel lago tirrenico. Conoscendo queste scienze poterono dunque ben sapere cotesti popoli italici quali [p. 46 modifica]fossero le basi dell’arte delle costruzioni; ora se questi abilissimi uomini ci si presentano quali fantasmi nelle dense nebbie del passato, e furono tanto maledetti dal cielo fino a perder, coll’indipendenza e la libertà, la lingua e la memoria loro, sarà questa una ragione tanto possente da farci disconoscere ed obliare le belle opere che di lor ci restano per relegarne la storia quasi fra i racconti orientali delle Mille ed una notte? Se tu, lettore, nascesti in Italia, goderai che io ti rammenti che essi furono una gloria della nostra patria; e dovrai dire che non è utopia l’affermare che furono questi nostri padri e sapienti fondatori dell’incivilimento europeo che nei suoi primordi ritroviamo tanto uguale sotto ogni quadratura di cielo.

L’eguaglianza di questa civiltà è tanto più facile a comprendersi nella comparazione di piccoli oggetti, quali sono gli adornamenti muliebri e dei guerrieri, fatti con i preziosi metalli. Infatti i gioielli che le moderne scoperte cavarono dalle tombe antichissime ci fanno scorgere che presso quelle nazioni, a cui noi supponiamo giunto l’incivilimento italico, l’oro era lavorato si accuratamente che la materia non vince il pregio del lavoro; gli oggetti sono costrutti con un sistema analogo e costante; pria la forma dell’oggetto è adattata all’uso a cui era destinato e poscia le varie sue parti sono ornate con isquisito gusto artistico in lievissimi pezzi che per isvariatissimi meandri, per elegantissime figure geometriche, e per curiosissime combinazioni presentano i più graditi effetti. Però benchè egual lavoro in genere si osservi nei gioielli italiani, greci, egizi e [p. 47 modifica]messicani, lavoro che vediamo riprodotto negli indocinesi e persiani antichi, pur indubitatamente dovremo convenire che le più belle e sviluppate forme sempre ti si presentano ove maggiore fu la civiltà. I bellissimi saggi, or son pochi mesi trovati a Preneste (oggi Palestrina) da un povero scavatore chiamato Persicolo, in una tomba di un guerriero coperto di armatura con collare e armille, ora da noi posseduti; quelli scoperti a Ninive dall’egregio Layard, e quelli dischiusi dalle piramidi egizie dall’infaticabile Mariette, hanno tale rassomiglianza di lavoro e di disegno, da far difficilmente comprendere donde l’uno o l’altro provenissero, e sol riscontro hanno cogli ornati dei vasi e con gli ori invenuti nelle tombe più arcaiche dell’antica Etruria, quali son cognite come le appartenenti alla prima epoca etrusca o antietrusca, e sono i più belli. I magnifici esemplari poi trovati nelle tombe ricchissime di Chiusi, Bolsena, Canino e Corneto hanno il riscontro in quei scoperti nella Crimea e nella Magna Grecia e segnalano un’epoca tanto differente da quell’arcaica e così ben demarcata, da non lasciare alcun dubbio sul legame che pur univa cotesta seconda civiltà a noi tanto incognita quanto la prima. Lo studio di questi lavori e la diversità dei paesi a cui essi appartenevano ingenerò in me il desiderio di conoscere a chi fosse debitrice la società di quei belli saggi; come non dovea sospettare che dovea esistere un bandolo che allacciasse tutte le arti e le scienze antiche?

Da questo studio fui convinto che due ipotesi si presentano: o furono gli Orientali che portarono le arti e le scienze in Occidente; oppure furono i [p. 48 modifica]Pelasgi Tirreni che ne arrecarono all’Oriente. È sol questione di un’inversione, mentre la strada ne resta sempre la medesima. Bisogna osservare che la vera civiltà non è verisimile venisse ab antico coi primi popoli emigranti dall’Asia, ma che piuttosto in Occidente sviluppò donde fu diffusa, e l’Oriente la ebbe di ritorno. L’uomo venne per terra dall’Oriente in Occidente, la civiltà si fece marina per poter ritornare dall’Occidente all’Oriente.

Intendo di aver parlato bastantemente in tal soggetto esponendo la mia opinione con un ardire che poco si confà al caso di aver molti da parte avversa che non san distaccarsi dalle preconcette idee e dal consentimento dei più. Protesto di non aver detto quanto richiederebbe l’argomento, perchè solo mio scopo fu di stendere una memoria per invitare i dotti italiani a studiare e scrivere sulle antichità italiche, e perchè mi parve che la scuola patria ha buoni fondamenti di ragioni. Con questo non dico che chi scrive debba ispirarsi dalla vanità nazionale come i dottissimi Müller e Niebuhr, che trattando de’ Pelasgi gli fecero Germani, e Freret e Thierry gli fecero Galli. La sapienza è universale e non ha per patria nè un municipio nè una nazione; tuttavia riandandone la storia, se trovi che accrescono le glorie nazionali, usa carità di patria lo scrittore che cerca rischiarare le glorie della nazione, non già di offuscarle. In Italia corre da qualche tempo un vezzo contrario, tenendo per indubitati i giudizi della scuola germanica, e fraudando senza riguardo i nostri maggiori delle lodi che meritarono. Anzi se tu ti mostri [p. 49 modifica]un po’ tenero delle glorie passate ti motteggiano e chiamano pedante. Adunque mentre fuori è invalsa la smania d’illustrare l’antichità, in Italia la moda comanda di mettere in deriso gli antichi e stimar poco i presenti. Per me, che non vado colla moda, stimo gli uni senza scapito dei moderni e chiamo l’Italia la più benemerita delle nazioni.