Sui monti, nel cielo e nel mare/Lettere dal mare/Sott'acqua
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Giugno.
Il sommergibile «V.L.A.» naviga a venti metri di profondità sotto ad una probabile rotta del nemico. È disceso di colpo, per provarsi, ed ora va lentamente fra due acque, aspettando.
È abituato alle lunghe pazienze. Sembra pieno di sonnolenza. Per le solide porte delle paratìe aperte lo sguardo corre da un capo all’altro del battello illuminato. È un corridoio stretto, ingombro, bizzarro, afoso e senza fine. Si prolunga smisuratamente fino a delle incertezze di ombre, per uno stravagante effetto di prospettiva prodotto dall’affusolarsi della sua sagoma. Si intravvedono degli uomini che fanno pigri gesti sotto al riflesso di lampade lontane. Si muovono con una specie di cautela, incastrati fra luccicori di meccanismi. Si curvano sulle dinamo massicce, passano lente carezze sulle complicazioni dei motori a nafta, le cui oleose batterie di cilindri tramandano ancora l’odore caldo e greve della loro fatica.
Verso la prora biancheggiano delle cuccette. Dalla estrema punta arriva un tintinnìo di stoviglie: qualcuno mette dell’ordine nella dispensa. I torpedinieri conversano a bassa voce seduti sulle svasature delle parti curve, vicino alle culatte dei tubi di lancio carichi. Uno di loro, in piedi sotto alla lampada, legge un vecchio giornale. Un altro sonnecchia nell’ombra, accoccolato a fianco di un siluro di riserva. La lucida caffettiera elettrica, dopo aver servito, si raffredda sopra una mensola, ed esala ancora un buon aroma di caffè, un profumo di sveglia mattinale.
Agli ordini che la voce pacata del comandante lancia, pare che nessuno obbedisca, tanto il gesto è breve e pronto. Lo scatto di un commutatore, il grido di una ruota, e il battello devia, sprofonda, risale, accelera il suo moto, sosta, riparte. Per qualche istante si è appunto fermato.
Ascolta se delle eliche tumultuano nelle vicinanze. La presenza di una nave può essere udita sott’acqua a molte centinaia di metri. Ora il «V.L.A.» si avvia verso la superfice. Va a dare un’occhiata sul mare. Ma qualunque sia la sua manovra, persiste l’illusione opprimente di una irrimediabile immobilità. È l’indicatore della profondità che descrive l’ascesa. Sulla sua grande mostra da orologio, una lunga sfera numera i metri. Passa lentamente dal venti al quindici, dal quindici al dieci, e il timoniere che muove gli stabilizzatori segue la sua corsa cifra a cifra, getta di tanto in tanto rapide occhiate ad altri strumenti vicini, che dicono l’inclinazione dei timoni e del battello, e imprime rapidi giri alla ruota timoniera, dei colpi di previsione, abili e precisi. Perchè il sommergibile è come una bestia docile ma lenta a capire; non ubbidisce immediatamente. Non si può aspettare che abbia raggiunto la profondità voluta per fermarvelo; va fermato assai prima. Esso segue gli impulsi ricevuti, continua a scendere o a salire; se si tardasse troppo a richiamarlo quando affonda, scivolerebbe negli abissi da cui non si ritorna. Certe catastrofi dei primi tempi della navigazione subacquea furono dovute a questa terribile pigrizia. Va comandato sempre con anticipazione. Per guidarlo bisogna sentire d’istinto gli effetti della sua inerzia, e si arriva a condurlo senza l’errore di un decimetro.
Il «V.L.A.» risale. Le mani appoggiate ai manubri orizzontali che servono a girare il periscopio, il comandante si prepara all’esplorazione. Intorno a lui, nel piccolo settore di manovra, affluiscono tutte le arterie del battello; ogni macchina viene a porgersi per lunghe trasmissioni al controllo centrale. Intrecci di tubi, reti di cordoni, fasci di fili, si allacciano a interruttori, a manovelle, a ruote, a chiavi, a manometri, a segnalatori, e in mezzo a questa formidabile anatomia di metallo, nel centro dell’organismo favoloso e palpitante, un cervello: l’uomo.
