Storia delle scienze agrarie/II/IX
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Una lingua e una logica per la scienza nuova
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Scienza antica e fisica particolare
«Gli Antichi, che diletto non avevano per quello, che noi chiamiamo Fisica particolare, ed esperimentale, non pensarono, che si potesse trarre alcun vantaggio dall'esame scrupoloso, e dalla descrizione esatta di tutte le parti di una cosa, e credettero forse che l'autorità potesse aver forza in contraddizione con l'esperienza; e quindi n'è avvenuto... che le opere di Aristotele, di Teofrasto e di Plinio... quantunque poche ne abbiano fra le moderne, che le pareggino, sieno con tuttociò di queste per un tal conto molto inferiori.»
Con questa testimonianza della coscienza, nei primi naturalisti moderni, di quanto il nuovo metodo fisico collochi le loro ricerche lontano dalle espressioni della conoscenza dei secoli precedenti, inizia la seconda parte del trattato Delle malattie del grano in erba del conte ravennate Francesco Ginanni, pubblicato a Pesaro, nel 1759, in splendida veste ricca di belle tavole.
L’opera è l’esposizione dei risultati di una serie di ricerche condotte secondo la nuova metodologia sperimentale, quella Fisica particolare ponendo le cui fondamenta Galileo ha tracciato lo spartiacque tra il mondo antico e l’Età moderna. Essa costituisce, anzi, la conferma dell’allargarsi degli orizzonti del metodo sperimentale dai terreni originari, quelli della fisica e dell’astronomia, a spazi sempre più ampi dell’universo naturale, quel processo di cui, erede legittimo di Galileo, ha segnato la prima tappa Francesco Redi, che sulle orme del medico toscano hanno sviluppato i discepoli, Giovanni Cosimo Bonomo e Giacinto Cestoni, precursori di Carlo Francesco Cogrossi, di Antonio Vallisnieri, di Bernardino Ramazzini, gli scienziati che nel Settecento impongono la medicina italiana tra le branche più dinamiche della scienza medica europea. È sul terreno dell’epidemiologia, la sfera dei geniali precorrimenti di Girolamo Fracastoro, che la biologia italiana scrive le pagine più significative, espressioni di un primato che suggellerà sul terreno delle malattie delle piante le conquiste più significative.
Le malattie del frumento, causa secolare di carestia e miseria, sono una delle sfere in cui i cultori della nascente scienza biologica sono chiamati ad applicare il nuovo metodo di indagine. La ricerca delle cause, e dei mezzi di lotta, delle fitopatie anima, anzi, una delle prime competizioni scientifiche tra studiosi di paesi diversi, in particolare italiani e francesi. E’ significativo rilevare che il tema ha suscitato l’interesse dello stesso Galileo, che del fenomeno ha proposto una spiegazione tipicamente fisica, tanto seducente quanto illusoria, che Ginanni menziona tra le ipotesi avanzate dai dotti che hanno affrontato l’argomento prima di lui.
Se il tema delle ricerche di Ginanni riveste un preciso rilievo storico, sono i caratteri della cultura che informa la sua opera a imporre, prima del suo contenuto, la menzione del conte ravennate in una storia del pensiero agronomico: esaminando Le malattie del grano emergono infatti con nitidezza la fisionomia intellettuale, la formazione culturale, i moduli argomentativi dello scienziato del Settecento. Il quale prima che naturalista è ancora umanista: gli studi che ha compiuto sono stati quelli classici, greci e latini, gli anni della sua formazione sono stati divisi tra Omero, Platone e Virgilio, che ha letto in lingua originale, la scienza che ha conosciuto dai propri maestri è quella di Plinio e di Vitruvio: Galileo, Malpighi e Boyle sono state letture mature, frutto di una scelta operata quasi infrangendo i canoni della propria formazione. L'orizzonte umanistico, storico, filosofico, filologico, resta il suo retroterra culturale, che lo induce a inquadrare con gusto squisitamente umanistico anche i temi delle ricerche che realizza col metodo della Fisica particolare.
