Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte III/Libro II/Capo I
Questo testo è completo. |
◄ | Parte III - Libro II | Libro II - Capo II | ► |
Capo I.
Poesia.
Per qual ragione e come la poesia prima delle altre belle arti s’introducesse in Roma.
I. Come di molte altre nazioni, così ancor de’ Romani avvenne che la prima tra le belle arti che tra loro ebber ricetto, fu la poesia. A che non solo dovette concorrere il piacere che essa naturalmente arreca, ma il fiorire
ancor ch’ella faceva allora nella Sicilia, e probabilmente anche nella Magna Grecia. Tra i diversi generi di poesia, la teatrale ebbe il vanto di esser prescelta. Io so bene che qualche abbozzo, per così dire, di teatral poesia erasi già veduto in Roma, ma così rozzo che appena ne merita il nome. Se n’è parlato di sopra trattando degli Etruschi, e si può vedere ciò che ne dice il Quadrio (t. 4 p. 37, ec.), e noi ancora vedrem frappoco in che consistesse. Livio Andronico fu il primo che in Roma la coltivasse, appena la prima guerra Cartaginese ebbe fine. Livio, dice Cicerone (De Cl. Orat. n. 18), il quale il primo, nel consolato di C. Clodio figliuol di Appio Cieco e di M. Tuditano, pose sulla scena un azion teatrale, l’anno innanzi alla nascita di Ennio, cioè l’anno 514 dopo la fondazion di Roma, come dice l’autore che noi seguiamo (cioè Attico), perciocchè intorno al numero degli anni vi ha controversia tra gli scrittori. In fatti ne’ Fasti Capitolini i due consoli mentovati si veggon segnati l’anno precedente; e Cicerone stesso altrove più dubbiosamente ragiona di quest’epoca: Circa 510 anni, egli dice (Tusc. Quaest.l. 1 in Exord.), dopo la fondazion di Roma Livio rappresentar fece una favola teatrale, essendo consoli C. Claudio (che è lo stesso che Clodio) figliuol del Cieco e M. Tuditano, un anno innanzi al nascer di Ennio. Il che per ultimo da Gellio ancor si conferma (Noct. Att.l. 17, c. 21): Essendo consoli (C. Claudio) Centone figliuol di Appio Cieco e M. Sempronio Tuditano, Livio prima d ogni altro rappresentar fece in Roma una favola teatrale.
Teatro introdotto in Roma da Livio Andronico.
II. Noi abbiamo dunque l’autore della prima azion teatrale che si vedesse in Roma, e l’epoca ancora ne abbiamo, che noi coll’autorità de Fasti Capitolini fisseremo all’anno 513. Piacemi a questo luogo di riportare il passo dello storico Livio, ove tutta l’origine del teatro romano, e ciò che da Andronico vi fu primamente introdotto, diligentemente descrive: Poichè la violenza della peste, dic’egli all’anno di Roma 389 (Dec. 1, l. 7), nè per umano consiglio, nè per divino aiuto non rimetteva, dicesi che tra le altre cose a placar lo sdegno de’ Numi adoperate, i giuochi scenici ancora s’introducessero; oggetto nuovo a quel popolo bellicoso che gli spettacoli soli del Circo avea finallora veduti. Fu questa nondimeno allora, come esser sogliono tutti i principii, cosa tenue e presa ancora dagli stranieri. Alcuni giocolieri fatti venir dall’Etruria, senza versi di sorta alcuna, a suon di flauto saltando menavano alla maniera loro non isconce danze. La gioventù romana prese poscia ad imitarli, scherzando vicendevolmente tra loro con rozzi versi, e saltando in maniera alle cose che essi dicevano adattata. Ebbe plauso la cosa, e col frequente ripetersi venne in uso. Gli attori detti furono istrioni dall’etrusca parola ister con cui appellavansi i giocolieri; e non usavano già più essi i rozzi e mal tessuti versi fescennini, ma una specie di satira composta a metro, e accompagnata da canto e da salto regolato a suono di flauto. Livio fu il primo, alcuni anni dopo, che, lasciate le satire, osò di prendere un determinato argomento dell’azion teatrale, recitando egli stesso, come tutti allora solevano, i proprii versi. Di lui raccontasi che essendoglisi pel frequente venir sul teatro offuscata la voce, chiestane licenza al popolo, trasse sulla scena un servo che accompagnato dal flauto cantasse i versi, a se riserbando il gesto e l’atteggiamento. Il che riuscigli più felicemente ancora di prima, poichè non era occupato e distratto dal maneggiar della voce. Di là si prese il costume che al gestire de’ comici da altri si canti, e ch’essi colla lor voce recitino i diverbii solamente ossia i dialogi. Intorno alle quali ultime parole, che non son certo chiare di troppo, puossi vedere un’erudita dissertazione di M. Du Clos Sull’Arte di dividere l’azion teatrale, e di porre in nota la declamazione che pretendesi essere stata in uso presso i Romani (Mem. de l’Acad. des Inscr. t.21, p. 191).
Di qual Grecia ei fosse natio.
III. Ed ecco in brevi parole la storia dell’origine e de’ progressi del romano teatro. Ma del primo, per così dire, autore di esso convien dire qualche cosa più distintamente. Dicesi dalla più parte degli scrittori che Livio Andronico fosse greco di nascita, che Andronico fosse il solo vero suo nome, e che essendo schiavo di Livio Salinatore, i cui figliuoli istruiva, e da lui posto in libertà, per gratitudine al suo benefattore prendessene, come era ordinario costume, anche il nome, e fosse poi detto Livio Andronico. Ma queste asserzioni non sono senza qualche difficoltà, la qual per altro non so se da altri sia stata ancora osservata. Che Andronico fosse greco, facilmente il persuade lo stesso suo nome: lo conferma in qualche modo Svetonio, che I chiama (De Illustr. Grammat, c. 1) Ennio e Livio, e più chiaramente Terenziano Mauro: Livius ille vetus grajo cognomine (De Metris). Ma non si potrà facilmente spiegare per qual maniera, se greco veramente era Livio, venisse egli in poter de’ Romani, e fosse loro schiavo, perciocchè niuna guerra e niun commercio aveano fin allora avuto i Romani co’ Greci. È dunque a dire che nativo egli fosse della Magna Grecia, la cui conquista avendo terminata i Romani l’anno 487, come si è detto, egli è verisimile che nelle guerre contra i Romani da que’ popoli sostenute e’cadesse nelle loro mani1. Quindi non alla Grecia veramente, ma all’Italia appartiene il vanto di aver dato a Roma il primo autor di tragedie e di commedie latine. Che Andronico poi fosse schiavo di Livio Salinatore, benchè da tutti i moderni autori e singolarmente dal Dacier (I t.2, p. 187) e dal Quadrio (L p. 41) costantemente si affermi, io non ne trovo indicio presso autore antico, trattane la Cronaca Eusebiana; e quando pure ei fosse stato schiavo di un Livio, il che dal nome ch’ei prese rendesi verisimile, pare che non di Livio Salinatore ciò debba intendersi, perciocchè questi non fu console che l’anno 534, ma di alcun altro della stessa famiglia2.
Sue opere teatrali ed altre poesie.
