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I borbonici all’offensiva 159

gloria nè altro. Anzi ne dimenticava i fatti appena li aveva compiuti. Non è forse vero che quando, per esempio, scrisse di Calatafimi, che pur egli stimava uno de’ suoi più bei fatti d’armi, ne scrisse quasi come uno che non vi fosse stato presente, e non avesse mai visto neppure quel campo? Nei tempi che verranno, tale noncuranza sarà forse il titolo più alto per la sua gloria di generale, cui nessuno preparava i mezzi di guerra, che tutto doveva improvvisare ed eseguire, solo con l’aiuto d’uomini devoti a lui come a un’idea; e col sentimento del bene, e con la fede in qualche cosa di superiore da cui si credeva assistito, andava avanti vincitore sempre, almeno moralmente anche quando era vinto.

In quel bosco, la forza misteriosa superiore da cui gli pareva d’essere assistito, gli si rivelò nello splendore d’Arturo, la bella stella che egli sin da giovane marinaio aveva scelta per sua. Lo udirono i suoi intimi rassicurarsi in quello splendore. Ciò almeno fu detto e creduto per tutto il campo, dove sottovoce si diceva che il Generale era lieto perchè Arturo appariva fulgido più che mai.

E se era n’aveva cagione. In quella notte, poco distante dal bosco, per la via consolare di Corleone, il nemico marciava sicuro di andare dietro di lui rotto e in fuga, e mandava a Palermo la notizia, e la notizia andava a Napoli, e Napoli diceva al mondo un’altra bugia così: «Le regie truppe riportarono una segnalata vittoria. Garibaldi battuto per la seconda volta al Parco, perduto un cannone e sconfitto a Piana de’ Greci, fuggiva inseguito dalla milizia verso Corleone. Gravi dissensi tra i ribelli.»