Un accademico blasonato
Dell’ideale studioso settecentesco Francesco Ginanni è incarnazione perfetta. Erede di una famiglia patrizia che vanta una pluralità di dotti, laici ed ecclesiastici, figlio del principe dell'accademia ravennate degli Informi, che il padre riunisce, con scrupolosa metodicità, nel palazzo avito, è stato introdotto, tredicenne, alla corte dei Farnese per essere educato nelle arti cavalleresche. Avendo dimostrato tanta passione per la lettura quanto disinteresse per la danza e la scherma, prima Antonio Farnese, quindi, alla sua morte, la vedova, Enrichetta d'Este, lo hanno affidato ai migliori maestri di corte, poeti, grammatici, matematici. Rientrato nella città natale si è sentito investito dell'eredità dello zio Giuseppe, appassionato collezionista di uova, di nidi e conchiglie, assiduo corrispondente, a ragione della loro classificazione, di naturalisti italiani e stranieri. Dello zio ha rinnovato le amicizie, ha raccolto e ordinato le osservazioni che, compilate a commento delle raccolte, Giuseppe Ginanni non ha mai pubblicato, che vedono la luce per la sua cura.
All'impegno di catalogazione dei reperti dello zio, rinnovando le consuetudini paterne unisce l'assiduità alle accademie letterarie della Romagna, un impegno che lo stimola ad arricchire le conoscenze umanistiche e a perfezionare il gusto poetico, che ritarda, inevitabilmente, il compimento delle indagini in cui si cimenta nella sfera delle scienze naturali. Nonostante le sollecitazioni di Jean François Séguier, l'allievo di Réaumur che vive a Verona nel circolo di Scipione Maffei, verosimilmente a conoscenza delle indagini analoghe in corso in Francia, Le malattie del grano in erba, la più originale tra le sue opere naturalistiche, vede la luce solo nel 1759, quattro anni dopo il compimento delle prove che illustra. Con la conclusione delle esperienze ha coinciso, per caso singolare, la pubblicazione di un'indagine di Mathieu Tillet di cui i naturalisti contemporanei non hanno mancato di riconoscere l'originalità: non priva di rilievo se pubblicata tempestivamente, stampata tardivamente la sua opera rivelerà, irreparabili, i propri limiti.
La febbre che ne stronca la vita, repentinamente, a cinquantanove anni, gli impedisce di vedere la stampa dello studio cui ha dedicato lunghe, meticolose ricerche, l'Istoria civile e naturale delle pinete ravennati, un dotto compendio di notizie storiche e di rilievi naturalistici che, come Francesco si è premurato di stampare le opere dello zio, sarà il fratello Prospero a tradurre in volume.
Del connubio che, alle origini della scienza sperimentale, unisce le nuove discipline naturalistiche all'antico orizzonte storico e letterario, entrambe le opere di Ginanni sono esempio eloquente. Apprestandosi, nel trattato sulle malattie del grano, ad esporre i risultati delle ricerche eseguite, nelle caselle del podere di Santa Maria in Fiumicello, indagando sulle cause delle malattie del frumento, reputa necessità preliminare verificare quante di quelle malattie fossero conosciute dagli antichi, un proposito che impone la comparazione delle testimonianze che sul loro ricorrere offrano le fonti letterarie, storiografiche, scientifiche dall’antichità ai decenni recenti. Nell’indagine il conte ravennate dispiega gli strumenti molteplici della propria cultura, i mezzi che gli consentono di affrontare con la competenza del filologo due quesiti di inequivocabile carattere naturalistico:
- Si propone di verificare se le malattie che infestano al suo tempo i seminati di grano fossero diffuse nell'antichità nei paesi che sono stati culla della civiltà europea, per appurarne il carattere endemico o individuare il tempo della loro comparsa. Per rispondere esattamente al quesito deve stabilire se e come gli antichi avessero distinto i sintomi dell'una da quelli dell'altra.
- Si propone di verificare se siano egualmente diffuse nei paesi europei, se cioè la molteplicità dei vocaboli usati nei paesi del Continente per indicare le fitopatie dei cereali rappresentino lo stesso contesto di fenomeni patologici, o esprimano, nei singoli paesi, fenomeni diversi.