IV. Molte favole teatrali egli compose, la più parte tragedie. Tredici sono quelle i cui titoli sono stati dal Fabricio diligentemente raccolti (Bibl. Lat. t.2,l. 4, c. 1). Ma i soli titoli appunto ce ne sono rimasti, e alcuni pochi frammenti, che sono stati inseriti nella Raccolta degli antichi poeti stampata in Ginevra l’anno 1611, poscia pubblicati di nuovo e diligentemente illustrati dal Vossio (vol. 4 ejus Oper.). Le quali due edizioni sono comuni a tutti gli altri poeti di cui solo ci son rimasti frammenti; e basti perciò l’averle qui rammentate per non doverle accennare di nuovo quando degli altri ragioneremo. Fu egli ancor destinato, come abbiam dallo storico Livio (l. 27, c. 37), a comporre un inno che l’anno di Roma 546 doveasi da ventisette verginelle a placare lo sdegno degl’iddii solennemente cantare. Inoltre l’Odissea di Omero tradusse egli in versi latini jambici, di cui qualche picciol frammento abbiam avuto da Gellio (l. 7, c. 7, ec.). Cicerone
delle poesie di Livio ha portato poco favorevol giudizio; e certo i frammenti che ce ne sono rimasti, non ce ne danno una troppo vantaggiosa idea. L’Odissea latina paragonata viene da Cicerone (De Cl. orat. n. 18) a una di quelle antiche statue che a Dedalo venivano attribuite, le quali altro pregio non avevano finalmente che quello del loro creduto autore; e de’ teatrali componimenti dice che degni non erano di essere letti due volte. Ma ciò non ostante deesi ad Andronico gran lode, come a primo inventor tra’ Latini di quel genere di poesia che poscia più facilmente da altri fu a maggior perfezione condotto. Orazio ancora ci attesta che il severo suo maestro Orbilio dettavagli i versi di questo poeta, i quali benchè confessi esser rozzi ed incolti non vuole però che si sprezzino, e gettinsi come indegni d’esser conservati.
Non equidem insector, delendaque carmina Livi
Esse reor, memini plagosum quae mihi parvo
Orbilium dictare; sed emendata videri,
Pulcraque, et exactis minimum distantia, miror:
Egli introduce anche in Roma lo studio degli antichi scrittori.
V. Benchè a questi tempi non vi avesse in Roma alcuno di que’ precettori che detti furon Gramatici, come poscia vedremo, Livio cominciò nondimeno a dare un saggio, per così dire, di quest’arte. Perciocchè di lui e di Ennio dice Svetonio, che Graece interpretabantur (De Ill. Gramm. c. 1), e che essi e nell’una e nell’altra lingua ammaestravano e in Roma e fuori; parole non troppo facili a intendersi; poichè Svetonio non vuol certo dire che essi fosser gramatici di professione, soggiugnendo subito egli stesso che il primo gramatico fu Cratete di Mallo molti anni dopo. Sembra dunque che così intender si debba, che ad alcuni cittadini bramosi di avanzar negli studi sponessero essi or in greco, or in latino, come quegli bramavano, i migliori autori tra’ Greci, che altri allora non ve n’avea degni d’esser proposti a modello di colto stile. Un altro vanto converrebbe accordar a Livio, se attener ci volessimo all’autorità di Diomede, o, a dir meglio, di alcune edizioni che di questo antico gramatico abbiamo. Epos Latinum, così leggesi nella edizion veneta del 14<)5, e in quella di Giovanni Cesario (l. 3), primus digne scripsit Livius, qui res Romanorum decem et octo complexus est libris, qui et Annales inscribuntur, quod singulorum fere annorum actus contineant. Ma, come ben osserva il
Vossio (De Hist Latin.l. 1, c. 2), nulla di ciò abbiamo presso gli antichi scrittori, e i dieciotto libri di Annali da Ennio furono scritti, e non da Livio. Pare dunque che Ennius debba ivi leggersi, e non Livius, ovvero che ometter si debba la voce Livius, come è veramente nell’edizion de’ Gramatici fatta dal Putschio, ove leggesi solo scripsit is, qui res, ec.
Epoche della vita del poeta Nevio.
VI. Gneo Nevio nativo della Campania fu il secondo de’ latini poeti che fiorisse in Roma. Egli visse a un dipresso al tempo stesso di
Livio; perciocchè sappiamo, per testimonianza di Varrone presso Gellio, che ei militò nella prima guerra Cartaginese. Ecco le parole di questo autore (l. 17, c. ult.): L’anno dopo la fondazion di Roma 519, Spurio Carvilio Ruga fu il primo in questa città che dalla moglie per divorzio si separasse.... e nello stesso anno Gneo Nevio poeta rappresentò al popolo le sue favole teatrali; di cui scrive Varrone nel primo libro de’ Poeti, che militato aveva nella prima guerra Cartaginese, e che ciò da Nevio stesso diceasi nel poema che intorno a quella guerra egli scrisse. Il tempo ancor della morte coincide con quello della morte di Livio. Questi visse almeno fino all’anno 546, come si è detto; e Nevio morì essendo consoli P. Sempronio Tuditano e M. Cornelio Cetego, cioè, secondo i Fasti Capitolini, l’anno 549. Ma Varrone vita ancora più lunga concede a Nevio. Tutto ciò abbiamo da Cicerone. Cetego, dic’egli (De Cl. Orat. n. 15), fu console insieme con P. Sempronio Tuditano nella seconda guerra Cartaginese. Nel consolato di questi, come si ha nelle antiche memorie, morì Nevio, benchè Varrone diligentissimo ricercatore dell’antichità a più lungo tempo ancora ne stende la vita.
Sue commedie, e vicende per esse sostenute.
VII. Fu dunque Nevio pressochè allo stesso tempo di Livio; ma più tardi di lui; cioè sei anni dopo, salì sul teatro, mosso probabilmente dall’esempio di Livio, e dal plauso che a lui vedeva farsi dal popolo. Undici, parte tragedie, parte commedie, da lui composte annovera il Fabricio (Bibl. Lat.l. 4 > c. 1), e molte altre ancora se ne veggon citate negl’Indici nella sua Biblioteca inseriti. Ma fatali riuscirono al poeta le sue stesse commedie. Piacevasi egli all’usanza de’ Greci di mordere e dileggiar co’ suoi versi or l’uno, or l’altro de’ più possenti cittadini di Roma. Ne abbiamo un saggio in un suo verso presso il Vossio (De Histor. Lat.l. l, c. 2) in cui insultando Metello, che al consolato in età assai giovenile era salito, dice che per fatale sventura di Roma facevansi consoli i Metelli:
Fato Romae fiunt Metelli consules.
Risposegli Metello con altro verso dallo stesso Vossio riferito:
Dabunt malum Metelli Naevio poetae.
Ciò dovette accadere l’anno 547 di Roma, in cui appunto fu console Q. Cecilio Metello. Ma questi non fu pago di aver renduto verso a verso; e, secondato probabilmente da altri irritati essi pure dal satirico motteggiar di Nevio, fece per mezzo de’ Triumviri arrestare e incarcerare l’infelice poeta. Questi veggendo l’amaro frutto che dal suo satireggiare gli era venuto, due altre commedie compose in prigione, in cui ritrattò in qualche maniera le ingiurie che contro di alcuni aveva prima scagliate; e quindi tratto di carcere riebbe la libertà. Tutto ciò vien narrato da Gellio: Di Nevio ancora sappiamo, dice egli (l. 3, c. 3), che due commedie compose in carcere, l’Ariolo e il Leonte, essendo egli stato da’ Triumviri incarcerato per la continua maldicenza, e per l’ingiurie dette contro i principali della città, secondo il costume de’ poeti greci; donde poi da’ tribuni della plebe fu tratto, avendo colle due mentovate commedie ritrattate le ingiurie e i motteggi con cui aveva per l’addietro offesi molti. Quindi io non so onde abbia tratto il Quadrio (t. 4, p. 43) che Scipione singolarmente fosse oltraggiato da Nevio, e che egli perciò fosse ancora il principale autore della sua prigionia; e non so pure per qual ragione egli chiami favolosi poemi (t. 6, p. 472) le due commedie da Nevio composte nella sua carcere; poichè chiamandosi esse da Gellio colla voce latina fabulae, con cui poco innanzi avea nominate ancora le comedie di Plauto, sembra evidente che di commedie appunto voglia egli favellare a questo luogo ancora3.
