Storia d'Italia/Libro XVIII/Capitolo X
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Capitolo decimo
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X
Aveva il pontefice, sperando sempre poco del soccorso, e temendo alla vita propria da’ Colonnesi e da’ fanti tedeschi, mandato a Siena a chiamare il viceré, sperando, anche, da lui migliore condizione: il quale andò cupidamente, credendo essere capitano dell’esercito. Arrivato a Roma, dove passò con salvocondotto de’ capitani dello esercito, veduto essere contro a sé mala disposizione de’ fanti tedeschi e spagnuoli, i quali dopo la morte di Borbone avevano eletto per capitano generale il principe di Oranges, non ebbe ardire di fermarvisi; ma andando verso Napoli, incontrato nel cammino dal marchese del Guasto, don Ugo e Alarcone, vi ritornò per consiglio loro: e nondimeno, non essendo grato all’esercito, non ebbe piú autoritá né nelle cose della guerra né nel trattato della concordia col pontefice. Il quale finalmente, destituto di ogni speranza, convenne il sesto dí di giugno con gli imperiali, quasi con quelle medesime condizioni con le quali aveva potuto convenire prima: che il pontefice pagasse allo esercito ducati quattrocentomila, cioè centomila di presente, che si pagavano di denari argento e oro rifuggito nel Castello, cinquantamila fra venti dí, dugento cinquantamila fra due mesi, assegnando per il pagamento di questi una imposizione pecuniaria da farsi per tutto lo stato della Chiesa; mettesse in potestá di Cesare, per ritenerlo quanto paresse a lui, Castel Santo Angelo, le rocche di Ostia di Civitavecchia e di Civita Castellana, e le cittá di Piacenza di Parma e di Modona; restasse egli prigione in Castello con tutti i cardinali, che erano seco tredici, insino a tanto che fussino pagati i primi cento cinquantamila, dipoi andassino a Napoli o a Gaeta per aspettare quello che di loro determinasse Cesare; desse statichi allo esercito per l’osservanza de’ pagamenti (de’ quali la terza parte apparteneva agli spagnuoli) gli arcivescovi sipontino e pisano, i vescovi di Pistoia e di Verona, Iacopo Salviati, Simone da Ricasoli e Lorenzo fratello del cardinale de’ Ridolfi: avessino facoltá di partirsi sicuramente del Castello Renzo da Ceri, Alberto Pio, Orazio Baglione, il cavaliere Casale oratore del re di Inghilterra; e tutti gli altri che vi erano rifuggiti, eccetto il pontefice e i cardinali: assolvesse il pontefice dalle censure incorse i Colonnesi, e che quando fusse menato fuori di Roma vi restasse uno legato in nome suo, e l’auditorio della ruota proposto a rendere ragione. Il quale accordo come fu fatto, entrò nel Castello con tre compagnie di fanti spagnuoli e tre compagnie di fanti tedeschi il capitano Alarcone; il quale, deputato alla guardia del Castello e della persona del pontefice, lo guardava con grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste e con piccolissima libertá.
Ma non furono con la medesima facilitá consegnate l’altre fortezze e terre promesse: perché quella di Civita Castellana era custodita in nome de’ collegati; quella di Civitavecchia recusò di consegnare Andrea Doria, benché n’avesse comandamento dal pontefice, se prima non gli erano pagati quattordicimila ducati, de’ quali diceva di essere creditore per gli stipendi suoi. A Parma e a Piacenza andò in nome del pontefice Giuliano Leno romano, architettore, in nome de’ capitani Lodovico conte di Lodrone, con comandamento alle cittá di obbedire alla volontá di Cesare; benché da altra parte avesse fatto occultamente intendere loro il contrario: le quali cittá, aborrendo lo imperio degli spagnuoli, recusorono di volergli ammettere. Ma i modonesi non erano piú in potestá propria, perché il duca di Ferrara, non pretermettendo l’occasione che gli davano le calamitá del pontefice, minacciando di dare il guasto alle biade giá mature, gli costrinse a dargli il sesto dí di giugno la cittá; non senza infamia del conte Lodovico Rangone, il quale, benché il duca avesse seco poca gente, se ne partí, non fatto segno alcuno di resistenza: e disprezzò in questo il duca l’autoritá de’ viniziani, i quali lo confortavano a non fare, in tempo tale, innovazione alcuna contro alla Chiesa. E nondimeno essi, non contenendo se medesimi da quello che dissuadevano agli altri, avuta intelligenza co’ guelfi di Ravenna, mandativi fanti sotto colore di guardarla per timore di quelli di Cotignuola, appropriorono a sé quella cittá; e ammazzato furtivamente il castellano, occuporono anche la fortezza, publicando volerla tenere in nome di tutta la lega; occuporono e, pochi dí poi, Cervia e i sali che vi erano del pontefice. Nello stato del quale, non essendo né chi lo guardasse né chi lo difendesse, se non quanto da se stessi per interesse proprio facevano i popoli, occupò Sigismondo Malatesta con la medesima facilitá la cittá e la rocca di Rimini.