Ricerca filologica e indagine sperimentale
È il secondo obiettivo dell’indagine di Ginanni ad indurci a riflettere sulla prima difficoltà con cui debbono misurarsi i fondatori delle scienze naturali: la mancanza di un lessico capace di definire i fenomeni fisici, di una terminologia che li traduca verbalmente, consentendo allo studioso fiorentino di identificare il fenomeno descritto da quello padovano, a quello italiano di utilizzare le acquisizioni di quello francese. L’impegno di Ginanni per accertare quale fenomeno fisico corrispondesse all'alterazione del grano che i latini denominavano rubigo, come si presentasse ai sensi quella che Virgilio definisce scabies, con quali vocaboli italiani si debba tradurre la distinzione francese tra blé niellé, blé ergoté, blé avorté, è la ricerca della corrispondenza univoca tra il fenomeno e la sua espressione verbale, la corrispondenza senza la quale è impossibile la comunicazione scientifica, la stessa scienza sperimentale. E’ sufficiente, a rilevare la portata della fatica del conte ravennate, una fatica preliminare alla scienza ma essenziale alla scienza, trascrivere la pagina in cui Ginanni compara i vocaboli impegati dagli autori antichi a designare le ruggini:
«Ma certamente singolare è la multiplicità de' vocaboli, co' quali variamente dagli Antichi sono state denominate; imperciocchè, conforme sta scritto in Plinio, alcuni le chiamavano ruggine, altri uredine, e altri carbonchio, ma tutti poi universalmente sterilità, e non mancarono anche di appellarle siderazione, quando nel senso di abbruciar le piante vollero considerarle. Forse tuttociò avvenne, perchè varie ne' loro effetti le riconobbero, e varie pur anche nelle cagioni.»
Con le medesime difficoltà che incontra nell'esame delle testimonianze antiche, il conte ravennate si scontra cercando di definire il significato dei termini usati dai contemporanei. Leggiamo quanto scrive in tema di carbone: «I Toscani comunemente hanno per essa la (parola) golpe, o sia la volpe del grano. Ma in varie parti della Lombardia si conosce sotto il nome di carbone, e sotto quello di carboncino. Gli Scrittori Botanici de' secoli più vicini a noi... la chiamarono col nome generale di ustilago, che i Tedeschi dicono brand, arsura, abbruciamento; e mi si conceda... la maraviglia, che mi ha cagionato il vedere, che essi poi nel descriverla non abbiano recato difficoltà alcuna per metterla come ruggine degli Antichi...»
È da questo cimento che nasce il lessico scientifico, frutto dell'impegno filologico di naturalisti che grazie alla complessità della propria cultura assicurano a quanti li seguiranno, insieme alla possibilità di comunicare nozioni e concetti, la condizione preliminare per diffondere la scienza e per sospingerne l’evoluzione, che non sarebbe possibile se, acquisita una nozione da parte di uno sperimentatore, altri non potessero avvalersene per ricavare nozioni ulteriori. Lo scienziato del Ventunesimo secolo, il fisico che usando l’inglese può praticare la ricerca nei laboratori americani, tedeschi, svedesi, tra le cui conoscenze il greco e il latino non hanno mai occupato alcun ruolo, di questo è debitore a uomini dalla formazione tanto diversa dalla propria, che della cultura scientifica moderna hanno eretto, sul greco e il latino, le fondamenta.
Il quadro che Ginanni compone delle malattie del grano secondo gli antichi è ricco, dotto, piacevolissimo: dalle testimonianze della Bibbia sul terrore degli abitatori del vicino Oriente per l'aerugo, il flagello divino che distruggeva le messi, alle testimonianze greche, tra cui un verso di Omero, da quelle degli etruschi, che veneravano la dea Traha Sahata, protettrice delle messi, a quelle, agli albori della storia di Roma, sul culto del dio Nodutus, protettore del culmo dei cereali, di cui assicurava la solidità evitando che se ne spezzassero i nodi. «Non si può uscire da questa malattìa delle biade –scrive in tema di ruggine- senza rammemorar l'orrore, e lo spavento, che i Romani ne concepirono. Niun'altro male è peggiore della ruggine di que' vecchi Popoli celebratissimi, i quali per allontanar da loro una sì fatta peste istituirono giorni festivi, che chiamarono rubigalia, floralia, vinalia, e quantunque allora senza lettere, nulladimeno pii, e ingegnosi finsero due rustici Dei, che Robigo, e Rubigine appellarono, e ad essi, come Befane di mal talento, sacrificavano, perché non nocessero. Ma questi Dei non solo ebbero i Romani, ma gli ebbero anche i Rodiani, fra' quali si trovò il Tempio di Apolline Erythibio, come notarono i Gronovj in Aulo Gellio, e gli ebbero gli Etrusci, ed altre Nazioni antichissime.»