L’asta del periscopio affiora. Il comandante si china sulla lente, e un riflesso del giorno lontano accende il suo occhio. È sorto il sole sul mondo. Il mare si distende luminoso nella fresca serenità del mattino. La riva è apparsa a levante, alta, oscura, rocciosa, truce. Un villaggio, candido come un paese arabo, sgrana giù per tetri dirupi l’armento pittoresco delle sue casette. Alte montagne dai profili scoscesi si affacciano diafane nella distanza. Alcune isole lunghe e brune navigano verso tramontana. Non una vela, non un pennacchio di vapore sul mare, che appare attraverso al periscopio come a chi sollevasse la testa a raso d’onda.
Si vede l’acqua che si agita intorno, vicina, e si è sorpresi di non sentirne il rumore. Essa è muta. La visione ha qualche cosa di soprannaturale che inquieta. Si è turbati vagamente dal senso di una solitudine impossibile: la solitudine nella quale non si esiste. L’uomo sperduto in un deserto, intravvede sè stesso, scorge lo scorcio del proprio corpo: al periscopio non c'è che la visione del mare. È il mare contemplato dall’uomo invisibile. Si è impalpabili sull’acqua. Si è trasformati in un occhio che si libra, in uno sguardo magicamente sospeso sopra un pallido mondo di silenzio.
Ecco che il mare improvvisamente sale, l’onda si gonfia, si avvicina alla pupilla prodigiosa, si avventa, opprime, accieca, seppellisce, e tutto scompare in un turbine azzurro: il periscopio si è riimmerso.
Esso non fa che delle brevi apparizioni. Quando spunta sull’acqua volge intorno una occhiata rapida: non può vedere che in una direzione e vuol esser subito sicuro di quello che c’è intorno. Se la presenza di un sommergibile è segnalata, le torpediniere vanno quatte quatte, con i cannoni pronti, ad aspettare che affiori a guardare. Esso è un cieco che ogni tanto apre un occhio. Non può sapere mai quello che troverà. Un giorno, sotto Cattaro, questo «V.L.A.» fece così un terribile incontro.
Era stato visto, probabilmente da un aeroplano, ed una torpediniera austriaca si era avvicinata, aveva fermato i motori per non dare l’allarme e attendeva. Erano le quattro del pomeriggio di una giornata limpida. I movimenti del «V.L.A.» erano stati seguiti con tanta precisione, che quando esso, ignaro di quanto avveniva alla superfice del mare, sporse il periscopio, vide a cinquanta metri dal suo fianco la prora della torpediniera nemica. Potè leggerne il nome: U.64.
La vicinanza estrema del nemico e la sua posizione non permettevano al sommergibile alcuna manovra di attacco. Delle cannonate grandinarono intorno al periscopio. Bisognava sparire. Il «V.L.A.» ridiscese velocemente. Cercò le profondità che nascondono. Quando fu persuaso di essere sfuggito, compì un giro per disporsi a lanciare il siluro e lentamente risalì. Aveva percorso circa un miglio sott'acqua. Ascoltò. Nessun rumore. Per la seconda volta mise fuori dalle onde la punta del periscopio.
Il mare era deserto in direzione della prua. Ma appena girò l’obiettivo in esplorazione, il sottomarino rivide la nave nemica. Era a destra, verso poppa, a cinquanta o sessanta metri. Non lo aveva lasciato un istante, si era tenuta sopra a lui durante tutta l’evoluzione.
Le cannonate ricominciarono a tempestare l’acqua. Delle granate scoppiavano quasi sulla groppa del «V.L.A.». Qualche scheggia urtò la torretta e tutto il battello rintronò cupamente. Impossibile far niente. Unico scampo, l’immersione immediata a tutta forza, se già non era troppo tardi.
Infatti, mentre il «V.L.A.» incominciava a riaffondare, il comandante si ritrasse con uno scatto subitaneo dal periscopio, e al secondo ufficiale che lo guardava interrogativo disse, con voce calma ma bassa e opaca:
— Bel lancio!
