Storia d'Italia/Libro XVIII/Capitolo IX
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IX
Restava adunque a’ rinchiusi nel Castello solamente la speranza del soccorso dello esercito della lega; il quale, partito da Firenze, non prima (credo) che ’l terzo o il quarto dí di maggio (perché i viniziani erano stati lenti a pagare i svizzeri), camminava, precedendo una giornata il marchese di Saluzzo alle genti viniziane ma con ordine accordato tra il duca e lui che seguitassino per il medesimo cammino. Nondimeno, il settimo dí, il duca, contro all’ordine dato, si dirizzò dallo alloggiamento di Cortona alla volta di Perugia, per arrivare a Todi e poi a Orti, e quivi passato il Tevere unirsi con gli altri. I quali, camminando per il cammino disegnato, sforzorono e saccheggiorono Castello della Pieve, che aveva recusato di alloggiare dentro i svizzeri, con morte di seicento o ottocento uomini di quegli della terra. Per il quale disordine, intenta la gente alla preda, non si condusseno prima che a’ dieci dí al ponte a Cranaiuolo, dove ebbeno avviso della perdita di Roma, e agli undici a Orvieto: dove, per consiglio di Federigo da Bozzole, si spinse il marchese di Saluzzo, egli e Ugo de’ Peppoli, con grossa cavalcata alla volta del Castello; disegnando egli e Ugo andare insino al Castello, e restando il marchese dietro per fare loro spalle; sperando trovare sprovisti gli imperiali e avere, col subito arrivare, occasione di cavare di Castello il pontefice e i cardinali: sapendosi massime i soldati, per la grandezza della preda, posposti gli altri pensieri, non essere intenti ad altro. Ma il disegno riuscí vano, perché a Federigo, non essendo giá molto lontani da Roma, cadde il cavallo addosso, dal quale offeso molto non potette andare piú innanzi; e Ugo presentatosi presso al Castello essendo giá fatto il dí, dove l’ordine era dovessino arrivare di notte, si ritirò: conoscendo, secondo diceva egli, scoperta l’occasione, ma secondo diceva Federigo, temendo piú che non sarebbe stato di bisogno.
Il duca di Urbino intratanto, inteso l’accidente di Roma, ancora che affermasse volere soccorrere con tutte le forze il pontefice, nondimeno, parendogli occasione di levare lo stato di Perugia di mano di Gentile Baglione, mantenutovi con l’autoritá del pontefice, e rimetterlo in arbitrio de’ figliuoli di Giampaolo, accostatosi con le genti de’ viniziani a Perugia, costrinse con minacce Gentile a partirsene; e lasciatavi guardia sotto capi dependenti da Malatesta e da Orazio, de’ quali l’uno era rinchiuso in Castello Santo Agnolo l’altro era in Lombardia con le genti de’ viniziani, poiché, in questa fazione ebbe consumato tre dí, si condusse, a’ quindici o a’ sedici, a Orvieto, essendo stato causa di molta dilazione il cammino preso da lui dall’alloggiamento di Cortona per andare di lá dal Tevere alla volta di Roma. A Orvieto si convenneno insieme tutti i capi dello esercito per risolvere le fazioni future. Sopra le quali il duca di Urbino, mostrato nel preambolo delle parole caldezza grande, proponeva molte difficoltá, ricordando sopra tutto il pensare alla sicurtá della ritirata se non riuscisse il soccorso del Castello; però volle statichi da Orvieto, per assicurarsi che nel ritorno non mancherebbeno di dare le vettovaglie allo esercito; e interponendo a tutte le cose lunghezza di tempo, risolvé finalmente di essere a’ diciannove a Nepi, e che il dí medesimo il marchese con le sue genti e il conte Guido co’ fanti italiani fussino a Bracciano, per andare tutti il dí seguente all’Isola, luogo lontano da Roma nove miglia: dove non furono gli eserciti (perché il duca soprastette a Nepi) prima che a’ ventidue. La quale dilazione fu causata dall’andata di Perugia, da essere stato alloggiato tre dí a’ piedi di Orvieto, e fermatosi uno dí nello alloggiamento di Nepi. La venuta de’ quali intendendosi dal pontefice, per lettere del luogotenente scrittegli da Viterbo, fu cagione che, essendo quasi conclusa la concordia tra gli imperiali e lui, recusò di sottoscrivere i capitoli, non tanto per la speranza che egli raccogliesse dalle lettere (le quali, benché scritte cautamente, gli accennavano quel che, discorrendo il passato, potesse sperare del futuro) quanto per fuggire la ignominia che alla sua o timiditá o precipitazione si potesse attribuire il non essere stato soccorso.