Circostanze della sua prigionia.
VIII. A questo incarceramento di Nevio pare che volesse alludere Plauto, il quale allora fioriva, in que’ due versi della commedia intitolata Miles gloriosus, ne quali egli dice (act. 2, sc. 2):
Nam os columnatum poëtae inesse audivi barbaro,
Quoi bini custodes semper totis horis accubant.
Il nome di barbaro dato qui a Nevio non è già nome di dispregio e d’insulto; ma come Plauto, a somiglianza di tutti gli antichi poeti latini, da’ poeti greci traeva gli argomenti delle sue commedie, e greci personaggi introduceva sulla scena, così faceagli ancor parlare all’usanza de’ Greci, presso i quali il non esser Greco era lo stesso che esser barbaro. Quelle parole os columnatum vuolsi verisimilmente dagl’interpreti che usate fossero da Plauto a spiegare un cotale atteggiamento di Nevio, allor quando stavasi pensieroso, cioè il sostenere e far colonna, per così dire, del braccio e della mano al mento. I due custodi spiegansi da Jacopo de l’Oeuvre (in Notis ad Plaut. ad usum Delph.) e da alcuni altri interpreti per due cani che star solessero sempre a’ fianchi di Nevio; ma più probabile sembra l’opinion del Vossio (loc. cit.) che disegnino i due sgherri che stavano a custodia del poeta prigione. Egli ne fu poi tratto, come si è veduto di sopra; ma s’egli è vero che morisse l’anno 549, convien dire che e breve fosse la prigionia, e poco tempo dopo esserne uscito, di nuovo incorresse l’indegnazione de’ grandi; perciocchè nella Cronaca Eusebiana all’olimp. cxliv, che corrisponde al suddetto anno, abbiamo che Nevio morì in Utica, cacciato da Roma per la fazione de’ nobili e singolarmente di Metello.
Sue Opere.
IX. Le tragedie e le commedie non furon le sole che celebre a suoi tempi rendessero questo poeta. La storia romana ancora fu da lui illustrata, perciocchè scrisse in versi la prima guerra Cartaginese. Pare che Ennio della gloria di Nevio fosse invidioso rivale; perciocchè ne’ suoi Annali recando la ragione per cui della prima Punica guerra non prendeva egli a parare, dice:
Scripsere alii rem
Versibu’, quos olim Fauni vatesque canebant,
Cum neque Musarum scopulos quisquam superarat,
Nec dicti studiosus erat.
Così egli la rozzezza dello stile rimprovera a Nevio, e il men armonico metro da lui usato, perciocchè non aveva già egli scritto in versi esameri, ma in certi più rozzi versi che detti eran Saturnii (V. Festum in “Saturnus„); e a sé attribuisce il vanto di aver prima d’ogni altro superato il Pindo e poetato con eleganza. Ma è da udire in qual modo prenda Cicerone a ribatter l’accusa di Ennio, e a difender Nevio. La guerra Punica di Nevio, egli dice (De Cl. Orat. n. 19), il quale da Ennio vien posto tra’ Fauni e tra gli antichi indovini, a me piace non altrimenti che una statua di Mirone. Sia pure Ennio, com’è certamente, più perfetto poeta: se egli, come mostra di fare, avesse Nevio in disprezzo, non avrebbe già, descrivendo le guerre tutte, ommessa la prima Cartaginese che fu sì atroce. Ma egli stesso reca la ragione ch’ebbe di così fare. Altri, dice, l’hanno descritta in versi. Sì certo, e eloquentemente l’hanno descritta, benchè con istile men colto di quello che tu usasti, tu, dico, che o dei confessare di aver prese molte cose da Nevio, o sarai convinto di avergliene rubbate molte, se il nieghi. Anzi un altro poema ancor egli scrisse, intitolato: Iliados Cypriae, il cui primo e secondo libro si veggon citati da Sosipatro Carisio e da Prisciano nella raccolta de’ Gramalici latini del Putschio (p. 118 e 881). Dalle quali citazioni veggiamo che questo poema fu da Nevio scritto in versi eroici; perciocchè Sosipatro questo verso ne arreca:
Collum marmoreum torquis gemmata coronat;
E Prisciano quest’altro:
Faecundo penetrat penitus thalamoque potitur.
Di questo poema parla ancora il Quadrio (t. 6 I. 472). Ma mi fa maraviglia ciò che questo autore altrove dice di Nevio (ib. p. 623), cioè ch’egli fu nella sua Arte poetica da Orazio deriso, perchè un poema sulla guerra di Troia cominciato aveva con questo verso:
Fortunam Priami cantabo et nobile bellum.
Io. non so certo ove abbia trovato il Quadrio, che Nevio scrivesse un poema sulla guerra di Troia, perciocchè di tutt’altro argomento egli trattava nella sua Iliade Cipria, cioè delle guerre d’amore; e non so pure ove abbia egli trovato che Orazio a quel luogo parli di Nevio. Il poeta che Orazio deride, non con altro nome è da lui chiamato che con quello di poeta da piazza: scriptor cycheus; la qual espressione non vedo come a Nevio convenga. Ma somiglianti errori anche nelle opere de’ più dotti uomini s’incontran talvolta.
Notizie de’ primi anni di Ennio.
X. A questi due poeti fu contemporaneo Ennio. A qual anno ei nascesse, l’abbiam già veduto di sopra coll’autorità di Cicerone, cioè nell’anno di Roma 514, Morì, come lo stesso Tullio altrove afferma (De Senect n. 5), nel consolato di Cepione e di Filippo in età di anni settanta, e appunto furono questi consoli fanno 584- Fu egli nativo di I in Calabria. Qual luogo precisamente sia questo, si è in questo secolo disputato assai (V. Calogerà Raccolta d’Opusc. t. 4, 5, 11). A chi scrive la Storia della Letteratura Italiana poco importa il cercarne. Basta ch’ei fosse italiano, perchè in quest’opera debba aver luogo. Non si sa per qual ragione egli passasse all’isola di Sardegna; ma vi fu certamente. Silio Italico cel rappresenta qual valoroso capitano nella guerra in cui T. Manlio soggiogò di nuovo quegl’isolani che contro la repubblica eransi ribellati. Piacemi di qui riferire tutto il passo di questo poeta, che alcune conghietture intorno alla vita di Ennio potrà somministrarci. Così dunque egli dice (Punicor. lib. 12, v. 393, ec.).
Ennius antiqua Messapi ab origine regis
Miscebat primas acies, Latiaeque superbum
Vitis adornabat dextram decus: hispida tellus
Miserunt Calabri: Rudiae genuere vetustae,
Nunc Rudiae solo memorabile nomen alunmo.
Is prima in pugna (Vates ut Thracius olim
Infestam bello quateret cum Cyzicus Argo
Spicula deposito Rhodopeia pectine torsit)
Spectandum se se non parva strage virorum
Fecerat et dextrae gliscebat caedibus ardor.
Advolat, aeternum sperans fore, pelleret Hostus
Si tantam labem, et perlibrat viribus hastam.
Risit nube sedens magni conamina caepti,
Et telum procul in ventos demisit Apollo;
Ac super his: Nimium juvenis, nimiumque superba
Sperata hausisti. Sacer hic, ac magna sororum
Aonidum cura est, et dignus Apolline vates.
Hic canet illustri primus bella Itala versu,
Attollelque duces coelo; resonare docebit
Hic Latiis Helicona modis, nec cedet honore
Ascraeo famave seni: sic Phoebus; et Hosto
Ultrix per geminum transcurrit tempus harundo.