— Cosa?
Il comandante rispose con un gesto solenne della mano come per dire: Aspetta! — e rimase immobile. Aveva visto il comandante dell’U.64 sporgersi dalla plancia per ordinare il lancio di un siluro dal tubo di sinistra. Avrebbe potuto riconoscere quell’ufficiale austriaco fra mille. Quasi nello stesso istante il siluro era balzato nell’acqua in un ventaglio di spruzzi. Con la percezione limpida, fredda, atroce dei momenti supremi nei quali si assiste al proprio dramma con anima da spettatore, egli aveva giudicato il lancio perfetto, e lo aveva detto. Il proiettile fluttuante veniva diritto sul sommergibile.
Tutti intorno al comandante avevano compreso il significato delle sue parole e del suo gesto e attendevano in una immobilità mar- morea. Trascorsero quattro o cinque secondi. Si udì un rombo che si avvicinava: il siluro.
Arrivò impetuoso. Passò sopra, a qualche centimetro appena dal ponte. Percorse quasi tutta la lunghezza del sommergibile da poppa a prora, un po’ di traverso. Urtò leggermente col fianco la torretta a sinistra e non esplose. Mandava il fragore profondo ed eguale di un treno sopra un ponte metallico. Il rombo si allontanò.
L’equipaggio continuò le sue manovre in silenzio come se non avesse sentito passare su di sè il soffio della morte. Quando tornò a sporgere il suo occhio sull’acqua, dopo un’ora di navigazione in profondità, il «V.L.A.» non vide che un torbido chiarore, una nebbia luminosa: era accecato. Una scheggia di granata aveva guastato il periscopio.
Il sole deve essere già alto.
Il suo splendore penetra il mare. L’interno della torretta non è più buio. Si naviga a venti metri dalla superfice, e dai vetri r rettangolari e spessi disposti in giro filtra nella cavità metallica la luce dolce e strana delle profondità marine. Salendo nella torre par di salire entro la piccola cupola di un santuario in una notte di plenilunio. Un plenilunio di sogno, il riflesso di un pianeta ignoto, un chiarore celeste, tenue, diffuso, sorprendente. Una vedetta si è arrampicata lassù e sorveglia attraverso i vetri l’acqua vicina.
Sta attenta per avvistare in tempo, se è possibile, le mine e le reti. Le vicinanze dei porti ne sono piene. Un sommergibile vi rasenta ogni specie di tranelli, che non può vedere ma che indovina. Ode spesso degli strisciamenti sui fianchi, delle sonorità misteriose, e intuisce la vicinanza di pericoli ignoti, sente che qualche cosa è in agguato intorno a lui. Infinite sorprese lo aspettano nelle acque nemiche.
Tempo fa, in una nostra rada fu appunto gettato uno sbarramento di torpedini per cogliervi un sommergibile austriaco che la frequentava. Ma il sommergibile pareva che avesse capito. Non si avvicinava più, girava al largo con diffidenza, andava, veniva, spiava. Bisognava attirarlo con l’odore della preda, offrirgli una vittima, cacciarlo come si caccia la tigre. Ed una vecchia torpediniera coraggiosa uscì a fare la parte dell’esca.
Essa finse di non aver visto il nemico. Si mise a perlustrare tranquillamente. Il periscopiofu preso da frenesia; compariva qua, là, mutava continuamente di direzione: il sommergibile manovrava per fare il colpo. Al buon momento, la torpediniera simulò la paura. Senza difendersi, senza sparare una cannonata, fuggì.
Ma fuggiva adagio adagio, a zig-zag, come una povera bestia affascinata dal serpente. E il periscopio dietro. La nave entrò nello sbarramento. E il periscopio dietro.... Subitamente una eruzione d’acqua salì al cielo, un nembo di fumo si allargò sulle onde, un boato formidabile echeggiò nell’arco della rada. Un gorgo agitato e torbido nereggiava di nafta.