Esperienze parcellari e registrazioni meteorologiche
Condotta la propria indagine filologica, nella seconda parte dell'opera il naturalista ravennate svolge una minuziosa relazione delle esperienze che ha realizzato, nel corso di cinque anni, per identificare i meccanismi delle malattie del frumento. Nella terza parte propone la spiegazione che ritiene desumibile dalle proprie osservazioni, la fisiologia, cioè, delle malattie del grano: nelle Malattie del grano il termine è proposto per la prima volta in un testo italiano pertinente le conoscenze agrarie. Nella quarta parte suggerisce alcuni procedimenti di prevenzione e di cura delle fitopatie che ha descritto. Analizzando il disegno metodologico delle esperienze di Ginanni sono tre gli elementi che attraggono la nostra attenzione. Il primo, l’adozione di un piano di indagine fondato sul confronto dello sviluppo di piante di frumento nate da semi raccolti in condizioni sanitarie dissimili, o sottoposti a manipolazioni differenti, piantati in parcelle diverse. Il secondo, la ripetizioni delle prove per una serie di anni successivi, la condizione perché le combinazioni diverse di fattori sperimentali possano interagire con andamenti climatici diversi. Il terzo, complementare al secondo, la registrazione dei fenomeni meteorologici durante il corso delle prove: pressione, ventosità, umidità relativa. Sono tre criteri procedurali destinati a divenire costanti della ricerca agronomica.
Nelle caselle che ha delimitato nel campo prescelto, Ginanni semina cariossidi raccolte da piante sane, da piante affette da carbone, da ruggine e da filiggine, che in alcune parcelle depone allo stato originario, in altre dopo averle trattate con sale marino, zolfo, canfora, o una mescolanza di erbe medicinali di cui non rivela la ricetta. Oltre alla semente sana, indispensabile per il confronto, al piano parcellare aggiunge campioni di grano avariato, infestato da insetti parassiti, raccolto con un grado di umidità eccessivo ed essiccato al sole, di grano, infine, conservato da annate precedenti.
Di alcuni campioni si premura, per di più, di annotare l’origine, dalla spiga centrale del cespo o da una diversa, un elemento che trascura per altri. Non si preoccupa, invece, di ripetere con rigore, nei quattro anni durante i quali protrae le prove, lo stesso assortimento di campioni. Compone, così, una dozzina di elementi sperimentali del tutto eterogenei, che si combinano capricciosamente negli anni successivi: la prova che ai propri esperimenti non chiede la verifica di un’ipotesi intuita e vagliata razionalmente, che affida, piuttosto, al caso, il compito di proporgli qualche constatazione curiosa. Ma, affidati al caso, non sono stati numerosi, nell’intera storia della scienza, gli esperimenti da cui sia derivata una scoperta di rilievo.
Più che il raffronto tra piante colpite da specifiche fitopatie, nel campo di Santa Maria in Fiumicello le sue indagini produrranno, così, il più composito assortimento di tutte le avversità che possano colpire un campo di frumento: una condizione che renderebbe impossibile allo sperimentatore più accorto discernere cause ed effetti di ogni affezione. Ma Francesco Ginanni è naturalista diligente, non è indagatore di genio: incapace di fissarsi alla ragione biologica delle fitopatie, disperde la propria attenzione tra le cento contingenze che verifica nelle proprie parcelle, annota con cura, nel corso delle lunghe esperienze, dati meteorologici e mutamenti fenologici: pressione, ventosità, piovosità, umidità relativa, elementi necessari, non sufficienti a condurlo alla comprensione dei fenomeni che si è proposto di esplorare. «Quel piccolo campo, ch'è posto nella Villa di Santo Stefano vicino a Santa Maria in Fiumicello in luogo aperto -riferisce all'inizio del primo capitolo della II parte, dedicato alla Sperimentale seminazione dell'anno 1749-, era stato da tempo immemorabile per fino allora tenuto a prato. Lo feci dividere con mattoni nelle seguenti XX. caselle quadrate, il cui lato era di 4. piedi Romani. Io assistetti alla seminazione, che fu del grano nostro volgare, cioè di quello, che Giovanni Bauhino nel Tomo secondo della sua Storia universale delle Piante chiama: triticum vulgare, glumas triturando deponens.»
