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LIBRO SESTO — 1806. 5

rassegnarsi al nemico. Esiziale e insensato amor di se stesso, ma necessario effetto del grossolano ragionare di popoli usati alla servitù; così miseri da sperare più che temere le novità di governo.

Ed aggiungi che nelle guerre di Napoli, sempre mosse o secondate da politiche fazioni, i soldati ad un tempo combattenti e partigiani, vedendo unite a’ cimenti delle battaglie le tristezze delle prigioni, degli esilii, delle condanne, quando anche sprezzatori di primi pericoli perchè onorati, paventavano gli altri perchè infami, e perchè agli uomini è natura temer le offese che la propria virtù non può sfuggire o vendicare. E avverti che dopo la tiranna per i popoli bilancia politica degl’imperii, l’esercito straniero arrivato alla frontiera di Napoli, dominatore in Italia, ha già vinto per l’armi o col nome nazioni e re. Avessimo almeno fortezze sul confine, linee interne, ostacoli d’arte per menare a lungo la guerra e sperare ajuto del tempo; ma è nuda la frontiera, è nudo il regno dal Tronto al Faro.

Le quali particolarità geografiche e politiche spiegano alcuni casi della nostra recente istoria, maravigliosi per le rozze menti: avvegnachè i Napoletani, intrepidi al duello, arrischiati nelle civili fazioni, mancarono nelle guerre ordinate e proprie; e le stesse milizie, valorose in Ispagna, in Alemagna, in Russia, sbigottiscono in Italia, fuggono sul Garigliano e sul Tronto. Lo che addiviene dall’esser eglino solamente soldati su la Dwina e sul Tago; ma in Italia faziosi, alla frontiera ribelli; e non vi essendo possanza d’animo e di membra che basti a schivare le ricerche della polizia, le furie della tirannide, succedono al sentimento della propria forza il dubbio, il timore, la prudenza e la fuga. Quei che temono la vergogna più che la prigione o i patiboli, non fanno nerbo di esercito; virtù solitarie e sventurate dopo lode fuggitiva vanno a perdersi nelle sorti e nell’onta comune.

VI. Dalle cose discorse in questo capo deriverebbe che la società napoletana fosse nel 1805 rozza, e che le si convenissero costituzioni di governo, piuttosto che libere, assolute. Ma per la opposta parte rammentando i prodigi di libertà del 1799, gli uomini chiari di quel tempo, l’abbassato papato, la già scossa feudalità, si crederebbe il popolo già maturo a migliori destini.

Le quali opposte sentenze, ambo vere, ambo fallaci, trovano spiegazione dal riflettere che il buon regno di Carlo, il regno migliore di Ferdinando sino al 1790, il genio riformatore del passato secolo avevano portato civiltà nei ministri della monarchia e nei sapienti, ma civiltà di dottrine che non giunge alla coscienza del popolo.

Dopo il 1790, il re, per lo spavento della rivoluzione di Francia, insospettito delle riforme di stato, mutò pensiero e peggiorò il