Storia dei Mille/I borbonici all'offensiva
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I borbonici all’offensiva.
Tornando ai fatti allora presenti, i borbonici si erano svegliati la mattina del 22 maggio, certi di avere ancora in faccia Garibaldi su al passo di Renda, dove tutta la notte erano stati tenuti accesi dei grandi fuochi. Ma allo schiarirsi s’accòrsero che egli non era più là. Dove mai poteva essere andato? Forse la prima supposizione fu ch’egli si fosse ritirato indietro. Non passò loro neppur per la mente che avesse fatto quella marcia inverosimile per andarsi a porre sul loro fianco in quel nascondiglio di Parco. E non ne seppero nulla tutto quel giorno, perchè la Sicilia non dava spie, non ne seppero fino al mattino appresso, quando videro coronarsi d’armati il poggio che sorge sopra quel borgo. Certo là era lui; quelle che si vedevano non potevano essere squadre. E deliberarono di andare a trovarlo.
Il dì stesso sul vespro mossero, e parve per assalire Garibaldi in due colonne a tenaglia. Ma non era che un movimento per saggiarlo o forse per tirarselo giù nel piano. Egli aveva scelta bene la sua posizione; piantato Bixio a mezza costa col suo battaglione, il battaglione Carini aveva schierato lungo la strada che sale per quel dosso ed entra poi tra i monti verso Piana de’ Greci. I cannoni erano in batteria. Tutto era pronto per ricevere i borbonici. Ma la loro ala sinistra si avanzò appena a tiro di fucile, e scambiò qualche colpo con alcuni Picciotti che stavano sulle più basse falde, l’altra non si inoltrò neppur tanto. Erano dunque soltanto ricognizioni, ma volevano dire che per l’indomani si preparava qualche cosa di grosso.
E avvenne.
Alla levata del sole, un gran tratto della via da Palermo a Monreale fu visto dal Campo di Garibaldi sfavillar tutto d’armi. Pareva che i ventimila uomini del presidio fossero usciti tutti alla campagna, tanto era lunga quella traccia, la cui testa entrò nei fitti pomari e continuò a marciarvi nascosta, come s’indovinava dall’accorciarsi delle sue code.
Garibaldi, fermo nelle sue posizioni, faceva lavorar di zappa il suo Genio e la sua Artiglieria, come se si preparasse a ricevere l’assalto. Aveva già mandati i Carabinieri genovesi alla posta, là dove il primo incontro degli assalitori doveva naturalmente seguire, certo che contro le loro carabine il nemico si sarebbe sentito cader la baldanza. Antonio Mosto doveva pensare a reggervi quanto fosse possibile a brava gente qual era la sua, e alla fine ritirarsi la via che tutta la Colonna avrebbe pigliata, perchè Garibaldi, contro ogni apparenza data da principio alle proprie intenzioni, aveva deliberato un’altra volta la ritirata, quasi la fuga. Infatti, quando i primi colpi dei Carabinieri genovesi annunziarono che la colonna nemica attaccava, egli mise le sue Compagnie in marcia con l’artiglieria già avviata; passò egli stesso avanti a cavallo, disse qualche parola d’incoraggiamento, e un po’ di gran passo e un po’ di corsa, in una stretta lunga parecchie miglia, la marcia fu gagliardamente condotta.
Va’ e va’, anche quella volta le Compagnie furono messe a una dura prova, perchè quando trafelate giunsero a veder la Piana de’ Greci, e idealmente già vi si riposavano, con quel sentimento che devono avere sin gli uccelli migratori di oltremare all’apparire della terra; ecco le Guide a sbarrar loro la via e additare la salita a un monte. Uno sgomento! Ma lassù era già il Generale, di lassù chiamavano con alte grida ben note i più rotti alle fatiche; bisognava raggiungerli perchè il nemico tentava di precederli alla Piana de’ Greci varcando quel monte. Chi non era addirittura spossato ubbidiva.
Veramente il Comandante nemico che aveva ideato quel movimento, si era ingannato sulla possibilità d’eseguirlo, data la mobilità delle compagnie garibaldine. Contro altra gente forse gli sarebbe riuscito. Ma esso non aveva ancor guadagnata la prima, e già Garibaldi gli appariva sulla seconda delle cime che credeva di aver tempo a varcare, avanti che i garibaldini avessero percorso la via da Parco alla Piana. Così non ci fu che uno scambio di fucilate lassù da gola a gola; poi i borbonici se ne tornarono indietro giù pel versante verso Parco; Garibaldi, ridisceso dalla parte sua, andò a occupare la Piana de’ Greci.