«Poichè nell'Autunno dell'anno 1749 -annota il patrizio ravennate nel paragrafo successivo- fu interrotto il buon tempo dalle piogge, la seminazione alquanto venne bagnata, e ritardò la produzion dell'erbe più dell'ordinario... Piovve quasi tutto Dicembre, ed anche il susseguente Gennajo del 1750., ma entrato Febrajo si mutò in sereno per fino agli ultimi dì, nè quali ripigliarono le piogge, benchè leggieri. Misurata la densità dell'aere, trovai per essa in questo mese, che la maggior altezza del Barometro era a' pollici 28. linee 4., la minore a pol. 27. lin. 1; la maggior altezza del Termometro a' gradi 2. sopra il punto della congelazione, la minore a' gradi 6. sotto il medesimo punto. Quantunque il Cielo fosse ordinariamente sereno, la nebbia al basso fu quasi continua. Dominarono i venti di Levante, o di Est, e si fecero spesso sentire quelli anche di Settentrione, o di Nord.»
L’accuratezza delle registrazioni climatiche non vale ad assicurare il successo di un piano nato da un’intuizione felice, non sufficientemente lucida da dirigere lo sperimentatore a constatazioni capaci di risolvere l’arduo quesito biologico che si è proposto. Confuso dalla pletora delle variabili che ha introdotto nelle proprie parcelle, Ginanni pare dimenticare le peculiarità del frumento seminato in ciascuna, e al procedere delle stagioni si immerge nell’osservazione delle conseguenze degli eventi climatici sull’insieme del seminato. Abbandona, così, l’obiettivo primitivo, la ricerca delle correlazioni tra stato della semente e insorgenza delle singole fitopatie, la ricerca che sarà il complemento della scoperta dell’infettività tra i fenomeni osservando i quali identificheranno gli agenti delle malattie del grano, nel decennio successivo, i due naturalisti toscani che condivideranno il titolo di fondatori della fitopatologia.
La scoperta del competitore, gli errori del conte ravennate
Della loro scoperta ha stabilito una premessa, negli anni in cui Ginanni ha condotto le proprie prove, Mathieu Tillet verificando la capacità della polvere che promana dai grani cariati, l’ammasso delle spore del parassita che sarà denominato, a suo onore, Tilletia caries, di produrre i sintomi della malattia in una pianta sana. Ginanni riferisce la scoperta, divulgata quattro anni prima della stampa del proprio volume, commentandola con l’espressione di uno scetticismo che ne prova l’incapacità a comprendere le ragioni del fenomeno di cui ha affrontato l’indagine:
«Il signor Tillet -scrive nella nota in calce al III capitolo della terza parte- il quale nella sua bella Dissertazione scrisse, che “la cagione ordinaria, e la sorgente abbondante delle biade corrotte risiede nella polvere delle biade corrotte; che il grano già sano, il quale sia stato annerito da questa polvere riceve mediante una contagione rapida, e una comunicazione intimissima il veleno, ch'ella racchiude; che lo trasmette a' grani, di cui è l'origine; che questi grani una volta infettati si convertono in polvere nera, e divengono per altri una cagione di corruzione; che le paglie medesime, le quali hanno portato delle spighe cariate, hanno qualche cosa di pestilenziale pel grano, che loro si avvicina, e che germina sopra di esse”... Ma che ho io a dire per mia fe? A me certo non è riuscito in questo Territorio Ravennate di aver testimonianze, onde senza sospetto, e senza rimordimento potessi ammettere come generale il suo sistema.»
Nonostante che il piano sperimentale che ha predisposto paia disegnato secondo un ragionamento epidemiologico, nel corso del suo svolgimento tutta l’attenzione del conte ravennate si rivolge alla ricerca di una spiegazione puramente climatologica, una direzione fallace, perché se i fenomeni climatici rappresentano condizione essenziale dello sviluppo delle malattie crittogamiche, non ne costituiscono le cause.
Rilevato l'errore di Ginanni non possiamo non riconoscere che gli ostacoli concettuali che si frappongono all'individuazione dell'origine delle malattie dei vegetali sono ingenti: possiamo misurarli rilevando la difficoltà di distinguere le diverse origini, in una pianta alterata, degli effetti di turbe fisiologiche causate da eventi climatici, dell'infezione di patogeni fungini, della presenza di insetti fitofagi, tre ordini di affezioni che possono colpire contemporaneamente lo stesso vegetale. Il comporsi degli effetti di cause diverse induce Ginanni a una molteplicità di equivoci: è proprio, peraltro, dalla critica delle incongruenze delle prime spiegazioni che potrà maturare la distinzione dei sintomi delle singole malattie, la distinzione che Ginanni ha intrapreso con acume sul terreno filologico, alla quale non presta alcun contributo su quello biologico.