Non vi è probabilmente un solo sommergibile che non conosca le emozioni della traversata di un campo di mine. È un tragitto eterno, fra cavi d’ancoraggio tesi e invisibili. Il battello si tiene basso verso il fondo, perchè le mine aspettano a pochi metri dalla superfice e va adagio adagio, attento a non incocciare, relativamente sicuro. Ma una volta il «V.L.A.» incocciò.
Ebbe con una torpediniera austriaca un colloquio spaventoso. Fu all’imboccatura di un porto nemico, una mattina serena. La fortuna voleva che il «V.L.A.» fosse costretto a fare grande economia di elettricità e che andasse per lunghi tratti a motori fermi, lasciandosi portare dolcemente dall'impulso o abbandonandosi al lieve e impercettibile moto delle correnti sottomarine. Fu la sua salvezza questa inerzia.
Degli avvenimenti stravaganti lo avevano forzato a navigare immerso gran parte della notte e sperperare così le sue riserve di elettricità. Prima erano stati i proiettori della costa a farlo affondare. Incrociava in emersione così vicino alle rive che i proiettori lo avevano visto. Per delle ore si era trovato sotto al loro rasato candido; sulla coperta del sommergibile si vedeva come in pieno giorno; ma finché il raggio passa e ripassa lentamente, vuol dire che non vede. Quando invece scatta, torna indietro, si fissa e poi si spegne, allora non c’è dubbio: ha veduto, ha determinato la posizione, la ha segnalata alle siluranti ed è scomparso per non allarmare la vittima. Non fu il chiarore, fu il buio che fece fuggire il sottomarino. Esso udì lungamente correre le navi in caccia nella notte. Più tardi dovette riimmergersi per un bizzarro fenomeno: era diventato luminoso lui.
Si era addensato un temporale, i lampi guizzavano all’orizzonte, e improvvisamente «persistenti cariche elettriche silenziose — sono le parole del rapporto del comandante — si localizzano in tutte le asperità della torretta e all’estremo del periscopio, nonché sulle spalle e sulle teste delle vedette e del comandante; tali scariche hanno la forma di coni di luce violacea alti dai dieci ai trenta centimetri, col vertice in basso: alle ore una, divenendo l’estremo del periscopio troppo luminoso mi immergo restando fra due acque.»
Dunque il «V.L.A.» risparmiava energia e scivolava silenzioso ad una quindicina di metri di profondità, quando si udì uno strusciamento leggero e metallico lungo il fianco destro. Nel medesimo momento la vedetta ai vetri della torre gridò: — Una mina sulla dritta a poppa!
Era il cavo di acciaio dell’ormeggio che aveva sfiorato il battello. Per scostare la poppa dal pericolo il comandante ordinò: Tutto il, timone a destra! Avanti a tutta forza! — La vedetta urlò: Incocciata! — Un nuovo comando imperioso: Fermi i motori! — Il cavo della mina s’era impigliato nell’attacco del timone di profondità.
Niente da fare. La fatalità si compiva. Il sommergibile, continuando ad avanzare, appoggiava sul cavo, lo inclinava tutto e vi scorreva contro, piano piano. E la mina scendeva lentamente, veniva giù a strattoni verso il fianco poppiero, sul quale doveva inevitabilmente finire per urtare ed esplodere. Era un’agonia misurata dalla lunghezza di una corda.
Due soli uomini vedevano: il marinaio nella torre, il comandante al periscopio. I più minuti particolari di quella visione si imprimevano con precisione tagliente nel loro pensiero. In certi supremi istanti le inezie ingigantiscono, tutto quello che avviene è grande, solenne, definitivo. I due uomini vedevano il cavo vibrare alle scosse e raccorciarsi. Era bianco di incrostazioni marine; doveva essere in acqua da alcuni mesi. Ad ogni scossa, dei detriti calcinosi se ne staccavano e cadevano lievemente oscillando. Poi la mina è apparsa nettamente. Si abbassava come un piccolo pallone frenato a scatti.