Si chiama così la città degli Albanesi, adagiata in mezzo a una campagna grigia, grigia essa stessa e tetti e muri e tutto. Almeno aveva tale aspetto quel giorno, vista traverso l’aria infiammata del mezzodì, che tremolava come una sottilissima rete di fil d’argento, sì che uno avrebbe detto di poterla palpare solo a far quattro passi avanti. Oh che sole! Che refrigerio sarebbe stato sdraiarsi appena giunti tra quelle case! Ma la gente della città fuggiva. Cosa le avevano fatto credere di quei forestieri, di quel Garibaldi di cui anche i preti, i frati e le monache dicevano bene? Sapeva quella gente che i garibaldini avevano i borbonici alle spalle, e temeva che in quella sua città volessero far fronte al nemico e aspettarlo a battaglia? Certo non era cosa che dovesse incuorarla a stare. Il fatto è che fuggiva. Ed era proprio il 24 maggio, giorno che per costume di secoli gli Albanesi della Piana salgono al Monte delle Rose, a cantarvi con le fronti volte a oriente, verso l’antica patria, lamentose parole nella loro antichissima lingua.
O bella Morea, |
Quella data, quell’ascesa, quel canto ricordavano loro i dolori degli avi di tre secoli e mezzo indietro, che per non soggiacere ai Turchi s’erano rassegnati a lasciar l’Albania, e col fior degli Epiroti condotti da Giorgio Scanderberg avevano trovato rifugio in Sicilia, portando seco loro le immagini e quanto possedevano di più caro. Fiera e costumata gente, orgogliosa della sua origine, che ne’ suoi canti serba vivo il sentimento di quattro secoli, e sogna ancora che uno del suo sangue possa, quando che sia, ricondurla nella vecchia patria lontana.
Si può dire che i Garibaldini videro appena gli abitanti della città, perchè, accampati fuori, stettero stanchi, inquieti e pensosi d’altro. Sapevano che da un’ora all’altra il nemico che li seguiva sarebbe apparso. I Carabinieri genovesi che, sostenuto il primo assalto al Parco, s’erano ripiegati sulla colonna, raccontavano che i borbonici erano almeno cinque mila, mercenari bavaresi la più parte, con artiglieria e cavalleria. E lamentavano di aver perduto nello scontro Carlo Mosto e Francesco Rivalta, ai quali forse quei feroci non avevano dato quartiere. Tutti dunque erano pensosi. Che cosa meditasse il Generale lo ignoravano; se quella fosse una manovra o una vera ritirata, nessuno poteva dirlo. Garibaldi ne scrisse poi, riconoscendo egli stesso che quel giorno poteva essergli funesto, se avesse avuto da fare con un nemico più diligente.
Verso sera, le Compagnie furono rimesse in marcia, e ancora quasi con aria di ritirarsi in fretta. L’artiglieria e i pochi carri erano già stati incamminati verso Corleone, scortati da poche dozzine di quei militi, tra i quali i non ben guariti di Calatafimi. L’Orsini comandante dell’artiglieria aveva ricevuto l’ordine di andare, andar sempre; e la colonna gli si mise dietro persuasa che omai di Palermo non si sarebbe più parlato, se pure non c’era da dubitare che tutto dovesse finire con quanto già s’era sentito sussurrare due volte, cioè che Garibaldi avrebbe sciolta la spedizione, lasciando a ciascuno la cura di mettersi in salvo da sè. L’ora correva triste.
Ma dopo aver marciato un pezzo e fatta notte, la Colonna fu menata fuor della via Consolare a piantarsi in un bosco, dove accampò. Il luogo era selvaggio. E ordine fu dato di non parlare, di non accender fuoco neppure per fumare, di sdraiarsi ognuno nel posto ove si trovava senza più moversi per nulla.