Misuriamo la difficoltà a distinguere, in occasione di particolari congiunture meteorologiche, gli effetti di malattie crittogamiche da quelli di turbe fisiologiche nel passo in cui, al secondo paragrafo del capitolo V, il conte ravennate illustra l’esito di un'affezione che avrebbe colpito, durante il terzo anno delle proprie prove, le principali specie coltivate nella pianura ravegnana:
«Alla metà di Maggio del 1751. moltissimi gambi, e spighe di grano dalla parte superiore di un campo all'Occidente della Città furono tinti improvvisamente di un umore giallognolo, che nel mattino conservava l'umido, e nel giorno asciugavasi. Vidi sopra i gambi certe strisce, o canaletti, i quali appoco appoco oscurandosi, alla metà di Giugno rimasero quasi abbronzati, e le superficie esteriori di essi gambi, e le reste delle spighe si seccarono, ma non per modo, che i granellini ne patissero notabilmente, essendosi solo alcun poco ristretti, e diminuiti di mole. I legumi ne patirono maggiormente, e massime le Fave, i gambi delle quali erano divenuti neri, e parevano già secchi. Le viti furono nel tempo stesso macchiate di rosso cupo, e le foglie de' Mori si videro intristite, e spruzzate di pavonazzetto.»
Oggi sappiamo che non esistono crittogame capaci di insediarsi su un numero tanto ampio di piante, sappiamo altresì che esistono condizioni climatiche che favoriscono l'insorgere di una pluralità di infezioni su una molteplicità di specie. È nella pagina successiva che reperiamo, invece, una prova della difficoltà a distinguere l'eziologia delle malattie crittogamiche dagli esiti di infestazioni di insetti parassiti che si verifichino contemporaneamente: «Or io stando ad esaminar con attenzione la figura della polvere rugginosa, e le corrosioni, e le fessure, che nelle pianticelle aveva impresso, mi parve di veder in quella materia, non senza opera del microscopio, de' piccolissimi Bacherozzoli, de'quali molti stavano appiattati tra tunica, e tunica de' gambi medesimi. Dissi, che mi parve di veder Bacherozzoli, perché quegli animaletti, che ivi erano, molto analoghe avevano le loro fattezze a' vermi, sebbene per altro gli conoscessi per Bruchi, e da loro uscissero poi Farfalle, e non Mosche, onde chiamar si potrebbero in latino erucae vermi-formes. Questi Bruchi dunque, non anche, a quello che io credo, osservati, erano di varie grandezze, che non oltrepassavano tuttavia quella di un quarto di linea del piede di Parigi, e ad occhio nudo poco si distinguevano da' grani della polvere rugginosa... Col soccorso del Microscopio mi comparvero di color verde-giallo dilavato, tutti tempestati di macchiette rossigne...»
Vermi parassiti e insetti infestati da predatori
Seppure impegnato nello studio delle fitopatie crittogamiche, è forse nella sfera dei parassiti animali che Ginanni realizza le osservazioni più rilevanti: particolarmente significativa la conferma che offre, a pochi anni dalla prima pubblicazione, delle osservazioni di John Tuberville Needham sull'esistenza di vermi parassiti della cariosside, e di quelle di Réaumur sul contributo di alcune specie di insetti predatori nel contenimento delle infestazioni degli insetti parassiti delle colture.
«Nelle Memorie di Trevoux dell'anno 1750. -leggiamo al capitolo VII della seconda parte del volume- del mese di Marzo, riportandosi il Libro di nuove esperienze del Signor Needham al capitolo VIII., dove parla della nigella, si dice, che la polvere nera del grano, se si fa notare nell'acqua, comparisce al Microscopio ripiena di animaletti viventi, che hanno un moto irregolare, e costante, e che sono. simili alle anguille di acqua dolce.» «Non poche, anzi moltissime –scrive Ginanni al paragrafo 5 del capitolo successivo- in diversi tempi, e in diversi luoghi io aveva fatte riflessioni, ed esperienze d'intorno a questo grano ghiottone, e aveva aguzzato l'occhio per mirarvi dentro più chiaramente, che io poteva, innanzicchè mi comparisse il libro di esso Signor Needham; e prima anche di veder l'effetto, che l'acqua vi producesse, io aveva osservato nella bianca poltiglia rasciutta, e l'aveva ad altri fatto osservare, il moto scherzevole, benchè tardo, e ambiguo di que' filamenti a guisa di anguillette, o piuttosto di lombrichetti del corpo umano, i quali da questo Autore nel suo libro di Novelle scoperte fatte col Microscopio furono descritti, come un numero sterminato di minutissimi insensibili vermini, che animavano que' granellini.»