Era ne’ franzesi prontezza di soccorrere, e i viniziani con lettere calde augumentavano la medesima disposizione, avendone parlato ardentemente il principe nel consiglio de’ pregati; però, non restando al duca altra scusa, volle che il dí seguente si facesse la mostra di tutti gli eserciti; sperando trovare il numero diminuito in modo che gli desse giusta cagione di ricusare il combattere: disegno che riuscí vano, perché nello esercito, ancora che molti se ne fussino partiti, erano restati piú di quindicimila fanti, e tutta la gente dispostissima maravigliosamente a combattere. Consultossi, fatto la mostra, quello che fusse da fare; ed essendo molti disposti che si andasse a fare lo alloggiamento alla Croce di Montemari (come con grande instanza ricercavano quegli del Castello), allegando che, per essere alloggiamento forte e lontano da Roma tre miglia né essere da temere che gli imperiali uscissino ad alloggiare fuora di Roma, lo stare quivi e il ritirarsi potersi fare senza pericolo, e da quello alloggiamento potersi meglio conoscere e meglio eseguire l’occasione di soccorrere il Castello. Ma non piacendo al duca questa risoluzione, accettò uno partito proposto innanzi al tempo da Guido Rangone, che offeriva con tutti i cavalli e le fanterie ecclesiastiche accostarsi la notte medesima al Castello per fare pruova di trarne il pontefice; pure che il duca d’Urbino col resto dello esercito si conducesse insino alle Tre Capanne per fargli spalle. Ma non si eseguí la notte questo disegno, perché il duca, stimolato dagli altri, cavalcò per riconoscere l’alloggiamento di Montemari: e nondimeno, appropinquatosi la notte, non passò le Tre Capanne. Ma essendosi per questa andata perdute molte ore vanamente, fu necessario differire l’eseguire la deliberazione fatta alla notte futura. Ma il dí medesimo, avendo il duca fatto riferire a certe spie (o vere o subornate) che fussino le trincee fatte in Prati piú gagliarde, che non era la veritá, e lo avere rotto (il che anche era falso) in piú luoghi il muro del corridore donde si va dal palazzo di Vaticano a Castello Santo Angelo, per potere, se si scopriva gente, soccorrere subito da piú bande, e proposto da lui molte difficoltá, che tutte furono consentite da Guido e approvate da quasi tutti gli altri capitani, si conchiuse essere cosa impossibile di soccorrere allora il Castello; ributtati agramente dal duca alcuni degli altri capitani che si sforzavano, disputando, di sostentare la contraria opinione. Cosí restava in preda il pontefice, non si rompendo pure solamente una lancia per cavare di carcere colui che per soccorrere altri aveva soldato tanta gente e speso somma infinita di denari e commosso alla guerra quasi tutto il mondo. Trattossi nondimeno se quel che non si faceva di presente si potesse fare in futuro con maggiori forze: alla qual cosa, proposta dal duca, rispose esso medesimo che indubitatamente soccorrerebbe il Castello qualunque volta nello esercito fusse il numero vero di sedicimila svizzeri, condotti per ordinazione de’ cantoni, non computando in questi quegli che allora erano nello esercito, come giá fatti inutili per la lunga dimora in Italia; e oltre a’ svizzeri, diecimila archibusieri italiani tremila guastatori e quaranta pezzi di artiglieria; ricercando il luogotenente che confortasse il pontefice (che si intendeva avere da vivere per qualche settimana) che aspettasse ad accordarsi tanto che si mettessino insieme queste forze. E replicando il luogotenente che intendeva la proposta sua in caso non si variasse intratanto lo stato delle cose, ma essendo verisimile che, in questo tempo, quegli che erano in Roma, con nuove trincee e fortificazioni, farebbeno il soccorso piú difficile, e anche che del reame di Napoli verrebbeno a Roma le genti che erano state condotte dal viceré in su l’armata, desiderare di sapere che speranza potesse dare al pontefice quando, come era verisimile, succedessino queste cose, rispose che in tale caso si farebbe il possibile; e soggiugneva che congiungendosi le genti che erano a Napoli a quelle di Roma sarebbeno in tutto piú di dodicimila fanti tedeschi e otto in diecimila fanti spagnuoli: però, perdendosi il Castello, non si potere disegnare di vincere la guerra se non si avessino veramente almeno ventidue o ventiquattromila svizzeri. Le quali dimande essendo come impossibili sprezzate da tutti, lo esercito, il primo dí di giugno, molto diminuito di fanti, si ritirò a Monteruosi; non ostante che il papa, per favorirsene nelle pratiche dell’accordo, avesse fatto molta instanza che e’ soprasedesse a levarsi: e la notte medesima, Piermaria Rosso e Alessandro Vitello con dugento cavalli leggieri passorono a Roma agli inimici.