Storie allegre/Pipì o lo scimmiottino color di rosa/IX
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IX.
All’Osteria delle Mosche.
Quando gli assassini si furono allontanati una ventina di chilometri, il terribile Golasecca (era questo il soprannome del capo-masnada) si fermò in mezzo a un campo e, voltandosi ai suoi compagni, disse loro con una vociaccia roca, che pareva il brontolio d’un tuono lontano:
― Ora potete ritornarvene alla Capanna Nera. Aspettatemi là, e fra quattro o cinque giorni ci rivedremo.
― Scusate, maestro, ― gli domandò uno di quei brutti ceffi ― avete pensato a portare con voi qualche cosa da mangiare?
― Non ho portato nulla.
― Male! E se per la strada vi viene un po’ appetito?
― Pazienza! Se non trovo altro, mi rassegnerò a mangiare questo scimmiottino, che ho qui in tasca. ―
Il povero Pipì, udendo tali parole, cominciò dalla passione a grattarsi il naso e gli orecchi.
― Ma se voi mangiate lo scimmiottino, ― rispose ilsolito brutto ceffo ― che cosa vi dirà la Fata dai capelli turchini?
― La Fata non potrà farmi nessun rimprovero, perchè io le ho promesso di portarglielo vivo o morto. In ogni caso, se mi verrà voglia di mangiarmelo per la strada, serberò intatta la pelle, perchè la Fata possa vederla con i propri occhi, e accertarsi così che ho adempito lealmente i suoi comandi.
― Avete ragione, maestro. Dunque buon viaggio e sollecito ritorno. ―
Appena gli assassini ebbero preso congedo dal loro condottiero, si attaccarono sotto le braccia delle grandi ali di tela incerata e, spiccato il volo, si alzarono in aria con grandissimo fracasso, come un branco di corvi spaventati.
Golasecca, rimasto solo, seguitò il suo viaggio attraverso ai campi, ai fiumi e alle boscaglie, senza fermarsi mai, mai, mai!
Dopo aver camminato due giorni e due notti, senti uscire dalla tasca della sua giacca una vocina soffocata, che pareva venisse di sottoterra, la quale disse con tono di piagnisteo:
― Ho fame!... Ho tanta fame!... ―
Golasecca, invece di rispondere, si accarezzò la sua lunghissima barba di caprone, e raddoppiando il passo, tirò diritto per i fatti suoi.
Ma dopo pochi minuti, ecco la solita vocina, che diceva raccomandandosi.
― Sor assassino, che mi darebbe un chicco d’uva, o una ciliegia, o anche una mezza pera solamente? Sono digiuno da tanti giorni, e sento che lo stomaco mi va via. Lo creda, sor assassino, ho una fame così grande, che la vedo anche al buio!...
― Se hai fame ― rispose Golasecca, ― ridendo di un riso sguaiato e canzonatore ― fruga nella mia tasca, e ci troverai tante ghiottonerie, da prendere un’indigestione.
― Sono tre giorni che frugo: ma non mi riesce di trovarci nulla.
― Allora mangia la fodera della tasca.
― La prima fodera l’ho bell’e mangiata: la seconda è troppo dura e non mi riesce di roderla.
― L’hai mangiata davvero? ― urlò Golasecca, andando su tutte le furie. ― Brutto scimmiottino! Lasciami arrivare all’Osteria delle Mosche, e non dubitare che aggiusteremo i nostri conti!... —
Intanto si era fatto notte.
E che notte orribile e indiavolata! Il cielo appariva tutto coperto di nuvoloni: lampeggiava e tonava: gli alberi della foresta, sbatacchiati da un violentissimo vento, si divincolavano, cigolavano e urlavano, come tante anime disperate.
A mezzanotte in punto, Golasecca arrivò dinanzi all’Osteria delle Mosche: ma l’osteria era chiusa.
Picchiò alla porta una volta, due volte, tre volte: e nessun rispose.
Allora, con quanto fiato aveva ne’ polmoni, si diè a gridare:
— Sono io — rispose Golasecca, piegandosi e infilando il capo dentro la buca, che aveva aperta nel tetto.Pag. 73.
― Apri, Moccolino!... Apri!... Sono io! ―
Moccolino era il nome dell’oste; e tutti lo chiamavano così, perchè a cagione della sua figura sottile sottile, lunga lunga, e sbiancata sbiancata, somigliava tale e quale a un moccolo di cera gialla.
La sua osteria stava aperta solamente di giorno. Appena si faceva notte, Moccolino a scanso di seccature e di dispiaceri, chiudeva prudentemente la porta, spengeva il fornello e i lumi e poi se ne andava a letto.