Ma non avevano le cose sue avuta nella cittá di Firenze migliore fortuna. Perché, come vi fu la nuova della perdita di Roma, il cardinale di Cortona, impaurito per trovarsi abbandonato da’ cittadini che facevano professione di essere amici de’ Medici, non avendo modo, senza termini violenti ed estraordinari, di provedere a’ denari, né volendo per avarizia mettere mano a’ suoi, almeno insino a tanto che si intendesse il progresso degli eserciti che andavano per soccorrere il pontefice, non lo movendo alcuna necessitá, perché nella cittá erano molti soldati, e il popolo spaventato per l’accidente seguito della occupazione del palazzo non arebbe avuto ardire di muoversi, deliberò di cedere alla fortuna; e, convocati i cittadini, lasciò libera a loro l’amministrazione della republica, ottenuti certi privilegi ed esenzioni, e facoltá a’ nipoti del pontefice di stare come cittadini privati in Firenze, e abolizione per ciascuno di tutte le cose perpetrate per il passato contro allo stato. Le quali cose conchiuse, il sestodecimo dí di maggio, egli co’ nipoti se ne andò a Lucca; dove pentitosi presto del partito preso con tanta timiditá, fece pruova di ritenersi le fortezze di Pisa e di Livorno, le quali erano in mano di castellani confidenti al pontefice; e nondimeno questi, fra pochi giorni, non sperando per la cattivitá del papa soccorso alcuno, ricevuta anche qualche somma di denari, consegnorono quelle fortezze a’ fiorentini. I quali in questo mezzo, avendo ridotta la cittá al governo popolare, creorono gonfaloniere di giustizia per uno anno, e con facoltá di essere confermato insino in tre anni, Niccolò Capponi, cittadino di grande autoritá e amatore della libertá; il quale, desiderando sopra modo la concordia de’ cittadini e che il governo si riducesse a forma piú perfetta che si potesse di republica, convocato il prossimo dí il consiglio maggiore, nel quale risedeva la potestá assoluta del deliberare le leggi e di creare tutti i magistrati, parlò in questa sentenza1.
Furono gravissime le parole del gonfaloniere e prudentissimi certamente i consigli, a’ quali se i cittadini avessino prestato fede sarebbe forse durata piú lungamente la nuova libertá. Ma essendo maggiore lo sdegno in chi ricupera la libertá che in chi la difende, e grande l’odio contro al nome de’ Medici per molte cagioni, e massime per avere avuto a sostentare in gran parte co’ danari propri le imprese cominciate da loro (perché è manifesto avere i fiorentini speso, nella occupazione e poi nella difesa del ducato di Urbino, ducati piú di cinquecentomila, altanti nella guerra mossa da Leone contro al re di Francia, e nelle cose che succederono dopo la morte sua dependenti da detta guerra ducati trecentomila, pagati a’ capitani imperiali e al viceré, innanzi la creazione di Clemente e poi, e ora piú di secentomila nella guerra mossa contro a Cesare), cominciorono a perseguitare immoderatamente quegli cittadini che erano stati amici de’ Medici, perseguitare il nome del pontefice. Scancellorno per tutta la cittá impetuosamente le insegne della famiglia de’ Medici, affisse eziandio negli edifizi fabbricati da loro; roppeno le immagini di Leone e di Clemente che stavano nel tempio della Annunziata, celebrato per tutto il mondo; costrinseno i beni del pontefice, a esazione di debiti vecchi, non pretermettendo cosa alcuna, la maggiore parte di loro, appartenente a concitare lo sdegno del pontefice, e a nutrire divisione e discordia nella cittá: e arebbono moltiplicato a maggiori disordini se non si fusse interposta l’autoritá e prudenza del gonfaloniere, la quale però non bastava a rimediare a’ molti disordini.
- ↑ [Nota qui il Gherardi: «A questo punto, nel piú antico Codice (III 966), l’autore scrisse: «Lascisi lo spatio di tre carte». E tre carte infatti, anzi qualcosa piú (pag. 2253 in parte e 2254—59) furono lasciate bianche nel Codice V, che immediatamente deriva da quello; e similmente tre carte e un po’ piú (pagg. 728—734) furono lasciate in VI—V». — L’edizione detta di Friburgo e quella del Rosini avvertono che l’orazione del Capponi trovasi nella Istoria di Benedetto Varchi, e l’edizione del Conti la riproduce in nota prendendola appunto dall’opera del Varchi].