È la descrizione dei nematodi parassiti dei vegetali, cui la zoologia moderna conserverà la definizione di piccole anguille, anguillule proposta dai naturalisti del Settecento, una scoperta fondamentale, dopo quella di Redi dei nematodi parassiti degli animali, per la conoscenza di una classe di esseri viventi tra le più dannose a tutte le produzioni agrarie. «Furono in quell'anno pochissimi -riferisce Ginanni al paragrafo 36 del IX capitolo sull'infestazione di larve terricole verificatasi nella primavera del 1753-, quantunque le altre spezie di bruchi abbondassero. Una tale varietà è sorprendente; ma si potrebbe attribuire, secondo il parere di esso Réaumur, a' nimici di questa spezie, che l'avessero in tal anno quasi distrutta...»
Confermando la scoperta di Réaumur di insetti predatori delle larve di imenotteri, Ginanni riferisce di avere verificato nelle proprie caselle il contributo al contenimento dei fitofagi assicurato da una specie di ditteri che inocula le proprie uova nel corpo di larve parassite, impiegandole quali riserve alimentari per lo sviluppo delle proprie pupe: «Una certa razza di moscherini vidi -leggiamo al paragrafo 32 del capitolo IX-, che andavano ronzando intorno alle cantaridi, della spezie qui sopra descritta... e spesso gli erano addosso, e con certo aculeo foravano loro la pelle, e insinuavano in questi fori le loro uova, che sono così piccole, che si rendono invisibili ad occhio, che armato non sia di perfettissima lente... Ivi erano poste come al covaticcio, e vi stettero, finchè ne uscirono dopo qualche tempo alcuni verminetti divoratori di quella cantaride medesima... per nativam quandam crudelitatem, pigliando da essa tanto nutrimento, quanto bastava per mantenerli in vita. Sono composte di 12. anelli, hanno il ventre acuto, e portano nella bocca due forficette nere, ed ossee, ed a' lati di essa un orlo bianco. Tostocchè hanno pigliato un sufficiente cibo, fanno la loro crisalide dentro allo stesso Insetto, da cui scappano poi i sopraddetti moscherini. Questi hanno la testa, il dorso, e il petto di color nero con occhi grossi...»
Nelle anomalie climatiche la causa delle malattie del grano
Pure avendo raccolto una mole significativa di osservazioni per ampliare le conoscenze fitopatologiche, Francesco Ginanni fallisce, ho rilevato, l'individuazione delle cause delle malattie del frumento. Fallisce nonostante vi si sia avvicinato, oltre che con la citazione di Tillet, annotando, al paragrafo 21 del capitolo V della seconda parte, che «Non sembra molto diversa dalla ruggine una muffa, che alcune rade volte nasce sulle foglie inferiori del grano, e talora sulla parte più bassa della spiga medesima dopo una pioggia di molti giorni.» L'identificazione degli agenti delle malattie dei vegetali in patogeni della famiglia delle muffe sarà la strada attraverso la quale, dall'esame delle modalità di propagazione delle più banali muffe saprofite, la scienza potrà formulare le prime ipotesi sui meccanismi di infezione delle crittogame parassite, assai più specializzate, nella scelta dei propri ospiti, quindi dalle modalità di propagazione di individuazione più difficile.
Convinto di avere identificato, a conclusione delle proprie osservazioni meteorologiche, nessi costanti e univoci tra le alterazioni patologiche del frumento e specifici eventi climatici, per ciascuna delle malattie del grano il conte ravennate propone una spiegazione di natura fisiologica: uno specifico contesto di circostanze climatiche sarebbe la causa, cioè, di ogni alterazione dei processi vitali delle piante, di cui provocherebbe peculiari deformazioni morfologiche compromettendone le capacità produttive. Una spiegazione non priva di razionalità, tanto sul piano formale quanto su quello biologico: sul primo costituirà, infatti, principio canonico della fitopatologia l'assioma che a identità di cause patogene corrisponda identità di effetti eziologici, sul secondo siccome le crittogame che delle malattie studiate da Ginanni costituiscono le cause si sviluppano in relazione a particolari circostanze climatiche, che ne costituiscono condizione necessaria. Tanto che ad annate dal decorso analogo corrisponde l'infierire delle medesime infezioni crittogamiche.
