Storia di Torino (vol 1)/Libro VI/Capo VI
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Capo Sesto
L’anno segnente, col trattato di Rastadt, Vittorio Amedeo ii ottenne dall’imperatore Carlo vi la cessione del Monferrato, di Valenza, d’Alessandria, di Vigevano e della valle di Sesia.
E dopo quell’epoca il suo Stato, ben lunge dal servire di scacchiere alle imprese delle due grandi potenze che gli stavano ai fianchi, fu rispettato e temuto.
Di valor personale, non meno che di scienza delle cose di guerra, avea dato Vittorio Amedeo segnalatissime prove. Maggior merito egli ebbe, come amministratore ed uomo di Stato.
Ben sapendo che un regno, le cui finanze sono sgovernate, volge a ruina; vedendo, perle lunghe guerre, e più ancora per le mal accorte liberalità della reggenza di madama Cristina, l’erario in mali termini, studiossi a ristorarlo, introducendo nel maneggio del danaio pubblico ordini semplici; nello spendere una severa economia; nello allogar opere la perpetua solennità degli incanti. Nè a ciò contento, considerando come nulle tutte le alienazioni a titolo gratùito, fatte a pregiudizio del Regio patrimonio (i cui diritti erano tenuti imprescrittibili), di feudi, tassi, fogaggi, ne fece dagli avvocali del suo patrimonio chiedere la restituzione, e prima delegò per tal fine un magistrato straordinario; poi, riformata e ricomposta, ne’ primi giorni di gennaio del 1720, a suo talento la camera, ne lasciò il giudicio a quest’ultimo magistrato.
Questo provvedimento rovinò mezza la nobiltà, e turbò lo Stato. E se fu utile al demanio, il quale avea per sè la lettera della legge, non tralasciò di parere, ed essere durissima giustizia, spogliare le principali famiglie della maggior parte delle sostanze, che avean godute per due, per tre, per quattro ed anche per più generazioni, solo perchè non potean provare d’averle acquistate a titolo oneroso.
Aggiungasi che, in affari di natura tanto odiosa, si procedette con tale vivezza, che ne’ primi giorni, dacché fu instituito il magistrato straordinario, si fecero 800 citazioni. E che il re, de’ principali avvocati del foro torinese conquistò la dottrina e l’eloquenza, sollevandoli a cariche di magistratura. Cotti fu avvocato generale, Beltrutti procuratore generale, Caissotti e Bogino sostituti.1
Come Emmanuele Filiberto, Vittorio Amedeo a tulli i rami di governo applicò o preparò utili riforme, compiute poi da Carlo Emmanuele ni, suo figliuolo e successore. L’università degli studi, la cui fama era molto scaduta, e che era allogata in case cattive ed oscure avanti S. Rocco, pose in più degna sede, nella via di Po; e, ciò che più monta, di professori elettissimi la rifornì, chiamati dalle altre province d’Italia e dalla Francia. Fu riaperta l’ 11 di novembre del 1720.
Questo principe, di voglie così assolute, e tanto amico del comando, che alcuna volta tentò d’ingerirsi fin ne’ giudizii, de’ quali sacra debb’essere ed inviolata l’indipendenza, nel 1730 pigliò improvviso consiglio di scendere volontariamente da quel trono che per’opera sua sfavillava di tanta gloria.
L’imperatore Carlo vi, non avendo prole maschia, voile assicurare la successione a Maria Teresa sua figlia, ed a questo fine pubblicò la prammatica sanzione, e cercò alleati, stringendo con calde istanze e con varie proferte il re di Sardegna a dichiararsi per lui. Dall’altro lato Francia, Spagna, Inghilterra regolavano col trattato di Siviglia la divisione futura della monarchia austriaca (1729), e sollecitavano con premurosi uffici il re di Sardegna ad unirsi con loro. Vittorio Amedeo indugiava, e non si risolvea nè per l’una parte, nè per l’altra; o sia che già meditasse l’abdicazione, o che aspettasse offerta di partili più convenevoli. Alcuni scrittori, per trovar una causa solenne all’abdicazione, imaginarono ch’egli si fosse ad un tempo impegnato e coll’Austria, e colla Francia.
Questa favola assurda fu ripetuta e creduta.2 Ma la vera causa dell’abdicazione fu da un lato la mal ferma salute, il disinganno che in un cuor grande e generoso facilmente induce la lunga e dura esperienza del regnare, e, più di tutto, il desiderio che aveva di condurre in moglie una sua suddita, la contessa di S. Sebastiano, con cui sperava di poter condurre in una cara solitudine una vita più riposata.
Carlo Emmanuele s’oppose quanto potè, e colle preghiere e colle lagrime, alla volontà del padre. Egli fu saldo nel suo proponimento; e, cercato il cerimoniale con cui Carlo Quinto avea proceduto, nelle medesime forme, addi 3 settembre del 1730, nel castello di Rivoli, rinunziava lo scettro al figliuolo.
Alla contessa di S. Sebastiano, divenuta marchesa di Spigno; non piaceva la vita privata. Sposa d’un re, avrebbe voluto goderne gli onori. Padrona della mente e del cuore di lui, è ricchissima di scaltrimenti, non tardò a fargli increscere là seguita abdicazione, a persuaderlo di rivocarla. E noto come Vittorio Amedeo si lasciasse persuadére, che i ministri del novello sovrano, tutti sue creature, tutti usi ad obbedire ad un menomo suo cenno, s’accorderebbero a considerare come non avvenuta la spontanea sua abdicazione, a far discendere Carlo Emmanuele in dal trono in cui la volontà del padre avealo collocato.
La sera del 3 di settembre 1731 Vittorio tentò a questo proposito la fede del marchese del Borgo, che avea trattenuto a cena nel castello di Moncalieri, dov’egli allora abitava; e non trovandolo, come sperava, arrendevole, lo lasciò partire; e poco dopo, non essendo molto lontana la mezzanotte, risolutosi ad uno di que’ passi arrischiati in cui s’era sempre piaciuta l’indole sua avventurosa, salito a cavallo, si presentò alla porta della cittadella di Torino, e, domandato il barone di St-Remì, che n’era governatore, gli disse che voleva entrare, onde confidargli un gran segreto. St-Remì rispose d’esser pronto a ricevere i suoi ordini, ma di non poterlo, senza un ordine del re, ammettere nella fortezza. Allora Vittorio Amedeo, voltato dispettosamente il cavallo, tornò a Moncalieri, dove poco dopo, sulla unanime rimostranza del consiglio, fu arrestato, e condotto al castello di Rivoli, mentre l’ambiziosa marchesa era tratta con pochi riguardi al forte di Ceva. Più tardi furono alleviati a questo infelice principe i rigori della custodia; gli fu renduta la compagnia della marchesa. Morì nel castello di Moncalieri il 31 d’ottobre 1732.