Si discusse molto per trovare se tutte le cose che Garibaldi aveva fatto nei due giorni avanti a quello, e ciò che fece nei due dipoi, siano state fasi d’esecuzione d’un suo concetto svolto con intenzioni ben determinate; o se tutta una sequela di fatti, non legati tra loro da verun concetto, e venuti quasi fortuiti ora per ora, l’abbiano condotto al resultato glorioso d’entrar in Palermo, nel modo, per dir così, favoloso con cui v’entrò. E così, soltanto a discuterlo, si disconobbe tutto il suo studio di quei giorni, che fu di trar da Palermo una parte del grosso presidio; illuder questo, creandogli l’opinione d’aver costretto lui a rifugiarsi co’ suoi lontano; illudere il Comando supremo della capitale, farlo sicuro ch’egli non tornerebbe, tanto che vigilasse meno e si lasciasse sorprendere. Certo nell’esecuzione di quel suo disegno vi furono dei momenti ne’ quali potè parere il disegno stesso non fosse ben fermo, nè Garibaldi lo contesterebbe. Ma poi, che contestare quando si sa come egli pensava e sentiva? La guerra non la faceva per gusto, e non era per lui nè scienza nè arte. Si trovava al mondo in queste nostre età, in cui essa è ancora uno dei mezzi per far trionfar la giustizia, e la faceva senza cercarvi nè gloria nè altro. Anzi ne dimenticava i fatti appena li aveva compiuti. Non è forse vero che quando, per esempio, scrisse di Calatafimi, che pur egli stimava uno de’ suoi più bei fatti d’armi, ne scrisse quasi come uno che non vi fosse stato presente, e non avesse mai visto neppure quel campo? Nei tempi che verranno, tale noncuranza sarà forse il titolo più alto per la sua gloria di generale, cui nessuno preparava i mezzi di guerra, che tutto doveva improvvisare ed eseguire, solo con l’aiuto d’uomini devoti a lui come a un’idea; e col sentimento del bene, e con la fede in qualche cosa di superiore da cui si credeva assistito, andava avanti vincitore sempre, almeno moralmente anche quando era vinto.
In quel bosco, la forza misteriosa superiore da cui gli pareva d’essere assistito, gli si rivelò nello splendore d’Arturo, la bella stella che egli sin da giovane marinaio aveva scelta per sua. Lo udirono i suoi intimi rassicurarsi in quello splendore. Ciò almeno fu detto e creduto per tutto il campo, dove sottovoce si diceva che il Generale era lieto perchè Arturo appariva fulgido più che mai.
E se era n’aveva cagione. In quella notte, poco distante dal bosco, per la via consolare di Corleone, il nemico marciava sicuro di andare dietro di lui rotto e in fuga, e mandava a Palermo la notizia, e la notizia andava a Napoli, e Napoli diceva al mondo un’altra bugia così: «Le regie truppe riportarono una segnalata vittoria. Garibaldi battuto per la seconda volta al Parco, perduto un cannone e sconfitto a Piana de’ Greci, fuggiva inseguito dalla milizia verso Corleone. Gravi dissensi tra i ribelli.»
Invece quelle milizie non avevano battuto nessuno, non preso cannoni, nè inseguivano lui ma la sua artiglieria, di cui in quella manovra aveva saputo disfarsi; e lui si lasciava alle spalle coi suoi, più d’accordo che mai coi ribelli siciliani, e prossimi a far con essi la congiunzione.
Infatti all’alba, egli salì da quel bosco a Marineo, e vi si trattenne fino alla sera; poi marciò a Missilmeri, dove, come gli annunziava un messaggio del generale La Masa, lo aspettavano quattromila isolani che questi aveva raccolti per lui.
Certo la posizione in cui Garibaldi s’era posto con quella mossa era pericolosissima. Bastava che una spia ne avvisasse il Comandante della colonna nemica da lui così ben elusa, perchè essa tornasse indietro a schiacciarlo sotto Palermo. Tanto era ciò facile, che nella marcia di notte, da Marineo a Missilmeri, in un momento di sosta fu quasi da tutti creduto di averla addosso. E allora? Il senso della lor condizione era in tutti profondo. Ma non fu nulla. Ben presto, ripresa la marcia, apparve non lontano una gran luminaria. Era Missilmeri che li invitava.
Vi giunsero verso la mezzanotte e vi si posarono. Quanto erano tornati vicini a Palermo? La gente di Missilmeri diceva loro che dopo una piccola marcia, subito salito il monte a ridosso del paese, l’avrebbero veduta.
E la rividero il giorno appresso, da quel monte di Gibilrossa. Di lassù guardando a sinistra potevano anche scoprire quasi tutte le terre che avevano percorse. Oltre certi monti lontani doveva trovarsi Calatafimi. Come vi stavano i cari feriti gravi, dei quali non avevano più risaputo nulla? E quanti vi erano morti?