«Dalle ree costituzioni dell'aria sarà forza il dire -scrive il conte Ginanni al capitolo I della terza parte del proprio lavoro-, che derivino le ruggini principalmente... Più fiate mi è ciò accaduto di considerare in alcuni campi voluti da me con diligenza scrupolosissima esaminare, perchè li ho veduti coperti di ruggine, quando pochi momenti prima gli aveva lasciati di bella messe ripieni. Vengono di buon mattino, perchè in quel tempo si contraggono... Ed ecco dunque, che nel freddo della notte non proporzionato al caldo del giorno antecedente hanno queste malvage costituzioni dell'aria l'essere loro, quantunque alcuna volta al senso nostro non appariscano.»
Postulando l'interazione tra i processi vitali ed i fenomeni atmosferici la spiegazione di Ginanni non costituisce che lo sviluppo dell'ipotesi fisica di Galileo, che il patrizio ravennate si premura di menzionare:
«Ma fors'anche potrebbe dirsi -leggiamo al paragrafo 11 del medesimo capito-, che quando si posa sulle foglie della vite, e sopra altre frondi, o piante una quantità di stille minutissime di figura ritonda, e sferica, i raggi del Sole, passando per quelle piccolissime sferette, percuotano per refrazione la foglia, che ad esse soggiace, sicchè nel medesimo modo, che gli stessi raggi passando per una palla di cristallo, o per una caraffa piena di acqua, e percuotendo sull'esca, e sul panno, o altra cosa simile, la riscaldano, e accendono, così anche passando per que' piccoli globetti, vengano a riscaldare talmente la foglia, o il germe, sopra cui posano, che l'inaridiscano, e secchino affatto... Sembra, che questa fosse opinione dell'immortale nostro Galilei.»
«Nella filiggine del grano sembrami di poter rinvenire -leggiamo al capitolo successivo- un'alterazione dell'alimento, per cui il morbo si faccia intrinseco, e tronchi nella spiga l'azion regolata del sugo nutritivo, e sì tutta la corrompa... Per le sopra descritte esperienze io metto bensì in considerazione, se si possa giustamente sospettare, che la cagion interna immediata di essa malattia derivi da qualche impressione esterna, la quale impedisca che il liquido, filtrandosi per la sostanza glandulosa, e fistolare delle radici, separi poi liberamente... le parti, che a lui non convengono... Un calore straordinario, breve, e cocente porterà forse più di ogni altra cosa questa impressione malvagia della spighetta.» «Perchè a me sembra di poter dire, che il grano carbone -scrive il conte ravennate nel terzo capitolo della stessa parte dell'opera- tragga nascimento da un difetto organico, che consista in certa tessitura meno perfetta, e naturalmente debole delle fibre di alcuni germi del seme medesimo...
Tali germi dunque di struttura debole, e meno perfetta non assodati da verun ajuto esterno possono talvolta non solo il grano carbone generare, ma quelle pianticelle del grano anche, le quali mettano le loro spighe con alcuni granellini di struttura similmente debole, e difettosa, secondo le disposizioni, che in loro si trovano.»
Sono mere enunciazioni verbali, cui non corrisponde, nella realtà biologica, alcun fenomeno obiettivo. Incapace di identificare il meccanismo del processo patologico che si è proposto di indagare, il patrizio ravennate si abbandona all’elucubrazione su meccanismi fisiologici di cui la scienza del suo tempo non conosce la natura, sui quali le sue argomentazioni costituiscono mere esercitazioni dell’immaginazione. Il fenomeno della nutrizione, l’assorbimento radicale, la traspirazione, sono processi destinati a costituire oggetto della ricerca naturalistica e agronomica nei cento anni che seguiranno la pubblicazione delle Malattie del grano. Il cui autore guadagna, col proprio elegante trattato, un posto tra i dotti che hanno apprestato le condizioni linguistiche e lessicali per la nascita della biologia, non conquista, per la contraddittorietà delle proprie osservazioni, un posto tra i naturalisti che della nuova scienza saranno ricordati come gli artefici, mancando di iscriversi nel novero degli scienziati italiani che nello spirito di Galileo, sulle orme di Redi e Malpighi additano il cammino alla ricerca biologica prima che l’Italia si eclissi, nell’età del trionfo della scienza dell’Occidente, dal proscenio sul quale sono stati italiani i primi protagonisti.