Così Silio, il quale benchè con poetica finzione adorni questo racconto, non deesi credere nondimeno che finto abbialo interamente; poichè veggiamo che nel suo poema egli si attiene fedelmente alla storia. Egli dice che Ennio discendeva Messapi ab origine regis, perchè, come Servio afferma (Ad l. 7 Aeneid. v. 691), vantavasi Ennio di discendere da Messapo; ma non so se facil cosa fosse per riuscirgli il provar questa sua genealogia con autentici documenti. Certo ei visse povero, come fra poco vedremo. Quelle parole: Latiaeque superbum vitis adornabat dextram decus, ci mostrano ch’egli era centurione ossia capitano, perciocchè insegna di questa dignità era appunto il ramo di vite (V. Dan. Heinsium in notis ad hunc loc.). Ma questo è ciò che muove non picciola difficoltà. La guerra di sopra accennata accadde nell’anno di Roma 538, quando Ennio, nato l’anno 514 non contava che ventiquattro anni d età. Or che uno straniero e povero, come era Ennio, salisse al grado di capitano in età sì fresca, non pare che agevolmente si possa persuadere. Ma io rifletto che Silio di lui dice che da’ Calabresi era stato mandato: hispida tellus miserunt Calabri. Non par dunque improbabile che Ennio fosse condottiero delle milizie che i Calabresi per ordine de’ Romani costretti fossero a mandare in Sardegna; e se essi eran persuasi ch’ei traesse da Messapo la sua origine, non è improbabile che, benchè giovane, il ponessero al comando delle lor truppe.
Sua vita in Sardegna.
XI Checchessia di ciò, pare che Ennio, finita la guerra, continuasse a vivere in Sardegna. Aurelio Vittore racconta che Catone soggiogò la Sardegna di cui era pretore; e che ivi fu da Ennio istruito nelle lettere greche (De Viris Illustr. c. 47)- Ma, in primo luogo, io trovo bensì che Catone in Sardegna cacciò dall’isola gli usurai (I.l. 32, c. 27); ma che vi guerreggiasse, nol trovo. In secondo luogo, tutti i più antichi scrittori affermano che Catone nell’estrema vecchiezza soltanto si volse alla greca letteratura (Cic. de Senect. n. 5 et 8; Quintil.l. 12, c. 11; Plutarch. in Vit. Caton.). Or egli fu pretore in Sardegna nel consolato di C. Cornelio Cetego e Q. Minuzio Rufo l’anno di Roma 556 (Liv.l. 32, c. 27); e quindi essendo egli nato, come Cicerone gli fa dire nel dialogo della Vecchiezza (n. 4), l’anno innanzi al primo consolato di Q. Fabio Massimo, cioè l’anno di Roma 519, non contava quando fu pretore in Sardegna che trentasette anni di età; e troppo era lungi perciò da quell’estrema vecchiezza in cui soltanto a’ greci studi egli si volse. Più probabile è ciò che racconta Cornelio Nipote (in vit. Caton.), cioè che Catone essendo pretore, ebbe a suo governo la provincia della Sardegna, della quale essendo in addietro questore, aveva partendone condotto seco il poeta Ennio, il che non ci sembra da pregiar meno di qualunque trionfo egli avesse da quell’isola riportato. Catone fu questore l’anno di Roma 549 (I.l. 29, c. 25). Io non trovo veramente in altro autore ch’egli in quell’anno fosse in Sardegna; ma come ei fu coll’armata che da Roma tragittò in Africa, non è improbabile che gli si offerisse occasione di farvi una discesa, e che seco ne conducesse il poeta che allora doveva essere nell’anno trentesimo quinto di sua età.
Poscia in Roma.
XII. Così condotto Ennio a Roma, continuò a mostrarvisi eccellente poeta a un tempo e valoroso guerriero. Abbiamo da Cicerone (Or. pro Archia n. 11) che fu egli insieme col cons. M. Fulvio soprannomato Nobiliore alla guerra di Etolia, che accadde l’anno di Roma 564. Ciò che in questo vi ha di strano, si è che quel Catone medesimo il quale in sì grande stima avea avuto Ennio, che degno avealo riputato di esser condotto a Roma, degno giudicò di rimprovero questo console, perchè seco condotto aveva qualche poeta. Così ci assicura Cicerone, il quale di ciò si vale a provare che in poco pregio erano allora i poeti: che poco onore, dic’egli (Tusc. Quaest.l. 1, n. 2), si rendesse allora a.’ poeti, il mostra l’orazion di Catone, con cui rimproverò a Marco Nobiliore l’aver seco condotto nella sua provincia qualche poeta: or egli, come sappiamo, condotto avea Ennio nell’Etolia. Ma forse non il poetico, ma il guerriero valore avea Catone onorato in Ennio, ovvero degni di onore riputava egli i poeti, ma al tempo di guerra meno opportuni. Sopra tutti però fu Ennio caro al famoso Scipione Africano il Maggiore, di cui fu quasi in tutte le guerre indivisibil compagno. Fu Scipione imo de’ primi eroi della romana repubblica, che alla gloria dell armi quella ancor delle lettere felicemente congiunse; ed Ennio fu uno de’ dotti uomini cui egli anche in mezzo al rumore dell’armi godeva di avere a’ fianchi. Quindi di lui disse Claudiano (De Laud. Stilic.):
Haerebat doctus lateri, castrisque solebat
Omnibus in medias Ennius ire tubas.
Un altro Scipione ancora soprannomato Nasica fu confidentissimo amico di Ennio, e ne è prova lo scherzevole proverbiarsi che fecero a vicenda, al dire di Cicerone (Il. 2, n. 68), in occasion di una visita fattasi scambievolmente, in cui finsero amendue di non essere in casa. Il fatto è troppo noto per essere qui riferito distesamente. Molto fu egli inoltre onorato da Q. Fulvio figliuol del cons. M. Fulvio, di cui poc’anzi si è detto, come ben si raccoglie da ciò che narra Cicerone, cioè ch’egli essendo secondo il costume del padre amator delle lettere, diè la cittadinanza a Q. Ennio che col padre di lui militato avea nell’Etolia (De Cl. Orat. n. 20).
Suoi costumi.
XIII. Questa amicizia co’ più ragguardevoli cavalieri romani, a cui ebbe Ennio l’onor di arrivare, ci fa vedere che uomo ancora egli era di amabili maniere e di onorati costumi. Infatti Gellio, recando un passo tratto dal libro settimo degli Annali da lui composti, in cui il carattere e le virtù descrive d’un uomo onesto, dice (l. 12, c. 4) essere sentimento di alcuni che se stesso ei descrivesse in que’ versi. Pare nondimeno che amasse il soverchio bere. Tale certo cel dipinge Orazio, fors’anche per discolpar se medesimo:
Ennius ipse pater numquam nisi potus ad arma
Prosiluit dicenda.
L. 1, ep. 19.
E questa fu probabilmente l’origine della podagra a cui fu egli soggetto, e che finalmente l’uccise. Questa almeno è la ragione che del suo male arreca un medico antico (Serenus Sammon. de Medicina c. 37):
Ennius ipse pater dum pocula siccat iniqua,
Hoc vitio tales fertur meruisse dolores.
Di lui narra Cicerone (De Senect. n. 5) che sul finir di sua vita così lietamente soffriva que’ due incomodi che più di tutti son riputati molesti, la povertà e la vecchiezza, che pareva quasi goderne.
Sua morte.