Era anch’essa coperta di parassiti, rugosa macchiata di bianco e di viola. Lunghi fili verdi d’alga fluttuavano fra le tre catene dell’attacco e un piccolo sciame di pesci scherzava intorno agli urtanti. Sembravano presi da una curiosità prodigiosa per quelle strane protuberanze sensibili, alle quali è affidato il risveglio dell’esplosivo. Scodinzolavano contemplandole con gli occhi dorati e tondi, sfiorandole con le bocche aperte e meravigliate. Un pesce più grande di tutti, bianco tigrato di nero, schiacciato ed elegante, dava alle capsule plumbee dei colpetti lievi col muso stupefatto.
Il resto dell’equipaggio aspettava muto, con un sentimento oscuro e riflesso del dramma invisibile. Nel sommergibile si muore così, immobili, senza sapere, le mani sopra una leva o sopra una ruota, intuendo vagamente che il proprio cuore sta battendo gli ultimi suoi palpiti.
Quanto tempo è durata l’attesa? Nessuno sa dirlo. La mina era arrivata già al sommergibile, lo ha toccato con l’attacco delle catene. In quel punto il cavo sforzato si è rotto. La torpedine è risalita libera ed è scomparsa. Si è udita la voce del comandante: — Avanti, seicento Ampères! — e un sorriso ha illuminato tutti i volti, il sorriso stanco del lottatore ansimante che ha atterrato l’avversario.
È la stessa vedetta di quel giorno che sorveglia adesso l’acqua vicina.
Ma è acqua? È proprio acqua questa meravigliosa atmosfera crepuscolare, immobile, densa di una cupa serenità? Attraverso i vetri tutto l’esterno del sommergibile si mostra, netto, preciso, e al primo sguardo sembra emerso, sembra circondato da un’aria di zaffiro, favolosamente sospeso in una quiete pesante e prodigiosa. La prora aguzza si sporge librata come l’avanti di un dirigibile su abissi d’indaco. Il «V.L.A.» è un dirigibile di acciaio sperduto in un cielo di magìa, un cielo la cui vòlta si sia avvicinata intorno, avviluppante, immediata, azzurra, diafana e impenetrabile.
Il battello appare fermo nel glauco albore, ma i sottili cavi di acciaio dell’antenna telegrafica abbattuta, distesi sul ponte, oscillano a colpi regolari e lenti come se una mano ne scuotesse l’estremità, e i pesanti isolatori di porcellana bianca dei fili si agitano con la leggerezza di uccelli legati che tentino la fuga. Sotto alle piccole inferriate di sfogo dell’intercapedine, freme un candore acceso, abbagliante, confuso, incomprensibile, una frenesia di piccole fiammelle nivee traspare fra i buchi dell’acciaio: sono residui d’aria che la pressione tiene prigionieri.
Ma ecco che il sommergibile risale, la pressione diminuisce, ed una fantastica, turbinosa, brillante nevicata si sprigiona dalle inferriate, una nevicata che sale con infiniti scintillamenti di argento. L’aria si libera in miriadi di perle che si innalzano a giri capricciosi e ingrossano fuggendo, lucide e leggere. L’acqua non è più acqua, l’aria non è più aria, tutto è trasfigurato da un incantesimo. Il mondo vero è così lontano!
Una forma chiara ed oblunga passa veloce ed obliqua ondulando un fascio di code sottili: qualche molle abitatore delle profondità che fugge. Il battello continua a salire, ed improvvisamente, attraverso il cristallo, in alto in alto appare una distesa di mobili chiarori, un ondulare di seriche pieghe, un agitato velario di luce. È la superficie del mare che si avvicina.
I motori si fermano; il sommergibile ascolta; riprende l’ascesa. Quando il periscopio sta per emergere, un’ombra appare e sovrasta. Una visione meravigliosa e assurda si precisa. L’ombra è il riflesso del battello. Esso è specchiato dalla calma superficie del mare che gli sta sopra. È dominato dalla propria immagine rovesciata, oscura, fluida, oscillante, impossibile.
Ha guardato; riaffonda. Il mare è sempre deserto. Il grande velario luminoso si allontana e si dissolve nell’azzurro.
Paziente, vicino alla terra nemica il «V.L.A.», per ore monotone e senza fine, continua così la sua fazione nei baratri di acqua.