E una volta entrato a letto, non apriva più a nessuno, anche se fosse rovinato il mondo. Dato il caso che qualche disgraziato, smarritosi di nottetempo nella foresta, avesse bussato all’osteria, Moccolino non se ne dava per inteso: o dormiva o faceva finta di dormire.
Quando Golasecca si accorse che l’oste, prendendosi gioco di lui, si ostinava a non volergli aprire, che cosa fece? Cominciò a distendere le braccia e le gambe, e a furia di distendersi e di allungarsi, diventò di una statura così alta e gigantesca, che il tetto dell’osteria gli arrivava appena a mezza vita.
Allora, lavorando con tutt’e due le mani, si dètte a scoperchiare il tetto; e i mattoni, gli embrici e i tegoli volavano via, come foglie portate dal vento.
Moccolino, impaurito da tutto quel fracasso infernale, cacciò il capo fuori delle lenzuola, e fingendo di essersi svegliato lì per lì, gridò con voce tremante:
― Chi è che mi chiama?
― Sono io, ― rispose Golasecca, piegandosi e infilando il capo dentro la buca, che aveva aperta nel tetto.
Per l’appunto questa buca rispondeva nella stanza dove dormiva l’oste, il quale sentì gelarsi il sangue, quando al fioco chiarore del lumino da notte, vide affacciata al soffitto della sua camera la minacciosa ghigna del terribile capo-masnada.
― Che cosa volete da me, maestro Golasecca? ― domandò Moccolino, che dallo spavento non aveva più fiato in corpo.
― Che cosa voglio?... Voglio prenderti per un ciuffo dei capelli e scagliarti lontano mille miglia.
― Deh! non lo fate!... Abbiate pietà di me.
― Non meriti pietȧ.
― Abbiate pietà almeno del mio bambino. Povero Guiduccio! Se rimanesse solo in questa casa, me lo mangerebbero i lupi.
― No, no.... io non voglio esser mangiato dai lupi. ― disse fra il sonno il figlioletto dell’oste, che dormiva nella stessa camera del babbo, in un lettino a parte.
Alle parole di quel bambino, Golasecca mutò fisonomia: e preso un tono di voce un po’ più umano, disse all’oste:
― Su da bravo! Salta subito il letto e preparami da cena. ―
Moccolino ubbidì alla prima: ma era tanta la paura e la confusione che aveva addosso, che non sapeva nemmeno lui come fare a vestirsi. Credè di aver preso le calze, e invece si ostinava a infilare i piedi nel berretto da notte. Accortosi dell’errore, si messe le scarpe, e sopra alle scarpe infilò le calze. Poi infilò la giacchetta, e sulla giacchetta la camicia, e sulla camicia la sottoveste, finchè trovandosi in mano i calzoni e non rammentandosi più a che cosa servivano, li ripiegò perbene e li chiuse dentro l’armadio.
Scese quindi al pianterreno e aprì la porta dell’osteria.
Golasecca, che aveva ripresa la statura d’un uomo comune, entrò dentro scotendosi i panni che gocciolavano; e postosi a sedere dinanzi a una tavola apparecchiata, domandò all’oste:
― Che cosa mi dài per cena?
― Tutto quello che desidera Vostra Signoria. Non deve far altro che comandare.
― Che cosa c’è di carne?
― Nulla di carne.
― E di formaggio?
― Nulla di formaggio.
― E di pane?
― Nulla di pane.
― Che cosa posso dunque mangiare? ― domandò l’assassino, tentennando il capo e cominciando a perdere la pazienza.
― Se Vostra Signoria desidera delle frutta.....
― Che cos’hai di frutta?
― Ciliege, mandorle e pèsche.
― Dammi un bel piatto di pèsche.
― E a me, un bel piatto di ciliege ― disse una vocina, che uscì dalle tasche del vestito di Golasecca.
― Chi è che mi ha chiesto le ciliege? ― balbettò l’oste, tutto impaurito e maravigliato.
― Sono io ― rispose la solita vocina.
― Non dubitare, ― interruppe Golasecca, digrignando i denti ― non dubitare, Pipì, che le ciliege te le darò io.... e ti darò qualcos’altro! A buon conto, esci subito fuori, e facciamo i nostri conti. ―
Così dicendo, il capo-masnada sbottonò la tasca della sua giacca, e lo scimmiottino, senza tanti complimenti, saltò in mezzo alla tavola e si pose a sedere sopra una zuppiera di porcellana.