XIV. Scrivono alcuni che nel sepolcro medesimo di Scipione ei fosse sepolto; ma pare ch’essi si appoggino a un passo non ben inteso di Cicerone. Carus fuit, dic’egli (Pro Archia n. 9), Africano superiori noster Ennius; itaque etiam in sepulchro Scipionum putatur is esse constitutus e marmore. Dove alcuni per avventura alla sola parola constitutus ponendo mente, pensarono che del corpo di Ennio ivi sepolto si ragionasse. Ma chiaro è dalle parole di Tullio, che non si parla ivi che di una statua di marmo. Livio ancora, dopo aver detto che molte cose intorno a Scipione sono dubbiose, e singolarmente in qual anno egli sia morto (nel che però ella è opinione comune che fosse verso il 566) e in qual luogo sepolto, se in Literno ove egli sdegnato della ingratitudine de Romani si ritirò, ovvero in Roma, così soggiugne (l. 38, c. 56): Romae extra portam Capenam in Sctipionum monumento tres statuae sunt, quarum duae P. et L. Scipionum dicuntur esse, tertia poëtae Q. Ennii4. Così
Cicerone e Livio, più vicini di tempo ad Ennio ed a Scipione, della statua di questo poeta favellano come di cosa non abbastanza certa.
Valerio Massimo (l. 8, c. 14, n. 1) e Plinio
il vecchio (l. 7, c. 30) di questa statua medesima fanno menzione come di cosa da non dubitarne. Così accade sovente che una cosa dapprima appoggiata a dubbiosa popolar tradizione, coll’andar del tempo, benchè niun nuovo argomento di certezza se le aggiunga, si spacci nondimeno per certa.
Suo stile.
XV. Quanto allo stile delle poesie di Ennio, tutti convengono che il primo padre egli fu della poesia latina e del poema epico singolarmente; e quindi n’è venuto il nome di Padre, con cui suole egli esser chiamato, come ne passi di Orazio e di Sereno Sammonico si è di sopra veduto. Questa lode medesima da Lucrezio gli vien confermata:
Qui primus amaeno
Detulit ex Helicone perenni fronde coronam,
Per gentes Italas hominum quae clara clueret
Virgilio ancora faceane grande stima, benchè usasse di dire che dalle lordure di Ennio ei raccoglieva delle gemme. Di fatto molti versi di Ennio, che o interamente o in parte sono stati da Virgilio inseriti ne’ suoi poemi, ha raccolto Macrobio (Saturn.l. 6, c. 1, 2 e 3). Molto nondimeno risentono le poesie di Ennio dell’antica rozzezza, come da’ frammenti rimastici si raccoglie. Quindi da niuno per avventura è stato meglio descritto il carattere di Ennio, che da Ovidio con quel celebre verso:
Ennius ingenia maximus. arte rudis.
E saggiamente ancor Quintiliano (l. 10, c. 1); Noi dobbiamo venerare Ennio, come appunto que’ boschi per antichità venerandi, ne quali le alte annose querce più per un cotal sacro rispetto che per bellezza sono ammirate. Piacemi per ultimo riferir l’elogio che di Ennio abbiamo presso Vitruvio (l. 9, c. 3): Chiunque ha l’animo alla dolcezza degli ameni studi inclinato, non può a meno che, come appunto si fa degl’iddii, non porti seco l’immagine del poeta Ennio scolpita profondamente nel cuore.
Sue Opere.
XVI. Le opere da lui scritte sono in primo
luogo gli Annali ne’ quali le più ragguardevoli imprese de’ Romani e quelle singolarmente del suo
Scipione egli descrisse. Non divise egli gli Annali in libri; ma questa divisione fu poscia fatta
da un grammatico detto Q. Vargunteio. Soleva
questi, come narra Svetonio (De Ill. Gramm.
c. 2), in certi determinati giorni leggerli pubblicamente a numerosa assemblea che radunavasi a udirli. La qual costumanza pare che per
più secoli ancora durasse; poichè abbiamo da
Gellio (l. 18, c. 5) che a suo tempo era in Pozzuoli un cotale che nel pubblico teatro leggeva
al popolo ad alta voce gli Annali di Ennio, e
facevasi perciò chiamare Ennianista. Molte tragedie ancora, molte commedie e molti epigrammi e molte satire avea egli scritto, ed altre cose i cui titoli si possono vedere presso il
Fabricio (Bibl. Latl. 4, c. 1). Sembra inoltre
ch’ei fosse il primo che poemi, come sogliam
dire, didascalici componesse in Roma; perciocchè tra’ titoli delle opere da lui composte una
ne abbiamo intitolata Phagetica, in cui sembra
che delle cose a mangiare ei favellasse; e due
altri titoli, che sembrano di didascalico argomento, si rammentano dal Fabricio, cioè Protrepticus e Praecepta. Osserva per ultimo il
Quadrio (t. 4, p. 49) che Ennio osò il primo
di togliersi dagli argomenti greci che fin allora
si eran presi da’ poeti latini a suggetto delle
loro tragedie; e una ne scrisse di argomento
preso dalla storia romana, intitolata Scipione. I
frammenti che di lui ci sono rimasti, sono stati
varie volte posti alla luce e singolarmente da Girolamo Colonna l’anno 1590, la quale edizione fu poscia più pulitamente di nuovo fatta in Amsterdam l’anno 1707. Vuolsi ancora qui ricordare che Ennio giovò assai ad istruire i Romani negli ameni studi col leggere e interpretar loro i migliori autori. Veggasi ciò che su questo argomento si è detto poc’anzi di
Livio Andronico.
Epoche della vita di Plauto.
XVII. Quindici anni prima della morte di Ennio, cioè l’anno di Roma 569, era morto M. Accio Plauto, essendo consoli L. Porcio Licinio e P. Claudio che in quell’anno appunto, secondo i Fasti Capitolini, furono consoli, e non nel 575, come scrivono il Vossio (De Poet. Lat.l. 1) e il Quadrio (t. 5, p. 47)- L’epoca della sua morte è chiaramente fissata da Cicerone (De Cl. Orat. n. 15): Plauto, dic’egli, morì nel consolato di P. Claudio e di L. Porcio, venti anni dopo il consolato di quelli che sopra ho nominati (cioè Sempronio Tuditano e Cornelio Cetego consoli nel 549) essendo Catone censore. Nacque egli in Sarsina nell’Umbria; ma come e quando venisse a Roma, qual vita vi conducesse, in quale stima vi fosse, tutto è incerto. Par nondimeno che non solo onorevole, ma utile ancora gli fosse il poetare. Perciocchè Gellio col testimonio di Varrone e di molti altri racconta (l. 3, c. 3) che essendosi egli colle teatrali sue rappresentazioni arricchito assai, ed invogliato di crescere ancora in ricchezze, abbandonata la poesia, si volse alla mercatura, e partissi a tal fine da Roma. Ma troppo male riuscendogli i suoi disegni, tornossene a Roma in sì povero stato che fu costretto a porsi in conto di famiglio presso un mugnaio, e coll’aggirare la macina guadagnarsi il vitto, nel quale penoso esercizio tre altre commedie egli compose.
Sue commedie.
XVIII. A’ tempi di Gellio, circa cento trenta erano le commedie che sotto il nome di Plauto correvano per le mani. Ma egli stesso avverte (ib.) che molte falsamente gli venivano attribuite; e aggiugne che un certo Lelio, cui egli chiama eruditissimo uomo, diceva venticinque sole esser di Plauto, le altre essere di altri antichi poeti, ma ritoccate e ripulite da Plauto, il quale perciò di esse ancora erasi creduto autore. Di tutte queste commedie venti sole ci sono rimaste. Le lor diverse edizioni e i molti comenti sopra esse fatti si posson vedere presso il Fabricio che diligentemente secondo il suo costume gli ha raccolti (Bibl. lat.l. 1, c. 1). Noi al fine di questo volume accenneremo e le migliori edizioni e i comenti più utili e le eleganti traduzioni che ne abbiamo. Il che faremo di tutti gli autori de quali avverrà nel decorso di quest’opera di ragionare; perciocchè ci è sembrato che cosa troppo noiosa riuscirebbe, se ad ogni passo dovessimo, per così dire, arrestarci, e con lunga serie di editori, d’interpreti, di traduttori interrompere il corso di questa Storia.
Giudizio di esse,
XIX. Non tratterrommi io qui a riferire i diversi giudizii che delle commedie di Plauto si son portati. Che non sieno in ciò concordi i moderni, non è maraviglia. Non vi ha quasi autore intorno a cui non si trovino giudizi tra loro affatto contrarii non che diversi. Veggansi le opere di Tommaso Pope Blount (Censura celebriorum Auctorum) e di Adriano Baillet (Jugement des Sçavans, ec.), in cui hanno raccolto i pareri degli uomini dotti su’ dotti scrittori, e si conoscerà a prova che la medesima discordanza che vi ha tra gli uomini nel gusto che dipende da’ sensi, havvi ancora nel gusto ch’è proprio dell’intelletto. Maggior maraviglia ci può recare il riflettere che concordi in ciò non furono neppur gli antichi. Varrone soleva dire che se le Muse volessero latinamente parlare, non altro stile userebbono che quel di Plauto (Quint. l. 10, c. 1). Cicerone chiama gli scherzi di Plauto eleganti, colti, ingegnosi e faceti (De Offic. l. 1, n. 29). Orazio al contrario riprende gli antichi Romani (De Art. Poët.) che i motti e gli scherzi di Plauto troppo buonamente, per non dire scioccamente, lodarono. Io penso che l’uno e l’altro parere si possano di leggieri conciliare insieme. Plauto ha certamente uno stile grazioso, naturale e faceto: e i popolari costumi vi son dipinti con colori vivi al sommo e leggiadri. Ma egli sa ancora talvolta dell’antica rozzezza, e ciò che è peggio, agli scherzi onesti ed urbani molti ne aggiugne spesso indecenti e vili. Ma di Plauto ci tornerà occasione di ragionare quando favellerem di Terenzio, e l’uno coll’altro di questi due comici confronteremo.
Notizie di Cecilio Stazio e di Pacuvio.
XX. Più altri poeti ancora compositori di tragedie e di commedie fiorirono al tempo stesso, cioè verso il fine del secol sesto di Roma. Ma il trattenermi a lungo in ciò che a loro appartiene, recherebbe per avventura noia a’ Lettori, e mi ritarderebbe di troppo il giugnere a tempi e ad uomini ancor più illustri. Mi basterà perciò l’accennare in breve alcuna cosa di quei che tra essi giunsero a maggior fama. Furon dunque a que’ tempi Cecilio Stazio
scrittor di commedie, e Pacuvio di tragedie. Di Cecilio Stazio dice la Cronaca Eusebiana, che morì un anno dopo Ennio, che fu nativo della Gallia Insubrica, e che da alcuni si dice ch’e’ fosse milanese. Queste parole sono parute bastevoli al ch. Sassi (De Stud. Mediol. c. 5) e all’Argelati (Biblioth. Script. Mediol.) a poter dirlo accertatamente milanese di patria. Il Quadrio al contrario con ammirabile sicurezza, senza recarne prova alcuna, il fa comasco (t. 4, p. 47). Non potrei io dire ugualmente ch’ei fu cremonese, o pavese? Egli, come abbiamo da Gellio, fu schiavo in Roma (l. 4, c. 30). Pacuvio, come abbiamo dalla stessa Cronaca e da Plinio il Vecchio (l. 35, c. 4) nacque in Brindisi di una sorella di Ennio; e fu in Roma pittore insieme e poeta; quindi passato a Taranto, in età di novant’anni finì di vivere. Non è troppo vantaggioso il giudizio che di questi due poeti ci ha dato Tullio, perciocchè dice che amendue usarono di uno stil rozzo ed incolto (De Cl. Orat. n. 74); benchè altrove di qualche particolar passo di Pacuvio parli con lode (Tusc. Quaest.l. 2, n. 21. De Divin.l. 1, n. 57).
Quintiliano nondimeno dice (l. 10, c. 1) che Cecilio fu dagli antichi lodato assai, e che Pacuvio (come anche Accio di cui or parleremo) per la gravità de sentimenti, per la forza dell’espressione e per la dignità de’ suoi personaggi è degno di non ordinaria lode; e C. Lelio presso Cicerone (De Amic. n. 7) rammenta il singolare applauso che riportò la tragedia di Pilade e di Oreste da lui composta. Una dissertazione intorno alla vita di Pacuvio ha pubblicata l’anno 1763 in Napoli il can. Annibale di Leo, di cui non ho potuto vedere che un brevissimo estratto nella Gazzetta letteraria di Francia (t.6, p. 785).
Altri poeti comici
XXI. A questi ancora voglionsi aggiugnere
L. Accio ossia Azzio, di cui parla Cicerone (De Clar. Orat.), affermando ch’egli era di cinquant’anni più giovine di Pacuvio; e altrove (Pro Arch. n. 11), che D. Bruto volle che a’ tempi, a’ quali egli sospese avea le spoglie tolte a nemici, apponesse questo poeta suoi versi. Di lui dicesi nella Cronaca Eusebiana, che fu figliuolo di padre stato già schiavo in Roma. Ma intorno ad Accio veggasi singolarmente il co. Mazzucchelli (Scritt. Ital. t.1, Art. “Accio„) che assai diligentemente ne ha favellato. Inoltre
Afranio da Cicerone chiamato ingegnosissimo ed eloquente uomo (De Cl. Or. n. 45), e da Quintiliano ancora commendato assai (l. 10, c. 1), benchè a ragione il riprenda pe’ disonesti amori recati da lui sulla scena; e C. Tizio che nello stesso luogo vien rammentato da Cicerone; Turpilio, M. Acutico, ed altri che posson vedersi annoverati da que’ che han trattato de’ poeti latini, e singolarmente dal Vossio e dal Quadrio; i quali poeti tutti ho io voluti a questo luogo raccogliere, benchè alcuni di essi toccassero l’età seguente, perchè si vennero succedendo l’un l’altro, e nuova perfezione aggiunsero al romano teatro.
Notizie di Terenzio.
XXII. Ma non vuolsi così alla sfuggita nominare Terenzio, il quale, benchè fosse cartaginese di patria, ci sarà lecito nondimeno di aggiugnerlo a’ comici romani, tra’ quali ei visse, e da’ quali apprese il colto ed elegante suo stile. Abbiamo una Vita di questo illustre poeta che va sotto il nome di Donato, il qual però sembra che da Svetonio l’abbia presa in gran parte, poichè sappiamo che questi aveane appunto scritta la Vita (V. Pitisci Comment. in Svet. t. 2, p. 1100). Da questa trarremo alcune delle più importanti notizie, di cui potrà, chi il voglia, vedere ivi le prove. Nacque egli in Cartagine circa l’anno 560, e fu schiavo per alcun tempo in Roma di un Terenzio, qualunque egli fosse, (di che controvertesi tra gli scrittori) da cui prese il nome. A molti cavalieri romani fu caro assai, singolarmente a C. Lelio e a P. Scipione Africano il giovine. Diessi a scriver commedie, e poichè ebbe composta la prima intitolata Andria, l’anno 587 essendo consoli M. Claudio Marcello e C. Sulpicio Gallo, recolla agli edili, perchè permesso gli fosse di porla sulla scena. Questi non sapendo se degno a tale onore fosse Terenzio, gli ordinarono che a Cecilio Stazio, di cui grande era allora la fama, recasse la sua commedia e ne chiedesse il parere. Andovvi egli mentre Cecilio si stava cenando, e a lui introdotto, poichè era in vile e povero arnese, gli fu come a spregevol persona dato a sedere su di un picciolo sgabello appiè del letto su cui cenava Cecilio. Ma questi uditine appena alcuni versi ne conobbe e ne ammirò il valore; e fattolo seder seco alla cena, ne udì poscia il rimanente con sua gran maraviglia. Così Donato, ossia Svetonio. Ma s’egli è vero, come sopra si è detto, che Cecilio Stazio morisse un anno dopo Ennio, cioè l’anno 585, egli è evidente che non potè Terenzio l’anno 587 recargli la sua commedia. Forse ciò che qui narrasi di Cecilio, vuolsi intendere di qualche altro rinnomato poeta che allor ci vivesse.
Sue commedie.
XXIII. Sei furono le commedie che Terenzio scrisse, e che sul romano teatro furono rappresentate dall’anno suddetto fino al 593, come chiaramente raccogliesi dagli antichi titoli alle commedie stesse premessi. Furono esse ascoltate con grande applauso, singolarmente quella ch’è intitolata l’Eunuco, che due volte in un giorno solo si volle rappresentata; e per questa commedia aggiugne Donato ch’egli ebhe otto mila sesterzii che corrispondono a un dipresso a dugento scudi romani, prezzo, dice lo stesso scrittore, a cui per commedia alcuna non erasi ancor pagato l’uguale. Soggiugne però Donato, e il prova colla testimonianza di molti antichi scrittori, essersi tenuta per cosa ferma e costante che nelle commedie di Terenzio gran parte avessero i suoi due amici Lelio e Scipione. Terenzio stesso non dissimula quest’accusa che contro di lui si spargeva; e la maniera con cui si difende, sembra anzi opportuna a confermarla più che a ribatterla (Adelph. prolog.).
Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobiles
Hunc adjutare, assidueque una scribere,
Quod illi maledictum vehemens existimant,
Eam laudem hic ducit maximam, cum illis placet.
Qui vobis universis et populo placent;
Quorum opera in bello, in otio, et negotio
Suo quisque tempore usus est sine superbia.
Suo viaggio in Grecia e sua morte.
XXIV. Forse, come osserva Donato, queste invidiose voci che contro di lui correvan per Roma, furon cagione ch’egli, poichè ebbe composte le sei mentovate commedie, se ne partisse per andarsene in Grecia; ma forse ancora un tal consiglio egli prese per meglio conoscere le usanze greche, e meglio ancora esprimerle ne’ suoi versi. Qualunque fosse la ragione della sua partenza da Roma, certo è ch’egli più non vi fece ritorno. Reca Donato le diverse opinioni che della morte di lui si divulgaron per Roma. Altri scrissero che salito in nave, più non fu veduto da alcuno: altri, che nel tornare di Grecia, portando seco cento otto commedie che dal greco di Menandro
avea volte in latino, perì di naufragio; ma i più, ch’egli morì in Grecia l’anno 594; singolarmente per dolore che il prese all’udire che il suo bagaglio cui insieme colle nuove sue commedie avea spedito innanzi per mare, risoluto poi egli ancora di tornarsene a Roma, erasi affondato.
Carattere delle commedie di Terenzio.
XXV. Diversi sono i pareri de moderni precettori di poesia intorno alle commedie di Terenzio. Altri le innalzano fino alle stelle, altri ne sentono bassamente. Ma io penso che tutti si arrenderan volentieri al parere di due de’ più grandi uomini di tutta l’antichità, e de’ più atti a giudicare in questo argomento, dico di Cicerone e di Giulio Cesare. Alcuni lor versi ci sono stati da Donato conservati, ne quali il carattere formano e l’elogio di questo poeta. Cicerone ha così:
Tu quoque, qui solus lecto sermone, Terenti,
Conversum expressumque latina voce Menandrum
In medio populi sedatis vocibus effers,
Quidquid come loquens, ne omnia dulcia dicens.
Cesare alle virtù di Terenzio aggiugne ancora i difetti:
Tu quoque, tu in summis, o dimidiate Menander,
Poneris, et merito puri sermonis amator.
Levibus atque utinam scriptis adjuncta foret vis
Comica, ut aequato virtus polleret honore
Cum Graecis, neque in hac despectus parte jaceres.
Unum hoc maceror et doleo tibi deesse, Terenti.
Noi veggiam dunque che amendue esaltano sommamente Terenzio per la purezza del latino linguaggio, per la dolcezza dello stile, per l’imitazion di Menandro. Ma Cesare desidera in lui maggior forza di sentimenti. In tal maniera sembra che i biasimatori e i lodatori di Terenzio si possano accordare insieme; e tale è appunto il sentimento del P. Rapin nel parallelo ch’egli ha formato di Plauto e di Terenzio, con cui porrò fine alla serie finor tessuta de latini poeti di questa età. Plauto, dic’egli (Réflex. sur la Poétique n. 26), è ingegnoso ne’ suoi disegni, felice nelle sue immaginazioni, fertile nell’invenzione; non lascia, è vero, d’aver facezie, al parere di Orazio, grossolane e vili; e i suoi motti movevan talvolta alle risa il popolo, gli uomini colti a compassione; molti ne ha eleganti e graziosi, ma molti sciocchi ancora — non è così regolare nell’ordine delle sue commedie, nè nella distribuzion degli atti, come Terenzio; ma è più semplice ne’ suggetti, perciocchè le azioni di Terenzio sono ordinariamente composte, come si vede nell’Andria che contiene doppio amore. E rimproveravasi appunto a Terenzio, che per più animare il teatro, di due commedie greche una ne componesse latina. Ma gli scioglimenti di Terenzio sono più naturali di que’ di Plauto, come altresì que’ di Plauto più di que’ d’Aristofane. Benchè Cesare appelli Terenzio un diminutivo di Menandro (dovea dire piuttosto un dimezzato Menandro), poichè ne ha la dolcezza e la dilicatezza, ma non ne ha la forza e il vigore, egli ha nondimeno scritto con uno stile così naturale e giusto, che di copia che egli era, è divenuto originale; perciocchè niun autore vi è stato che un fino gusto della natura abbia avuto al par di Terenzio. Così egli, il cui testimonio ho qui volentieri addotto, come di uomo che per sentimento dell’ab. Goujet (Biblioth. franc. t.3, p. 112) che da niuno, io spero, crederassi pregiudicato, meglio forse di ogni altro moderno ha trattato ciò che all’arte poetica appartiene. Si può ancora vedere ciò che di questi due poeti e del loro diverso carattere dice lo stesso ab. Goujet. (ib. t.4, p. 330 e 393).
Per quale ragione i Romani in questa parte non uguagliassero i Greci
XXVI. Così fra’ Romani si venne perfezionando la latina lingua non meno che la poesia nel sesto secol di Roma, e sul principio del settimo fino alla terza guerra Cartaginese ch’ebbe cominciamento l’anno 604, e finì l’an 607. E certo le commedie di Plauto e di Terenzio ci fan conoscere qual felice progresso facessero i Romani ne’ teatrali componimenti. Convien però confessare che questi non uguagliaron giammai nelle commedie il valore de’ Greci. Noi, dice Gellio (l. 2, c. 23), leggiam le commedie de nostri poeti prese e tradotte da quelle de’ Greci, di Menandro cioè, di Posidio, di Apollodoro, di Alessi e di altri. Or quando noi le leggiamo, non ci dispiacciono esse già, che anzi ci sembrano con lepore e con eleganza composte. Ma se tu prendi a paragonarle cogli originali greci da cui furono tratte, e ogni cosa di seguito e diligentemente tra lor confronti, comincian le latine pur troppo a cadere di pregio e a svanire al paragone; così sono esse oscurate dalle commedie greche cui invano cercarono di emulare. Ma qual crederem noi che fosse la vera ragione di sì grande diversità? Non certo la dissomiglianza degl’ingegni, o la diversa indole delle lingue. Perciocchè se in altre cose poterono i Romani uguagliar presto e superare ancora i Greci, perchè nol poterono in questa ancora? Io penso che tutta estrinseca fosse la ragione di tal mancanza, e quella appunto che Cicerone ne reca, cioè che in poco onore furono per lungo tempo i poeti, e che perciò quanto meno erano essi pregiati, tanto minore si fu lo studio della poesia; perciocchè, soggiugne lo stesso Tullio, l’onore è quello che alimenta le arti, e sempre dimenticate si giacciono quelle cose che non riscuotono lode (Quaest. Tuscul. l. 1, n. 2). Noi veggiamo di fatto che tutti i più antichi poeti, e la più parte ancora di quelli che venner dopo, de’ quali abbiamo finora parlato, furono e di vil nascita e stranieri; e se Lelio e Scipione non si sdegnarono di unirsi a Terenzio per comporre commedie, non vollero però giammai che cosa alcuna apparisse sotto il lor nome. Così piaceva in Roma la poesia, piacevano i poeti, ed eravi ancora chi gli amava e gli proteggeva; ma ciò non ostante non era in quell’onore l’arte di poetare, che convenuto sarebbe, perchè i Romani con impegno prendessero a coltivarla; ed era anzi considerata come un piacevol trastullo che dagli stranieri procurar si dovesse a’ Romani lor vincitori, che come un pregevole ornamento di cui ad essi ancor convenisse mostrarsi vaghi. E questa probabilmente fu ancor la ragione per cui in questo secolo la teatral poesia, cioè la più dilettevole, maggiormente fu coltivata. Ma venne tempo in cui a maggior onore e quindi a perfezione maggiore salì quest’arte. Prima però di venire a questo, è a vedere in quale stato frattanto fossero le altre scienze in Roma, di che or ora ragioneremo.
Della costruzione del teatro romano.
XXVII. Potrebbe per avventura sembrare ad alcuno ch’io qui dovessi trattare ancora della struttura, delle diverse parti e degli ornamenti del romano teatro. Ma a me non sembra che ciò propriamente appartenga alla Storia della Letteratura. Chi brama essere in ciò istruito, può vedere ciò che ne hanno, per tacer di altri, il Quadrio (t. 4, p. 471 ec-) e cavalier Carlo Fontana nel suo Anfiteatro Flavio stampato all’Aia l’anno 1725, in cui tutti i teatri ch’erano in Roma, accuratamente descrive.
- ↑ Per mostrare che Livio Andronico non era veramente greco di nascita, ma italiano nato nella Magna Grecia, ho affermato che se Livio era veramente greco, non si potrà facilmente spiegare come divenisse egli schiavo de’ Romani che non aveano allor co’ Greci nè guerra, nè commercio alcuno. Vi è stato chi mi ha opposto, che essendo allora universale il traffico degli schiavi, poteva Livio ancorchè greco passar nelle mani de’ Romani, comunque essi non avessero comunicazione co’ Greci. Che ciò potesse accadere, io non ardirò di negarlo. Ma non so se si possa additare alcun Greco schiavo in Roma prima di questi tempi. Io ho usato di qualche diligenza per trovar menzione di qualcheduno di essi; ma inutilmente. Chi ha più agio di me, potrà esaminar questo punto più in miramente. E quaunque sia l’esito di tai ricerche, si proverà al più che Livio poteva essere greco, ma non si proverà che il fosse certamente; e il vedere che gli altri poeti suoi contemporanei erano comunemente o della Magna Grecia, o de’ vicini paesi, sarà sempre una non leggera congettura a pensare che di quelle provincie medesime fosse natio ancor Livio.
- ↑ Il ch. P. Eustachio d’Afflitto domenicano, che una nuova Biblioteca degli Scrittori Napoletani, scritta con eruditone e con esattezza non ordinaria, ha cominciato a pubblicare, conferma e svolge più ampiamente la mia opinione, che Andronico fosse natio della Magna Grecia; e inoltre a maggior gloria di quelle provincie osserva che esse entrano ancora a parte delle glorie degli Etruschi, perciocchè una parte almeno di esse era anticamente nell’Etruria compresa (Man. degli Scritta. Napol. t.i, p. 342). Una nuova spiegazione ha egli data del passo di Svetonio intorno alle scuole tenute da Andronico e da Ennio, e vuole col Casaubono che non Graece, ma Graeca interpretabuntur si debba ivi leggere. Veggasi l’opera stessa, poichè troppo a lungo mi dondurrebbe l’entrare in sì minute ricerche.
- ↑ Ho attribuita la prigionia ili Nevio allo sdegno di Metello da lui provocato, e ho aggiunto ch’io non sapeva ove avesse trovato il Quadrio che Scipione singolarmente fosse da lui oltraggiato, e che questi perciò fosse il principale autore della disgrazia di questo poeta, lo ho poi trovato il fondamento dell’opinione del Quadrio, ch’è seguita ancora da altri. Gellio riferisce tre versi di Nevio (l. 6, c. 8), de’quali egli dice che fu quasi evidente ch’essi ferivano Scipion l’Africano il maggiore: propemodum constitisse hosce versus a Ca. Nevio poëta in eum scripios esse. Ecco gli accennati versi:
Etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriose,
Cujus facta viva nunc vigent, qui apud gentews solus
Praestat, eum suus pater cum pallio uno ab amica abduxit,Quindi può essere veramente che Scipione da Nevio offeso con questi versi ne punisse l’ardire col farlo chiudere in prigione. Ma come Gellio dice solo che fu quasi certo che il poeta volesse punger con questi Scipione, e dall’altra abbiamo i versi in cui lo stesso Nevio morde nominatamente Metello, non parmi che l’opinione del Quadrio sia ancora abbastanza provata. Qui pure doveansi accennare i versi pieni, come dice Gellio (l. 1, c. 24), di Campana arroganza, che Nevio avea composti, perchè fossero incisi sul suo sepolcro; il qual autore ancor riferisce que’ che da Plauto e da Pacuvio erano stati composti al fine medesimo, dal primo con non minore alterigia, dal secondo più modestamente assai.
- ↑ Il sepolcro degli Scipioni qui accennato fu poscia felicemente scoperto l’anno 1780, e se ne può vedere la descrizione allor data nell’Antologia Romaua (an. 1780, n. 9, p. 385; i. 1781, n. 48, p. 377), e se n’è aggiunto ancora un estratto alla ristampa fatta in Roma di questo primo tomo; il quale qui da noi si ommette come cosa con questa Storia non abbastanza connessa.
- ↑ Il ch. sig. can. Annibaie di Leo mi ha poi gentilmente trasmessa copia delle sue Memorie di M. Pacuvio qui da me accennate, e che sono scritte con molta erudizione e con uguale esattezza. Egli prova assai bene che la nascita di questo poeta dee fissarsi circa l’ anno di Roma 534; osserva che Cicerone benchè riprendesse talvolta lo stil di Pacuvio, parlò nondimeno più volte con molta lode delle tragedie da lui composte; nomina gl’illustri amici ch’egli ebbe in Roma, e riferisce l’elegante ma semplice iscrizione sepolcrale ch’ei medesimo si compose e che ci è stata conservata da Gellio; mostra che non ha alcun fondamento ciò che narrano alcuni, cioè ch’egli avesse tre mogli, e che tutte e tre si appiccassero a una medesima pianta; ci dà un esatto catalogo di tutte le opere di Pacuvio, altre fino a noi pervenute, altre perite; e reca finalmente ed esamina il giudizio che delle poesie di Pacuvio han dato gli antichi scrittori.